15/06/2007

Laura Love

Davide contro Golia

Nelle sue vene scorre sangue europeo, africano e indiano. “E in qualche modo”, ama dire, “il mio corpo conserva memoria di cose che non ho vissuto. Cose che poi diventano musica.”

Difficile dare un nome a questa musica. Per un certo periodo la sua autrice, Laura Love, l’ha chiamata funkabilly, incrocio bastardo tra funk e hillbilly. Qualcuno l’ha battezzata funky-folk, o folky-funk. Altri preferiscono l’aggettivo afro-celtic, perché le canzoni di Laura accoppiano melodie celtiche e ritmi africani. Lei si autodefinisce una folksinger. Una folksinger particolare, aggiungiamo noi, dotata di una curiosità culturale fuori dal comune che la porta ad esplorare senza timore reverenziale svariati generi musicali.

Nata a Lincoln, Nebraska nel 1960, Laura Love esordisce su un palco a soli 16 anni d’età: quello del Nebraska State Penitentiary. Quasi una premonizione. Perché quella di Love è una carriera tutta vissuta nei ‘bassifondi’ del music business: molti concerti, poche soddisfazioni economiche. Giovanissima, nel 1983 si trasferisce a Portland e quindi a Seattle un po’ per amore (“Il mio lui era un chitarrista”), un po’ sfruttare le opportunità che solo una grande città può offrire a un’aspirante musicista. Mette su un gruppo, i Boom Boom G.I., e annusa l’aria che tira nel Nordovest.

“A Seattle ho trovato quello che cercavo: una scena viva, quella grunge, dove era facilissimo trovare qualcuno con cui suonare. Devo ammettere che i Nirvana sono una passione, per così dire, postuma. Allora quella musica mi sembrava troppo facile. Poi ho ascoltato l’Unplugged e ho capito la bellezza della visione musicale di Kurt Cobain. Ecco perché quelche anno fa ho rifatto Come As You Are. A Seattle c’è sempre stato grande scambio tra gli artisti. Bastava mettere un annuncio sul Rocket. Era una città hippy. Oggi invece è in ostaggio delle grandi firme dell’industria tecnologica, dalla Microsoft alla Amazon.com, e chi non può permettersi un certo stile di vita fugge dalla città. All’inizio degli anni Ottanta non era nemmeno necessario sapere suonare per stare in una band!”

Grazie a dio, Laura ha imparato non solo a suonare, ma anche a circondarsi di bravi musicisti. Per incidere i suoi primi tre dischi – Z Therapy (1990), Pangaea (1992) ed Helvetica Bold (1994), questi ultimi due efficacemente riassunti nella Laura Love Collection edita dalla Putamayo – ha addirittura fondato un’etichetta discografica. “All’inizio facevo cover. Ho iniziato a scrivere le mie canzoni perché ero stanca di sentirmi dire che quelle degli altri, che pure cantavo, erano sessiste e misogene”, racconta Laura, riferendosi a un articolo di Gillian Gaar di Rolling Stone. “Beh, aveva ragione. Ma mica l’ho capito subito: per rendermene conto ho dovuto capire il femminismo, le relazioni tra le razze e le classi sociali. Poi ho iniziato a scrivere canzoni sulle conseguenze che questi fattori hanno sulle nostre vite.”

Il risultato è notevole, specie adesso che con l’album Fourteen Days Love ha raggiunto la piena maturità artistica. Nei testi coniuga la consapevolezza sociale e politica del folk con una visione della società globalizzata di questi anni. Critica le grandi città che rischiano di trasformarsi in invivibili e costose “Nike Town” e auspica il reciproco assorbimento tra culture. Offre un’immagine di donna umana, vera, compassionevole, lontana dagli imperanti modelli di bellezza (anoressica, asettica, enigmatica) e di vita (frenetica, rampante, orientata al successo economico). Dice che, a volte, i piccoli Davide di questo mondo riescono a sconfiggere anche i più potenti Golia.

“Il riferimento a Nike Town nella canzone In Seattle non è casuale”, spiega Laura. “È un negozio enorme e, più che un megastore, vorrebbe essere un luogo di divertimento. Da quando in qua lo shopping è una forma di intrattenimento? In quanto alle dimostrazioni anti-WTO di Seattle dell’anno scorso, hanno fatto capire a molte persone che c’è un prezzo da pagare quando si decide di ignorare la sofferenza del prossimo e di maltrattare l’ambiente. Per questo ho apprezzato la decisione del comune di Seattle di bonificare il Longfellow Creek, che passa proprio vicino a casa mia. E penso che anche il casino delle elezioni aiuterà la gente a capire che Bush e Gore, repubblicani e democratici, non sono poi così diversi.”

Chissà se erano repubblicani o democratici i poliziotti che hanno fatto irruzione a casa della cantante accusandola di coltivare ‘erba’, esperienza descritta in una canzone del nuovo album, Sativa. “Quel che canto in quel brano è tutto vero, a parte il fatto che non mi sono fatta cinque anni di galera: mi hanno semplicemente obbligata a fare lavori socialmente utili. Crescevo queste belle piantine, ma non le utilizzavo nemmeno per fumare, sul serio. Non mi sembrava ‘sta grande cosa. Tutta colpa dell’isteria anti-droga dei nostri politici. C’è qualcuno che crede ancora che la marijuana sia dannosa quanto l’alcol o la cocaina? Non ho mai visto nessuno assumere comportamenti violenti o dannosi dopo aver fumato una canna.”

