Da quando nei campi di cotone del Mississippi si cantava il blues, la musica ha sempre espressol’emarginazione e la sofferenza del popolo nero. Negli anni Sessanta, complice il mutato clima politico e sociale dell’America, essa ha saputo esprimere il nuovo orgoglio nero. Nonostante le molteplici ricadute nella banalità della facile musica di consumo, ancor oggi questo orgoglio è presente in tanta ‘nuova’ musica nera, dall’hip-hop al rock spirituale di Ben Harper. Partendo dal nuovo disco dal vivo di quest’ultimo (che abbiamo anche intervistato), diamo uno sguardo allo ‘stato di salute’ della musica nera in tutte le sue facce: dal blues al jazz, dal soul al rock fino al songwriting di colore.
All’inizio è il blues. La sua formulazione, lunga e tormentata, prima di essere messa a fuoco dal nero americano deve subire la cova dell’esperienza e successivamente essere corretta in molti suoi schemi espressivi, ciascuno dei quali è rimasto nella storia con una propria dignità e consapevolezza che ancora oggi è possibile analizzare. Di fatto si tratta della prima forma artistica codificata di un popolo che ha dovuto reinventarsi un’identità in una terra in cui è stato forzatamente portato a vivere da schiavo. I fruitori del blues sono i neri stessi, la comunità delle piantagioni in cui vivono, e poco o niente cambia quando l’industria discografica intuisce le possibilità commerciali di tale musica. Nascono i race records, dischi da veicolare ancora una volta tra la popolazione di colore, facendo implicitamente intuire che i bianchi di quella musica ne fanno volentieri a meno.
Non è così: il blues esce rapidamente dalle grandi distese di cotone e frumento per colonizzare le città industriali e di lì influenzare nientemeno che il rock’n’roll, quella musica figliastra del rhythm’n’blues destinata a scuotere membra e coscienze. Il rock’n’roll, infatti, lo creano i neri, ma il frutto del vero successo lo colgono i bianchi, adattandolo con alchimie prestabilite a tutte le esigenze possibili. Fino a tutti gli anni Cinquanta i neri sono oggetto di sistematica rapina culturale e la dipendenza totale nei confronti del business li porta a perseguire gli stereotipi dominanti che inevitabilmente li confinano ulteriormente. Ci vogliono gli anni Sessanta per cominciare a far emergere l’orgoglio nero: il soul e il rhythm’n’blues diventano la colonna sonora delle marce pacifiste e delle lotte antisegregazioniste. Il nero si accorge di esistere e vuole la sua parte.
Al grido di “Say it loud, I’m black and I’m proud” l’uomo di colore diventa la cattiva coscienza dell’America perbenista e ipocrita e comincia a farsi notare anche al di fuori della musica. La matrice politica diventa l’Islam, la nuova religione a cui in tantissimi si convertono per riappropriarsi delle proprie radici culturali e figurare come una nota ancora più stonata nel cuore dell’America. Malcolm X è il grande profeta del riscatto e non va troppo per il sottile quando c’è da usare la violenza per difendersi o vendicarsi. Dall’altra parte c’è Martin Luther King, più moderato, ma in grado di raccogliere centinaia di migliaia di manifestanti nelle sue marce non violente, una marea scura che lo segue intonando We Shall Overcome.
Il nero comincia a trovare riscatto e dignità anche nello sport. Cassius Clay, diventato Mohammed Ali, irride gli avversari sul ring sicuro della sua forza e del Dio che sa di avere al suo fianco; rifiuta la chiamata di leva e per questo gli viene tolta la cintura di campione, ma crea un caso così clamoroso da vincere comunque la sua vera battaglia. John Carlos e Tommy Smith dopo la vittoria nei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico alzano sul podio il pugno chiuso avvolto in un guanto nero come segno di appartenenza alle Black Panthers. È un altro schiaffo a una forma di potere ottuso che non sa fare niente di meglio che squalificarli.
Ma l’esperienza giova anche ai più stupidi così Hollywood si prende la briga di creare l’eroe nero a sua immagine e somiglianza, scova un bel manzo come Sidney Poitier e lo fa diventare l’eroe di mille guerre di liberazione razziali. È l’annullamento della personalità a favore della vittoria finale, il lieto fine di stampo moralista che trasforma la realtà in favola. È il trionfo dell’idea di Martin Luther King che fa tanto gioco all’establishment, peccato però che l’ispettore Tibbs, con il suo bel profilo, l’eleganza portata con disinvoltura e il portafogli sufficientemente fornito abbia poco da spartire con il popolo nero del ghetto o perlomeno della strada, fatto di ‘big mama’ e ragazzini che già si preparano a spacciare crack.
