28/05/2007

Righteous Babe

ANI DIFRANCO

È come un film. Prima inquadratura: un vecchio hotel di New York. Le luci del mattino illuminano la protagonista immersa nella vasca da bagno. La vedi scendere per strada che ancora le gocce d’acqua le colano dietro le orecchie. Sbuffi di vapore salgono dai tombini. Un tizio che all’angolo vende asciugacapelli da una borsa sportiva dice che c’è un complotto, uno dei tanti giochi sporchi della CIA: è qualcosa che c’è nell’aria o una malattia trasmessa dalle zanzare. Siamo tutti cavie di chissà quale esperimento. Intanto lei cammina. Ha 19 anni, ma ne dimostra 30. O forse ha davvero trent’anni. La sua vita è un tale schifo che anche un solo respiro alla volta è un piano accettabile per il futuro. E allora riempie i polmoni. Stamattina l’aria è addirittura respirabile. E per un attimo, per un breve momento magico, prova sollievo. È leggera. È libera. È viva. Ma dura poco. Di nuovo i fantasmi tornano a ossessionarla. Di nuovo si sente come imprigionata. La sua è una faccia da Picasso straziata.

È come un film, ma è solo una canzone. O forse no. Ani DiFranco ha intrappolato talmente bene la protagonista di Tamboritza Lingua nelle spire di una chitarra che ripete all’infinito le stesse note e di percussioni appena percettibili da farti sentire a disagio. Ascolti la canzone e ti pare di stare in apnea, ti sembra di soffocare e non vedi l’ora di salire alla superficie, di respirare un po’ d’aria, di aggrapparti a qualche soluzione. Ma non ci sono facili soluzioni nelle nuove canzoni di Ani DiFranco. Non ce ne sono mai state. Solo che oggi, a 12 anni dal disco d’esordio e a meno di un lustro da quando è stata scoperta dai mass media, Ani si mostra più che mai vulnerabile.

Quando ho saputo che Ani DiFranco stava per pubblicare due dischi contemporaneamente, Revelling e Reckoning, me li immaginavo come Human Touch e Lucky Town, gli album che Bruce Springsteen pubblicò abbinati nel 1992: la conquista di una meta personale e il trionfo di una visione collettiva. E invece i dischi di Ani assomigliano molto più a Tunnel Of Love e a Nebraska: sono pieni di dubbi, implacabilmente realisti, spaventosamente introspettivi. Una strana distanza li separa dai concerti della folksinger che, al contrario, sono vere e proprie feste, eventi frizzanti, iniezioni di ritmo e di vita. Certe canzoni di Revelling e Reckoning raccontano un’altra storia: è la sofferenza prima del riscatto, è il dubbio, è il tormento interiore. È il prezzo che devi pagare. E Ani ha deciso di pagarlo in pubblico.

Nel tunnel dell’amore

Inclina la testa, punta l’indice verso una delle tante fotografie che tappezzano il bancone del Roxy Bar e domanda candidamente: “Chi è quello lì?”. Quello lì è Robbie Williams, ex Take That e tormentone mediatico degli ultimi tre anni. Una faccia piuttosto nota… “E quei tre?” Be’, quelli sono i Massive Attack, gli inglesi di Bristol, uno dei gruppi più cool degli anni Novanta. “Ah.”

Ani DiFranco è così. Non solo non conosce gli idoli del pop osannati da giornali, radio, televisioni. Le basta un “ah” per ridicolizzare la nostra ansia di rimanere al passo coi tempi, di non restare spiazzati dall’ultima moda. Lei, di mode, non ne ha mai avuto bisogno. La musica è sempre stata un bisogno naturale per lei, non un’operazione di marketing. Fin dal 1989, quando esordì con un disco da folksinger duro, arrabbiato. Confrontata a quella di tante divette rock, la sua storia sembra una sequenza di suicidi commerciali, una teoria di gesti insensati. Come la sua ultima pazzia, che si chiama Revelling Reckoning, due dischi ‘gemelli’, due modi di intendere la musica, due ore di suoni che mostrano la versatilità musicale e il talento letterario di questa “piccola folksinger”.

“Non volevo mica pubblicare un doppio”, mi spiega DiFranco nei camerini del Roxy Bar. “Però più scrivevo e più mi trovavo in mano canzoni che stonavano col resto dell’album. Ho pensato che, be’, con un altro po’ di materiale sarei arrivata a fare due album. Ho ripreso a scrivere e…”

Ha ripreso a scrivere, ma è come se la sua anima si fosse divisa in due. Da una parte sono nate canzoni brillanti, che esaltano il gusto dell’interplay con la band che ormai l’accompagna da tempo, che mischiano anima folk, ritmi funk e suoni jazz. Dall’altra sono emersi pezzi più introspettivi, anche tristi, pieni di dubbi, lenti, meditativi, poetici. Le prime le ha riunite in Revelling, i secondi in Reckoning. Ani: “Revelling è la gioia di suonare, sono i groove, è il gusto dell’improvvisazione. Reckoning è più intimo, lento, tranquillo, si focalizza più sul songwriting. Insieme costituiscono un’entità. È un viaggio, dalla prima canzone all’ultima”.

