19/06/2007

Northern Soul

Richard Ashcroft e il fantasma di Nick Drake

Quando meno te l’aspetti, qualcuno, che pure era cresciuto in mezzo alle luci psichedeliche dei dancefloors britannici, ha tirato fuori proprio quella (obsoleta) chitarra acustica, e tra la riscoperta di un disco di Nick Drake e uno di John Martyn, ha deciso che era il momento di tornare alla ‘grande’ musica, quella vera, quella delle emozioni più sincere.

Prima Beth Orton, con la sua electronica unplugged, e adesso nientemeno che l’ex frontman dei Verve, Richard Ashcroft. Che ha inciso un disco pieno di ombre e di inquietudini cantautorali dove il fantasma di Nick Drake fa capolino in più di un’occasione.

Ecco perché, dopo aver raccolto le parole dello stesso Ashcroft, abbiamo voluto dare spazio proprio alla figura cult di Nick Drake, il cantautore morto giovanissimo per troppa solitudine, che negli ultimi anni è stato riscoperto in modo massiccio dall’ultima generazione di rock heroes. Per omaggiare anche la recente ristampa ‘definitiva’ dei suoi tre dischi, abbiamo raccolto la testimonianza del suo scopritore, Joe Boyd.

Da Wigan, il noioso paesotto della provincia del Lancashire da cui dieci anni fa “era fuggito per vincere”, per dirla alla Springsteen, Ashcroft ne ha fatta di strada. E ha anche vinto, quando Bitter Sweet Symphony ha sbancato, tre anni fa, le classifiche di tutto il mondo, ma ha pagato un caro prezzo, compresa l’umiliazione di vedere il proprio brano più famoso accreditato non a lui che l’ha scritto, ma alla coppia Jagger/Richards. Ma questa è una lunga e vecchia storia che appartiene al passato. Come al passato appartengono i Verve, la sua creatura, quel gruppo che lui ha amato come una famiglia, in cui è cresciuto e maturato, tra droghe psichedeliche e musica visionaria, e che come molte famiglie è andato in frantumi. Nessuno sa dove sia e cosa faccia oggi Nick McCabe, il chitarrista/architetto del suono Verve, ma Ashcroft ha comunque voltato pagina.

Che Richard Ashcroft non fosse solo un’abile performer e il frontman di una rock band, comunque, era già apparso evidente a chi aveva seguito con attenzione l’evoluzione del sound dei Verve. Dalle acidissime jam che costituivano il primo album (A Storm In Heaven, 1993), composizioni sempre più acustiche avevano fatto capolino tra i riff e le sovraincisioni della chitarra di McCabe e i “visionari racconti di pazzia” (come lui stesso li aveva definiti) di Ashcroft, che comunque costituivano sempre la prerogativa del loro repertorio. On Your Own, sul disco successivo (A Northern Soul) ne è già buona anticipatrice, ma saranno brani epocali come Sonnet, The Drugs Don’t Work e Lucky Man su Urban Hymns a tracciare in modo autoritario un filo diretto con la grande tradizione cantautorale britannica intimista e malinconica, che sembra lasciar intravvedere, dietro la figura di Ashcroft, l’ombra silenziosa e inquietante di Nick Drake.

Sposatosi dopo una lunga love story con l’avvenente Kate Radley, che ha letteralmente ‘rapito’ dagli Spiritualized di cui era la tastierista, e che adesso suonerà dal vivo con lui dopo avergli dato un figlio, Ashcroft è una persona nuova. Che non rinnega il passato, ma va avanti per la sua nuova strada. Deciso a far sua la grande tradizione cantautorale britannica, quella che dopo Donovan, Nick Drake, John Martyn e altri sembrava spazzata via dalle band trendy del brit pop (in cui qualcuno aveva rinchiuso – a torto – anche i Verve) e che proprio lui, insieme a Beth Orton sul fronte femminile, vuole riportare sotto la luce dei riflettori e alla dignità che le compete.

“Visto che sono circondato dai fantasmi di Shakespeare, canterò il mio ‘sonetto’ per-sonale’.”

Sonnet, forse la più bella canzone dei Verve, è il personale tributo al grande conterraneo che Ashcroft concede nell’intimità del piccolissimo Teatro Filodrammatici, venti mentri più a destra della Scala, dove costumi shakespeariani sono posati un po’ ovunque, e dove si sta esibendo nel suo personale unplugged alla stampa italiana per presentare il nuovo album Alone With Everybody.

È solo uno dei momenti di pura magia che il ‘nuovo’ Richard Ashcroft (non più ‘Mad Richard’ ma comunque carisma e aria inquietante ancora in abbondanza), deciso a conquistare una caratura da cantautore e non più da leader di una rock band, concede questa sera.