Gli eroi più ascoltati di quegli anni sono spesso i cantanti soul e rhythm’n’blues, coscienti della condizione della loro gente e sempre pronti a farlo rilevare nelle loro canzoni. Aretha Franklin, Etta James, Otis Redding, Joe Tex sono i grandi interpreti impegnati della nuova era soul che con le loro interpretazioni infiammano e rendono disponibili alla rivolta gli animi più reattivi. Contemporaneamente, su un piano più intellettuale, si fa largo il free jazz, filone rivoluzionario in cui personaggi consapevoli come Albert Ayler, John Coltrane e Ornette Coleman elaborano al di fuori della melodia proprio per colpire nello stomaco chi si nutre di metrica e ortodossia musicale. Sembra insomma che il vecchio dualismo iniziato con Malcolm X e Luther King si perpetui in ogni forma d’arte. Da una parte la rottura di qualsiasi schema che porti all’omologazione, con la consapevolezza che il raggiungimento della reale integrazione è un’utopia, dall’altra il disperato tentativo di uniformazione alla cultura dominante con la speranza di entrare nel sogno americano. Quale sarà la risposta al rhythm’n’blues un po’ selvaggio che fa capo a personaggi come Wilson Pickett, James Brown o Tina Turner? Naturalmente l’accattivante soul di Detroit, targato Motown, un’espressione edulcorata, anche se piacevole, che ovviamente svuota totalmente i testi, a parte pochissimi casi, della problematica sociale.
Visto a anni di distanza e con quel tanto di oggettività che il tempo permette ad averla vinta, proprio perché substrato di nuovi sviluppi, è stata la musica più commerciale, quella della Diana Ross post Supremes, di Lionel Richie e Thelma Houston, la stessa che avrebbe permesso la successiva infatuazione per Whitney Houston e derivati simili. Ma un merito, o forse una filosofia, la Motown ce l’ha e infatti riesce a fare breccia tra il pubblico bianco molto di più di quanto facciano la Stax o l’Atlantic, o meglio coinvolge quegli strati sociali meno reattivi nei confronti della ribellione nera che altrimenti mai avrebbero prestato attenzione. I grandi interpreti del soul politico vantano largo credito tra un pubblico che è a sua volta già sensibilizzato, anzi già disposto alla rivoluzione culturale; sono i gruppi famosi di minor rilevanza sociale come i Temptations e i Four Tops che avvicinano la gente comune all’arte dei neri perché nei loro concerti si pongono in modo rispettoso, addirittura elegante nei confronti del pubblico, non antepongono alla musica la loro rabbia e quindi non spaventano nessuno. Certo, il rischio è ancora una volta quello di presentare un’immagine stereotipata del nero come animale da spettacolo, ma intanto qualche messaggio più complesso sulla realtà afroamericana passa e la Motown, che pianifica tutto, non manca di inserire furbescamente nel suo catalogo personaggi come il giovane Stevie Wonder e Marvin Gaye che vantano un appeal più profondo grazie alla natura dei loro testi. Le accuse reciproche di violenti e rinnegati si sprecano, ma forse entrambe le componenti fanno un servizio alla comunità nera che balza alla ribalta assoluta per una decina di anni.
Quando, con la seconda metà degli anni Settanta la spinta politica giovanile si esaurisce, anche la musica soul deve battere il passo. Le simpatie del pubblico ripiegano sul recupero del personale e di conseguenza sul divertimento, sul ballo.
Il rhythm’n’blues si sposta progressivamente verso il funk e trova in Prince il gran sacerdote capace di evolvere le basi gettate da James Brown, di coniugare tale musica con la psichedelia recuperando la grande lezione di Sly Stone e George Clinton. Il ‘funkadelic’ con lui esce dalla torsione fisica per abbracciare l’estrosità, i suoi atteggiamenti sul palco vanno dallo sfrontato al capriccioso, dal torbido al sensuale affinando costantemente ironia e genialità. È un crogiolo di pulsioni, di idee spesso in contraddizione tra di loro che ben rappresentano il momento sociale di confusione che si sta attraversando.