È un viaggio nel quale si passa da confessioni intime a sguardi sul sociale. Le prime sono crude, sofferte, problematiche. Sinceramente: non sembrano le canzoni di una novella sposa come Ani. I secondi sono amari, disincantati, lasciano perfino intravedere per la prima volta un filo d’impotenza di fronte a una società nella quale le corporation “controllano persino l’aria che respiri”. Altrettanto sinceramente: sconcertano conoscendo il carattere combattivo di DiFranco.

“Sono canzoni autobiografiche, queste nuove”, mi spiega quando le dico che i testi delle canzoni d’amore del nuovo album sono, come dire, un po’ troppo tristi per il suo status di novella sposa. Poi abbassa gli occhi e tace. Le chiedo: è un argomento troppo personale? Sono pronto alla ritirata. E invece lei va avanti. Sorridendo: “Be’, è tutto nel disco ed è pazzesco aver scritto di cose così intime. Che cosa ci può essere, effettivamente, di personale dopo aver scritto testi così? Credo di essere arrivata a un punto in cui scrivo di cose talmente personali che riassumono dentro di sé anche le esperienze degli altri. Diventano universali. Devo solo evitare di pensare che sto rendendo pubblica la mia vita privata”.

Sono proprio due canzoni d’amore ad aprire Revelling e a chiudere Reckoning, ovvero Ain’t That The Way e In Here. La prima esordisce con l’interrogativo retorico “Io ti amo e tu ami me, non è così che le cose dovrebbero andare?” e si chiude con la certezza che “l’amore mi fa sentire stupida”. Da questa frase in poi l’album mette in fila una lunga serie di interrogativi, dubbi, confessioni di vulnerabilità e crisi di coscienza. L’amore di Revelling e Reckoning non è mai rassicurante. C’è sempre un interrogativo aperto, un tarlo, una spina nel cuore. Come quando Ani canta: “Ho tutto ciò che voglio… eppure voglio qualcosa di più”. Non è pessimismo, è realismo. Ma c’è anche un tocco di ottimismo: il finale dell’album lascia accesa una speranza che si intravede al di là della “piccola nuvoletta grigia” che getta un’ombra sinistra su ogni storia d’amore.

Sposata da tre anni e mezzo con Andrew ‘Goat Boy’ Gilchrist, DiFranco ammette di essere passata attraverso un periodo conflittuale. “Ho dovuto affrontare molti problemi: chi sono, che cosa voglio, come posso essere amata e rispettata. È stato difficile. Il risultato sono canzoni combattute, intime. Ma non tristi. È per questo che sono contenta di avere passato tanto tempo a lavorare all’album: credo emerga qualcosa di più della semplice tristezza. Se avessi fatto un solo disco nell’arco dei primi sei mesi sarebbe stato molto, molto triste. Era un brutto periodo. Adesso invece ci sono anche canzoni piene di speranza. Come quella che chiude il disco, In Here, una visione del futuro dove questo amore è possibile dopo tanto lottare e tanti dubbi.”

Massì, ché come canta Ani “quando abbiamo detto ‘per sempre’ non avevamo idea di quel che avremmo passato, ma ogni volta che ti guardo trovo nuovi motivi per ammirarti”.

Una performer straordinaria

Dice che la musica è “un atto sociale”. E che di conseguenza i concerti sono la dimensione che preferisce. Ma una delle cose migliori di Revelling e Reckoning, puntualizza Ani, “è che sono stati in gran parte registrati in studio dal vivo. Abbiamo suonato e cantato tutti insieme, come si faceva una volta. Tra tutti i miei album, questo è quello che cattura maggiormente le vibrazioni di uno show dal vivo”. E aggiunge, unendo dito indice e medio: “Anche perché ormai io e la mia band siamo… così”.

Sarà perché non ha imparato a suonare scimmiottando i video di Mtv. Sarà perché la musica le scorre nel sangue. Sarà perché fa centinaia di concerti all’anno. Sarà perché è un talento naturale, forse il più grande emerso dalla scena cantautorale anni Novanta. Fatto sta che, quand’è su un palco, Ani DiFranco è in grado di trasmettere al pubblico una travolgente carica d’umanità. Guardatela imbracciare la chitarra e muoversi a scatti, perfettamente a tempo con la musica. Lei è tutt’uno con la musica. Pochi performer lo sono. La gran parte non ci tenta nemmeno.