Come chitarrista (una dodici corde e una splendida sei corde dal look tipicamente nashvilliano) non è un granché, e forse se si fosse fatto accompagnare da un vero chitarrista la resa sarebbe stata senz’altro migliore, ma è evidentemente una scelta di campo, un apprezzabile quanto umile sforzo nel calarsi fino in fondo nel ruolo di singer/songwriter.

A Song For The Lovers, la già citata Sonnet, Money To Burn, You’re On My Mind In My Sleep (dedicata alla mamma della moglie, e “a tutte le mamme che sono venute prima”), Lucky Man (ancora dai Verve), I Get My Beat e una sincopata e riarrangiata Bitter Sweet Symphony firmano uno show breve ma emozionante, dove la vena lirica e melodica di Ashcroft si apprezza pienamente ed esce altrettanto pienamente allo scoperto.

La mattina dopo questa esibizione, sto en-trando nel lussuoso albergo milanese dove devo incontrare Richard Ashcroft per intervistarlo. Sono nella hall, e al banco della reception vedo un’inconfondibile figura che, mentre parla al telefono, si volta verso di me.

Non ho preso nessuna sostanza ‘stupefacente’ questa mattina, eppure quello che mi sta guardando dietro agli occhialini alla John Lennon dai vetri azzurri è proprio Liam Gallagher, il cantante degli Oasis. Se fossi inglese come lui mi chiederei “What the hell he’s doin’ here?”. In ogni caso mi chiedo se in questo albergo milanese si stia svolgendo una convention di gruppi brit pop, magari ci sono anche i Radiohead e gli altri ex Verve.

Mi spiegano poi che, dopo l’improvviso abbandono del tour di Noel Gallagher, gli Oasis, in vista dell’ormai vicina data milanese, dopo aver annullato alcune date in Germania, hanno in fretta e furia chiamato un nuovo chitarrista, sono venuti a Milano dove hanno affittato una sala prove e per qualche giorno risiedono nello stesso albergo di Ashcroft. Il quale, la scorsa notte, ha incontrato Liam e ha pensato bene di fare con lui le cinque del mattino bevendo vino e birra. Mentre mi siedo di fronte a Richard per cominciare la nostra intervista, molto educatamente Liam si avvicina al nostro tavolo (ehi, anche quando non canta ha sempre le mani intrecciate dietro la schiena…) chiedendo se questa è l’ultima intervista così da pranzare insieme all’ex Verve. Sì, è l’ultima intervista, Liam, please, wait a minute…

Nonostante la ‘nottataccia’, gli impegni del giorno precedente e le diverse interviste di questa mattina, Ashcroft è decisamente brillante, spiritoso, pronto a mettersi in discussione. Si muove in continuazione sulla sua sedia e fuma una sigaretta dopo l’altra, mentre i suoi occhi blu lanciano scintille.

Il tuo show acustico di ieri sera è stato davvero una piacevole sorpresa… Per caso stai pensando di registrare un vero e proprio unplugged?
Mi piacerebbe registrare un concerto acustico Mi piacerebbe incidere un album sulla falsa riga del live che Tim Buckley registrò alla Queen Elizabeth Hall (Dream Letter, nda): in quel disco tutto era strettamente legato alle vibrazioni che si possono generare con l’uso di pochissimi strumenti e credo potrebbe dimostrare la forza di un album come il mio, che ha una produzione sofisticata ma che può reggere bene anche in forma ‘solitaria’. A volte una chitarra e una voce possono essere potenti come una registrazione fatta a sessanta piste. Sì, sicuramente prima o poi registrerò qualcosa del genere. È piaciuto molto anche a me ieri esibirmi da solo con la mia chitarra.

Una delle cose che è facile notare nel tuo disco è il massiccio uso della pedal steel, lo strumento leader della musica country americana, anche se suonato con accenti psichedelici. Ci sono questi riferimenti alla musica country in diverse canzoni, così come a certo gospel rock tipicamente del Sud degli Stati Uniti…
Sì, è vero. Dovresti essere sordo e cieco per non accorgerti di quanta grande storia musicale proviene dall’altra parte dell’oceano. E sarebbe stupido non ‘prenderne’, per quanto tu possa. Io ‘prendo’ da tutto ciò che riesco a prendere, da gente come Gainsbourg e Morricone, li mischio con Gram Parsons, i Funkadelic, Sly And The Family Stone, Curtis Mayfield… Come se dicessi al tipo che suona la pedal steel: “Vieni qui, country boy, e suona”. E dopo metto quello che ha fatto in un computer e mischio tutto. Ma in questo disco la pedal steel era particolarmente necessaria per ottenere certe sonorità che la chitarra non può ottenere. Anche durante il nostro ultimo tour come Verve avevamo sul palco un suonatore di pedal steel, per cui è stata una scelta ovvia anche nel nuovo disco.