La soul music confluisce massicciamente verso la disco, un miscuglio abile di componenti nere e bianche che si fondono, una specie di crossover tra Isaac Hayes e Burt Bacharach suonato da grandi orchestre in cui personaggi come Barry White, Donna Summer e Gloria Gaynor vanno a nozze. È il riflusso che lancia yuppies e donne in carriera spregiudicate nella vita quanto nella danza e i neri sono ancora una volta lì a dar loro l’entertainment. Le discoteche a New York non restano a lungo patrimonio della gente nera, quando il fenomeno esplode coinvolge tutti gli strati della popolazione senza differenza di censo e razza. Se Tony Manero, protagonista di Saturday Night Fever trova nel ballo una specie di riscatto alle frustrazioni della quotidianità, la gran parte degli appassionati della disco va a ballare unicamente per divertirsi. A Los Angeles Barry White fonda la 20th Century, a Filadelfia prende quota il Philly Sound con gruppi emergenti del calibro di O’Jays e MFSB che mettono a punto arrangiamenti sofisticati sostenuti da melodie accattivanti e nello stesso tempo possenti, a Miami la label TK Records lancia Timmy Thomas, George McCrae e KC & The Sunshine Band che elaborano l’r&b con iniezioni di reggae, calypso e altri ritmi afrocubani, mentre a New Orleans Allen Toussaint crea nei suoi Sea Studios i fenomeni LaBelle e Pointer Sister. È il trionfo di un nuovo prodotto che questa volta l’uomo di colore riesce a mantenere almeno in parte saldo nelle proprie mani. Gira la giostra e come per incanto molta gente di colore si trova a navigare in un benessere fino ad allora sconosciuto e stempera così, fino a sopirle, le proprie le velleità di rivolta. Si crea in sostanza una middle class nera che, sul modello di quella bianca, inventa la propria musica e se la gestisce, crea i propri giornali e addirittura una serie di rassicuranti telefilm che dipingono famiglie ben inserite nella american way of life, fiere del loro successo e della loro ironia culturale.
Basta ricordare le saghe casalinghe dei Jefferson o dei Robinson per capire come vanno le cose: agiate famiglie con una propria attività avviata, spesso addirittura professionisti, che fanno gli spiritosi nei loro lussuosi appartamenti dotati di ogni comfort. La disco music crea dei veri e propri divi che fanno ballare non soltanto chi l’ha inventata ma decine di milioni di persone sparse ovunque. Per la prima volta la musica nera esce decisamente dalla ristretta cerchia del culto per catapultarsi nelle discoteche di tutto il mondo, per diventare un fenomeno davvero straripante.
Riviste come Ebony sfoggiano copertine e articoli sui personaggi neri di successo come ormai solo i più sofisticati rotocalchi sanno fare. Sembra insomma che l’establishment bianco abbia finalmente capito la lezione e fagociti con le sue fauci onnivore qualsiasi intemperanza lasciando in cambio la possibilità di illudersi e, perché no, anche di arricchirsi. A cercare di spiegare le cose è ancora quella pattuglia di irriducibili, spesso legata al blues o al jazz, che accusa gli arrivati neri di pensare solo a se stessi e di perseguire la logica perversa dell’ipocrisia, sapendo che con il loro comportamento da star confondono le idee dei giovani, ancora confinati nel ghetto, che li hanno eletti a eroi. È un lungo misunderstanding che vede le nuove generazioni abbandonare le proprie radici, rinnegarle addirittura, perché legate a momenti tragici della loro storia come la schiavitù o la segregazione. Il desiderio di emulazione degli strapagati e strafamosi giocatori di basket, piuttosto che attori o musicisti di successo, crea una frattura ancora più netta tra pensiero e realtà e sfocia in una delle manifestazioni più interessanti e contraddittorie di questi ultimi anni, la cultura hip-hop, che non esplode solo con la sua componente musicale più nota e cioè il rap, ma con tutto ciò che si evolve nelle strade del ghetto come la break dance, straordinario esempio di funambolica espressione corporea, e il graffiti, l’arte legata al disegno creativo che si propaga in un lampo imbrattando i muri di ogni periferia che si rispetti.