E poi c’è la musica, importante almeno quanto i testi. Sono anni che Love tenta un’audace operazione di sincretismo musicale, unendo folk americano e celtico, impatto funk-rock e ritmi africani, tradizione cantautorale e radici hillbilly. “Ma non sono un’etnomusicologa o una profonda conoscitrice di queste musiche”, afferma Love con modestia. “Non ho una grande collezione di dischi. Semplicemente, quando sento una cosa che mi piace, cerco di rifarla a modo mio, che sia un ritmo africaneggiante o una melodia celtica. Non mi sento parte di alcuna tradizione musicale.”

Il risultato è una musica esuberante e ritmata – Laura compone col basso elettrico: “L’ho scelto perché era facile da suonare”, scherza, “ha solo quattro corde ben distanziate una dall’altra”. Una musica che, per certi versi, può ricordare quella di Ani DiFranco. Con lei condivide più di una cosa, non ultima la collaborazione con la multistrumentista Julie Wolf. E se nel curriculum di DiFranco ci sono due album in coppia con lo storyteller Utah Phillips, in quello di Laura c’è un lavoro del 1995 con l’artista di bluegrass e old time music di Seattle Jo Miller. Love: “Adoro quel che fa Ani, mi appassiona. Con lei in giro il mondo è più interessante”.

Grazie a una memorabile esibizione alla Carnegie Hall di New York organizzata dalla Putamayo (“La migliore serata della mia vita; non ero mai stata a New York; io, provincialotta, avevo una paura folle della metropoli”), Love è stata notata dall’A&R della Mercury David Wilkes. Messa sotto contratto, ha pubblicato per la major due dischi, Octoroon (del 1997, quello con la cover di Come As You Are) e Shum Ticky (del 1998, considerato dal New York Post uno degli album dell’anno). È stata scaricata quando la Universal ha acquisito la Mercury/PolyGram. “Ma non mi lamento per questo”, dice. “Sono corporation, il loro scopo è fare soldi e, messi assieme, i miei due album per la Mercury non hanno venduto più di 75mila copie. Voglio dire, non c’è niente di male nell’arricchirsi facendo musica, ma ci sono cose più importanti nella vita.”

L’album Fourteen Days, pubblicato ormai da qualche mese, è il frutto di alcuni eventi occorsi a Love nell’ultimo anno. Quello più importante è il ricongiungimento con la madre, che non vedeva da 16 anni. Quando Laura era piccola, lei era affetta da depressione e schizofrenia che le impedivano di accudire i figli. Laura era per questo motivo diventata precocemente indi-pendente. “A scuola ero costretta a prendere bei voti, altrimenti i professori avrebbero chiamato casa e avrebbero scoperto che a 16 anni d’età vivevo da sola. Capisci? Mi avrebbero rispedita in un orfanotrofio.” È forse per questo motivo che Laura dice di amare immensamente i bambini, ma di non pensare alla gravidanza, “perché sarebbe meglio prenderene in affido uno, sai, con tutti quei bambini senza famiglia…”.

La band che accompagna dal vivo Laura – la fiddler Barbara Lamb (già con la band di western swing Asleep At The Wheel), i chitarristi Rod Cook e Jen Todd e il batterista Chris Leighton – è “una specie di famiglia”. “Siamo una piccola comunità, girare gli States suonando con loro è la mia vita, pagarci le bollette è una grande soddisfazione”, dice la cantante, che per tanti anni una famiglia di quelle vere se l’è sognata. “Una volta”, spiega Love in un racconto di vita che assomiglia al passo di un romanzo, “io e mia sorella abbiamo trovato mia madre pendolare appesa a un cappio. Grazie all’intervento di una vicina, richiamata dalle nostre urla, l’abbiamo tirata giù: le abbiamo letteralmente salvato la vita. In quanto a mio padre, l’ho conosciuto solo a 16 anni. Mia madre m’aveva detto che era morto. Sapevo il suo nome e una sera ho scoperto che suonava in un club vicino casa (Preston Love ha suonato anche con Count Basie, nda). Sono andata da lui e gli ho detto: ciao, credo di essere tua figlia. Quella sera ho scoperto che avevo fratelli e sorelle sparsi in tutto il paese.”

Il colore della pelle è stato un altro motivo di disagio sociale per Laura. È facile immaginare gli anni di scuola di lei, troppo scura di pelle per essere considerata bianca e troppo chiara per essere una nera. A Lincoln veniva chiamata “negra” dai compagni della scuola all white che frequentava. A Omaha, nel ghetto nero dove abitava, subiva le angherie dei ragazzi di colore. E questa ferita è rimasta aperta, sanguinante per tanto tempo. Tanto da spingere Love a chiamare la propria etichetta discografica Octoroon Biography: ai tempi dello schiavismo “octoroon” indicava le persone con un ottavo di sangue ‘nero’ nelle vene, la cui quantità era uno dei parametri che concorrevano a stabilire il prezzo dello schiavo.

“La gente è ossessionata dalle divisioni razziali ed educa i figli a comportarsi in base ad esse. Io, che non sono né bianca né nera, da piccola le prendevo sia dai bambini bianchi che da quelli neri. Ne ho sofferto molto. Dentro di me è cresciuta tanta tristezza, ma anche una certezza: queste categorie non hanno senso. Dobbiamo smettere di erigere dei muri. Anche tra le musiche. Per me il bluegrass e il rhythm & blues non sono così differenti. È una questione di cuore, di anima, di onestà, e io sento questi sentimenti in entrambe le musiche. E separarle per motivi razziali – il country per i bianchi, il soul per i neri – è limitante e stupido. Ma la vita è dinamica e, vedrete, finiremo per mischiarci tutti: europei, afroamericani, mediorientali…”

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