Alone With Everybody è un passo avanti verso una nuova dimensione musicale, meno rock e più cantautorale… Pensi di aver trovato il tuo sound?
A un certo punto della tua carriera non sei più così ossessionato da quelle che sono le tue ‘grandi’ influenze musicali. Quel genere di cose che ritieni che siano così grandi che nessuno le può eguagliare, quella mentalità per cui ‘tutto è già stato fatto’. Sei riuscito a trovare il tuo sound, hai la tua peronalità. Come dicevo una volta: “Vorrei essere nella stanza di Curtis Mayfield”; magari fra dieci anni qualche ragazzino dirà “Vorrei essere nella stanza di Richard Ashcroft”, nel senso che avrò una mia marcata originalità. Essere a quel punto in cui non stai più copiando… fare dischi che sembrano una copia dei Wire… Bisognerebbe finirla di continuare a ‘pulire la scarpe di John Lennon’… (Che a Liam Gallagher, seduto un paio di tavoli più in là, stiano fischiando le orecchie?, nda.)

Le canzoni del nuovo disco sono state tutte composte per l’occasione, o alcune erano già state composte quando ancora esistevano i Verve?
Alcune risalgono ancora ai tempi dei Verve, ad esempio A Song For The Lovers doveva essere inclusa nel nostro ultimo disco, ma non credevo funzionasse abbastanza bene. In seguito tutti i miei amici, familiari inclusi, hanno continuato a insistere perché io mi decidessi a registrarla, e così è stato. New York era un’idea che mi girava per la testa da diverso tempo, C’mon People anche… La maggior parte però le ho scritte nel mio studio casalingo quando siamo tornati dall’ultimo tour dei Verve. New York è scritta dal punto di vista di un ventiduenne che vi arriva per la prima volta, come ero io quando mi recai a New York la prima volta…

Una volta hai detto che New York è una città che tira fuori il tuo meglio…
È vero, come potrebbe essere altrimenti? Sono completamente affascinato da quella città. La canzone è scritta da quel punto di vista egoistico tipico del turista che sogna di andare a New York per tutta la vita e finalmente vede quello skyline e pensa che tutto quanto è stato messo lì apposta per lui… e che chiede continuamente “Dov’è il mio bagaglio? Dov’è il coffee shop?”. Oggi New York purtroppo è cambiata. Rudolph Giuliani ha tolto di mezzo tutti i vagabondi, così adesso a New York c’è sempre più gente del tipo ‘turista imbecille’… La prima volta che sono stato a New York era tutto più folle. Le strade sono troppo pulite, adesso…

‘Emozionalità’ sembra essere la parola chiave per comprendere la tua musica. Ti senti vicino a quanto ha fatto ad esempio Elvis Presley?
Elvis non ha mai scritto una canzone in tutta la sua vita ma aveva una capacità incredibile di trasformare le parole di una melodia e trasportare l’ascoltatore in uno spazio emozionale dove sapeva ispirare tanto che non aveva necessariamente bisogno di scrivere canzoni per essere quel grande artista che era. Ma questo fa sì che l’artista possa anche mentire all’ascoltatore su come lui sia realmente. La musica per me è ‘alcuni momenti’, la vita stessa è fatta di ‘momenti’, e la musica ti dà l’opportunità di fermare alcuni momenti. Potrei suonare il riff d’apertura di Brown Sugar per il resto della mia vita. I Rolling Stones per me, così come per te e per tutti, hanno avuto la capacità di fermare per sempre questo piccolo pezzo di energia emozionale così che possiamo suonarlo e risuonarlo ancora ed ancora… Good Vibrations, God Only Knows… God Only Knows: per quindici sterline posso comprare l’intero universo… Catturare quei ‘momenti emozionali’ è quello che cerco di fare…

Seppur meno presente che con i Verve, la tua musica ha ancora una forte componente psichedelica…
Quando eravamo più giovani, droga e sperimentazione musicale andavano di pari passo… Prendevamo molti acidi da ragazzi… Un momento prima ascoltavamo i Byrds, il momento dopo i Jefferson Airplane, non esistevano barriere per noi. Alcuni di noi erano davvero profondamente dentro quel trip per la musica acida californiana, altri erano dentro alla musica soul… Nel frattempo scrivevamo e suonavamo anche… Insomma, questo cocktail si è mischiato. Vedi, quegli occhiali da sole ‘psichedelici’ che porto oggi li porterò per il resto della mia vita, anche se credo che non farò mai più uso di acidi… Be’, adesso lo dico, non è detto che lo farò davvero, però al momento non ne sento nessun bisogno. Comunque, ho sempre considerato la mia musica come un esperimento ‘sonico’, un andare al di là delle porte chiuse, così tutte queste esperienze sono ancora dentro di me, e probabilmente un po’ della droga che ho preso è rimasta da qualche parte nel mio cervello, così ancora oggi puoi avvertire un feeling psichedelico nella mia musica.