Il rap, secondo Quincy Jones, è il nuovo be-bop, un modo di far musica molto vicino a quello che facevano i cantanti scat come Eddie Jefferson e Babs Gonzales, ma i rapper non lo sanno perché ignorano le loro radici, la loro storia. I rapper non si considerano musicisti ed è proprio questo il segreto del loro grande successo. Molti di questi ragazzi sono figli di una condizione di povertà così estrema che non ha neppure permesso loro di comprarsi degli strumenti musicali o prendere lezioni di musica: quello che avevano era un giradischi, qualche album e un microfono e da tutto ciò sono riusciti a creare qualcosa di completamente nuovo. Probabilmente mai nessuno ha tirato fuori tanto da così poco, bisogna forse risalire alle origini, alle prime forme di blues per ritrovare tanta creatività. La forza del rap sta nell’autenticità di espressione di una musica concepita e cresciuta nel ghetto, senza interventi esterni legati alle multinazionali. Ben presto il rap esce dagli slums e oltre a rappresentare lo strumento per eccellenza di vere e proprie battaglie verbali, diventa il principale veicolo per sbandierare ancora una volta l’orgoglio di essere neri. I campionamenti sonori, la tecnica dello scratching e lo scandire ritmico di testi di grande impatto lo eleggono a modello di comunicazione privilegiato, un’arma formidabile figlia della nuova era tecnologica che dà, più che mai, il senso della nuova realtà, non un granché diversa, per la verità, da quella di sempre e cioè di emarginazione mista a frustrazione e rabbia. A New York i grandi nomi del rap, Public Enemy in testa, sono molto politicizzati e si ergono a modelli positivi che si battono per dare consapevolezza alle generazioni più giovani; nella West Coast, in particolare nei quartieri più a rischio di Los Angeles, specialmente Compton e Long Beach, dove i disordini razziali sono all’ordine del giorno e prende quota il gansta rap, una forma di hip-hop più cinica legato alla malavita del ghetto, la situazione è invece molto più ambigua. Qui la comunicazione avviene con codici sempre più serrati, fatti di gerghi appositamente elaborati per escludere non solo chi non ha niente a che fare con la realtà del ghetto, ma anche chi non è legato ad una banda particolare. Il denaro è il vero Dio, l’unico modello ideologico condiviso, e pur di comprarsi effimeri momenti di appagamento si è disposti a qualsiasi cosa, anche ad ammazzarsi tra clan rivali, in lotta per conquistare il controllo malavitoso di spazi sempre più ampi. In California i nomi di punta del nascente gansta rap sono Ice T, i NWA di Eazy -E., Dr Dre e Ice Cube che si impongono raccontando proprio quello che succede nel ghetto. Storie di drive by shootings, e cioè di chi spara a gangster rivali dalla macchina in corsa, o di spaccio nelle squallide strade della periferia losangelina diventano la norma del loro repertorio. I rapper si scagliano verbalmente contro le forze dell’ordine e Eazy-E sul retro-copertina di un suo disco arriva addirittura a ringraziare spacciatori, ladri e assassini che ascoltano la sua musica. Trent’anni dopo le rivolte di Watts, che avevano devastato Los Angeles negli anni Sessanta, l’America riscopre con orrore che nei quartieri più a rischio permangono gli stessi problemi di allora, addirittura ingigantiti da una politica sociale disastrosa. L’ambiguità e il limite del rap californiano stanno nel canalizzare la rabbia verso modelli di illegalità diffusa, nel non dare una coscienza di sfruttato ai giovani che arrivano anzi a considerare un privilegio il poter ingrossare la schiera della manovalanza criminale. Ciononostante sono in molti a considerare positiva la rabbia che pervade i giovani del ghetto e musicisti affermati come il già citato Quincy Jones, Steve Coleman e Branford Marsalis propongono di buon grado collaborazioni a questa schiera di musicisti, anzi il fenomeno arriva addirittura sulle prime pagine di prestigiose riviste musicali e la stessa Rolling Stone, visto il successo commerciale del gansta-rap, mette in copertina Dr. Dre e Snoop Doggy Dogg, uno accanto all’altro. Questa foto che dovrebbe suggellare il riconoscimento definitivo del movimento è invece l’inizio di un profondo ripensamento da parte dei rapper e dell’intera comunità nera che è stanca di veder morire la propria gente per le strade. Davanti a un panorama così desolante che vede Snoop Doggy Dogg incriminato per concorso in omicidio, Tupac imprigionato per sodomia e abusi sessuali, J-Dee e T-Bone pure accusati di omicidio e Dr. Dre che deve rispondere per aver usato violenza nei confronti del suo produttore, la rivista specializzata Rap Sheet decide di censurare il gansta-rap, così come una rap radio station di Inglewood, altro ghetto nero di L.A., bandisce dalla propria programmazione questo tipo di musica. È l’inizio di una nuova era. L’hip-hop ricomincia a flirtare con il funk e il soul come da tempo non succedeva, si abbandonano gli eccessi hardcore e i fiumi di parole pronunciate a denti stretti a favore di nuovi groove molto più sinuosi e concilianti. È la nascita del G funk, di quella musica che sintetizza un malessere diffuso per trasformarlo in voglia di evasione e di high life a cui fanno soprattutto capo musicisti come Domino, Warren G e i pentiti Snoop Doggy Dogg e Dr. Dre che da Long Beach catapultano il nuovo verbo fino al’altra costa a scuotere le ideologie politicamente corrette della scena hip-hop newyorkese.
Se dall’inizio degli anni Novanta la scena hip-hop monopolizza in modo estremo il mondo nero meno abbiente, nelle sfere sociali più tranquille la Motown cerca nuovi equilibri con la vecchia formula del soul. Non è più tempo di miscele ruvide, i nuovi interpeti di questa musica invece di dare slancio alla propria rabbia sociale o esistenziale con atteggiamenti irriverenti o scatenati come faceva per esempio Tina Turner sul palco, preferiscono ritornare all’interpretazione classica sostenuta da un look elegante e molto sexy che esalta il personaggio. Le star del nuovo soul hanno il dovere di essere molto belle, provocanti e magari con una buona propensione al ballo. Se durante un concerto proprio ci si deve muovere allora bisogna farlo in modo codificato secondo i canoni di una coreografia prestabilita. Dall’avvento della disco music in poi nulla è più lasciato al caso, il controllo è totale, l’immagine diventa un’icona sacra alla quale bisogna sacrificare quasi tutto. Viene da ridere pensando al kitsch degli anni Sessanta all’interno della stessa scena, quando Aretha Franklin si presentava con vestiti scialbi tutti di un pezzo che esaltavano le forme più che giunoniche o la stessa Diana Ross, che pure era molto attenta a come si presentava, con quel caschetto e il quintale di rossetto sulle labbra. Il nuovo soul anche musicalmente abbandona i vecchi stilemi legati al suono dell’organo o ai crescendo ritmici, si converte alla tecnologia e introduce suoni campionati ed effetti speciali a man bassa. Personaggi come Anita Baker guidano la transizione, mantenendo da una parte una specie di legame con la tradizione costituita in gran parte dall’ancora massiccio uso dei cori, ma aprendo dall’altra decisamente alla timbrica artificiale delle batterie sintetizzate e a un inesorabile repertorio che parla solo d’amore. È ancora musica da ballare, musica da discoteca, che diventa sempre più marcata se si ascoltano le varie Deborah Cox o Cece Peniston. L’impressione è quella di una grande uniformità di suono fortemente giocata sull’effetto della sezione ritmica in cui i suoni bassi vengono esaltati fino al fastidio e la batteria picchia come un metronomo impazzito, puntualissimo, ma senza la minima creatività.
Però il new soul piace ed elegge le sue reginette molto più che i suoi re. Le interpreti femminili sono più gettonate, vendono di più, mentre gli uomini assumono maggiormente il controllo della produzione, stanno dietro alle quinte a programmare tutti gli stereotipi vincenti, anche se poi naturalmente non mancano certo dalla scena discografica. Personaggi come Lionel Richie per esempio sono ancora in grado di piazzare i propri dischi ai primi posti delle classifiche con relativa facilità.
L’impegno e il disimpegno nella storia della musica nera si alternano e quando si toccano i picchi la tendenza si inverte quasi per incanto. Il new soul è decisamente musica da consumare, da godersi in una notte di follia e poi tenersela stretta per un ricordo personale, non è una colonna sonora epica legata a chissà quali movimenti, è quanto di più personale si possa intendere, è un modo per placare una parte nemmeno troppo importante della propria intimità, una granita al limone in una giornata di afa, piacevole e dissetante, ma niente più. Su questa linea si muovono anche le migliori interpreti di oggi, cioè le voci più belle, nomi come Tony Braxton, Angie Stone e Jill Scott, star con una personalità che si esaurisce nella produzione dei loro dischi e dunque destinate all’oblio perché non in grado di reggere oltre la moda del momento o di un eventuale effimero riciclo. In un’analisi sociologica postuma della musica nera saranno tutt’al più ricordate come brave artiste soul-pop, gente da entertainment, di classe, certo, ma non oltre l’intrattenimento. Così sarà anche per Mary J. Blige, altra splendida venere nera dalla voce plastica e incisiva, e dell’emergente Heather Small nonostante sia già più portata ad un’interpretazione aggressiva di vecchio stampo r&b, ma costretta dalla produzione nei limiti dei confini pattuiti.