Il titolo del disco (Alone With Everybody) cita una poesia di Charles Bukowski degli anni 70. C’è un motivo particolare dietro a questa scelta?
Nella settimana in cui dovevo trovare un titolo per il disco c’era una scatola di libri appoggiata sul tavolo. Ho sempre preso i titoli dei miei dischi qui e là, e c’era questo libro di poesie di Bukowski, Dog From Hell, con il verso “alone with everybody” che sembrava come un grido… e credo si adatti bene al disco.

Ti consideri un gran lettore di libri…
No.

…Perché in History, sul secondo disco dei Verve, ci sono dei riferimenti a William Blake…
Sono un lettore di libri degli anni 90: in una mano un libro e nell’altra il telecomando della televisione. Attualmente, però, sì, sento il bisogno di dedicare molto più tempo alla lettura di quanto abbia mai fatto da ragazzo. Sai, quando vai a scuola sei pieno di pregiudizi e pensi che Shakespeare sia la cosa più noiosa del mondo, e solo adesso mi sto liberando di questi pregiudizi e cominciando ad apprezzare la lettura.

Il video che hai girato per A Song For The Lovers è a dir poco inusuale, dove la musica è lasciata completamente in secondo piano. Com’è nata questa idea?
L’idea per questo video è del regista, Jonathan Glazer che in passato aveva già fatto dei video per i Radiohead e inoltre è l’autore di alcuni tra i migliori clip pubblicitari. Quando sono arrivato sul set e mi hanno chiesto di spogliarmi (nel video indossa solo un paio di jeans, nda) sono rimasto abbastanza shockato. Mi è venuto in mente Bob Dylan, il video dove si vede anche Allen Ginsberg (Subterranean Homesick Blues, nda) che credo sia il più bel videoclip di tutti i tempi: lui è in piedi in mezzo a un vicolo con dei fogli in mano tutto il tempo, lui mica ha mai fatto cose del genere… voglio dire spogliarsi mezzo nudo durante un videoclip…
Certo, oggi le cose sono diverse, i videoclip hanno un’importanza particolare per le case discografiche però sono riuscito a dargli una certa svolta. Ho voluto che fosse come un breve film, anzi, la scena chiave di un film che non è mai stato girato, un piccolo pezzo di cinematografia dark inglese. E l’idea del silenzio: voglio dire, fare un video con larghe parti in cui non si sente neanche la musica ha terrorizzato quelli di Mtv! Loro hanno paura del silenzio. Ci sono nazioni in cui il video non viene trasmesso durante il giorno ma solo di notte e non per l’ultima scena (quella in cui Ashcroft espelle le sue funzioni fisiologiche nella tazza del cesso, nda), ma per via del ‘silenzio’…

In un’intervista hai detto che non saresti mai riuscito a fare questo disco se non fosse stato per tua moglie Kate…
Sì. Sono in un momento in cui sto cercando di trovare un bilanciamento tra il mio lavoro e la mia vita privata. Non voglio che la musica diventi la cosa principale, così come non voglio che la famiglia sia l’unica cosa… Voglio provare a far sì che la mia musica sia la riflessione di quello che è la mia vita. È una cosa importante. Per molto tempo ho scritto musica che raccontava storie di pazzia, oggi è diverso.

In Everybody canti “Everybody’s got to feel the weight of death sometime, and find out what is like to be left behind” (“Tutti devono sentire il peso della morte, a volte, e scoprire cosa significa essere lasciati indietro”): Richard Ashcroft ha dovuto morire almeno una volta nella sua vita per dire questo?
Sono morto molte volte durante la mia vita. Troppe volte. Ho scritto quel verso perché mi sembrava che oggi nessuno riesca a comunicare più cose del genere nelle canzoni, nessuno ha voglia di parlare di morte in un brano musicale. La canzone dice di gettare via lo ‘zucchero’, gettare via le maschere che indossiamo, è l’ultima canzone del disco, vuol dire in un certo senso ‘ricomincia da capo’, prenditi le tue responsabilità, cosa farai della tua vita? E il verso successivo dice “fai crescere la magica bellezza della tua fragile mente”; molta gente vive la sua vita senza accorgersi della sua grandezza, di quanto è intorno e dentro di noi.

Sei sempre stato una persona spirituale, vero?
Amo Gesù (bacia il crocefisso d’argento che porta al collo, nda), ma non credo necessariamente a un tipo con la barba seduto su un trono che mi aspetta… “Ladies and gentlemen, we’re floating in space”…

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