In questa ultima decade la Arista ha puntato molte delle sue chance sulla carta new soul e proprio come aveva fatto la Motown precedentemente ha creato un suono ben preciso che è diventato sinonimo di questo genere. Da altre scuderie emergono personaggi altrettanto interessanti come Macy Gray, interprete dalle enormi possibilità vocali, che qualcuno ha voluto addirittura paragonare in un modo un po’ blasfemo a Billie Holiday. Ed è proprio questo paragone che si presta alla riflessione di cosa significhi essere un personaggio topico di una filosofia di vita, di un’espressione culturale. Probabilmente ci sono periodi storici che si prestano meglio di altri ad essere raccontati, ci sono destini inequivocabili che portano a rappresentare con la propria voce e la propria esistenza l’essenza di una filosofia, del modo di essere di una generazione. Paradossalmente da questo punto di vista non c’è nessun merito particolare nella Holiday se si è trovata generazionalmente a rappresentare, in un periodo storico particolare, la quintessenza dell’emarginazione razziale e delle sue conseguenze, se non la capacità di esteriorizzare con infinita bravura quello che provava e non c’è alcun demerito in Macy Gray se canta negli anni Novanta l’insipido svolgersi della quotidianità legata inequivocabilmente al personale, al nostro piccolo mondo che per noi è comunque un universo.
Insomma non c’è dubbio che sia necessario avere una particolare sensibilità per decodificare e tradurre in canzone le ansie di un contesto particolare, ma è anche vero che se non si vive in un momento che stimoli, certe riflessioni è difficile venirne a capo.
Anche nel rock non succede un granché. Se si eccettuano personaggi come Tracy Chapman che appellandosi alla ballata, storicamente legata a tematiche impegnate, riesce scuotere per un attimo le coscienze impigrite “parlando di rivoluzione” e forse Lenny Kravitz, che recupera musicalmente una dimensione importante come il soul psichedelico incentrando parte dei suoi testi sulla religione, rimane tutto uniformato sul piatto.
Viva allora il new soul disimpegnato? Si può fare anche di meglio, proprio come è successo a Erykah Badu che già con il suo primo lavoro si guadagna oltre al Grammy Award anche il premio della NAACP (National Association for Advancement of Coloured People) per i suoi testi impegnati. La “ragazza analogica costretta a vivere in un mondo digitale” (è una bella definizione di se stessa) dimostra che, pur stando alle regole musicali del momento, si possono anche dire delle cose intelligenti senza compromettere né la faccia, né la carriera. In effetti il new soul è un mondo composito in cui coesistono personalità molto differenti legate solo da canoni musicali comuni che fanno capo ai suoni sintetizzati dall’elettronica e a un gusto ritmico molto preciso.
Interessante è anche l’intreccio che nasce dall’influenza del rap sul new soul. I Fugees sono tra i primi a cercare questa commistione e l’operazione ha il sapore squisitamente commerciale, non c’è una volontà particolare da parte di Wyclef Jean e soci di recuperare una dimensione politica, ma solo di iniziare qualcosa di nuovo che in qualche modo abbia riscontro. Il successo in effetti arriva subito e la tendenza fa scuola. La cosa migliore dei Fugees in realtà è però rappresentata dalla maturazione artistica e personale di Lauryn Hill, splendida vocalist del gruppo che arriva presto a staccarsi per concepire il suo primo lavoro solo, The Miseducation Of Lauryn Hill, un album esemplare sia dal punto di vista testuale che musicale. In questo disco oltre all’hip-hop che si coniuga con alcuni stilemi new soul, intervengono anche accenti reggae e caraibici più in generale che creano una miscela esplosiva in cui si staglia la voce purissima della Hill. Nei testi traspare lo spirito libero dell’interprete e la sua attenzione per i problemi della sua gente, anche se l’attrazione della filosofia giamaicana la porta ad assecondare forse più i canoni trasgressivi alla Marley che non quelli politici più ortodossi. Ma è un segnale che le comunità nere di tutto il mondo hanno già colto e sbandierano come esempio di nuovo orgoglio razziale. Dei suoi concerti si viene a conoscenza con il tipico tam tam, il passa parola più efficace perché mirato alle persone interessate, e ciò va quasi oltre a quel che può fare la promozione ufficiale perché la notizia passa con l’anima più che con gli occhi o le orecchie. Sì, è un segnale significativo, forse ora si ricomincia a risalire.