“Mi accorgo che sto diventando una performer più completa”, mi dice quando le faccio notare che una volta la dimensione fisica era meno presente nei suoi concerti. “Quand’ero giovane ballavo con varie compagnie e al tempo stesso cantavo da sola le mie canzoni con la chitarra. Mi esprimevo danzando, e mettevo da parte il fatto che facessi musica. E viceversa: sul palco i folksinger non sono certo dinamici… Ma dopo alcuni anni ho capito che sono molto più me stessa quando mi muovo. Ho liberato la ballerina che c’era in me. Adesso mi esprimo con tutto il corpo, non solo con la voce. È accaduto quando la musica funk ha iniziato a far parte della mia musica, certo. Ma penso anche che essere diventata una bandleader abbia fatto la differenza: prima mi esibivo da sola, o al massimo con basso e batteria. Adesso sul palco siamo in sei e per tenere insieme la band uso il mio corpo. È un altro modo per comunicare con i miei musicisti. E naturalmente con il pubblico.”

Da buona artigiana folk, Ani DiFranco ha imparato ad affinare gli attrezzi che utilizza per far musica, arricchendo via via il suo vocabolario sonoro. Oggi i suoi dischi – che ha sempre prodotto in splendida solitudine – sono più che mai completi. Qualcuno magari rimpiange la folksinger che sputava parole strapazzando la chitarra. Ma la Ani DiFranco di oggi è un’artista in grado di maneggiare tanto il jazz quanto il pop, il rock quanto il funk.

Ma la matrice cantautorale è sempre lì: certe canzoni di Reckoning sono basate quasi interamente sul potere della parola. “I testi sono la parte più difficile”, ammette. “Forse dovrei scrivere musica strumentale. È tutto più facile. È istinto. Sento le melodie, i cambiamenti di accordi. Nella testa ho sempre idee per qualche canzone. Mi viene naturale. Il vero lavoro viene dopo: dare forma ai testi e alla musica, trasformarli in canzoni.”

In quanto al jazz, sebbene il suo amico e manager Scot Fisher affermi che ha sempre fatto parte del bagaglio musicale di Ani (vedi box in questa pagina), è solo da un paio d’anni che DiFranco ha introdotto un trombettista e un sassofonista nel suo gruppo stabile. Per Revelling e Reckoning ha chiamato a collaborare anche leggende come Maceo Parker e Jon Hassel. Quando i due scendono in campo – rispettivamente in What How When Where (Why Who) e in Revelling – be’, è un vero godimento…

“Funk e jazz: ecco da dove viene il mio amore per i fiati”, afferma la cantautrice. “Erano anni che volevo il sax e la tromba nella mia musica. Solo dopo aver fatto un tour assieme a Maceo Parker mi sono decisa. Credo che aver passato molto tempo negli ultimi due anni a New Orleans abbia influenzato la mia decisione. In quanto agli ospiti… be’, musicisti del calibro di Maceo Parker o Jon Hassel s’invitano perché portino nel tuo disco la loro ispirazione. Insomma, li lasci fare. Di solito mettiamo giù la canzone, loro fanno alcune take e io scelgo quella che più mi piace e mi pare adatta. Con i musicisti del mio gruppo ovviamente c’è più collaborazione.”

Mi sembra che alcune canzoni di Revelling e Reckoning siano influenzate dal jazz in modo più sottile, e cioè nello stile vocale di DiFranco, che negli ultimi anni ha imparato a utilizzare la propria voce come uno strumento. Ne parlo con Ani. “Probabilmente hai ragione”, risponde. “Per dieci anni non ho mai pensato al mio modo di cantare, ma sempre e solo alla chitarra: urlavo senza ascoltarmi. Ora ci penso di più, voglio esplorare le possibilità della mia voce.”

Il risultato è particolarmente evidente nella penultima canzone, Revelling, splendido duetto tra la voce di DiFranco e la tromba di Hassel. Eleganza esecutiva e profondità emotiva si fondono creando uno dei gioielli del disco. In una parola: poesia.

La prossima mossa coraggiosa

Una volta Bruce Springsteen definì nel corso di un’intervista lo spirito dei suoi concerti. Diceva, più o meno: “Arrivo in una città e dico alla gente di non mollare”. Non credo che per Ani DiFranco sia tanto differente. Solo che, forse per la prima volta, alcune nuove canzoni lasciano intravvedere segni di cedimento. Ani DiFranco non ci sta dicendo che non c’è più nulla da fare per migliorare la società. Sta solo mostrando quanto difficile sia lottare.

C’è una canzone stupenda che incarna questo sentimento e si intitola Your Next Bold Move. Nel ritornello Ani si domanda “quale sarà la tua prossima mossa coraggiosa”. Viene il sospetto che non ci sia alcuna “mossa coraggiosa” da fare. “Non è una canzone ottimista, no. Però lancia una sfida: che cosa possiamo fare? È uno sguardo pessimista alla mia cultura. Ma alla fine offre una sorta di riscatto. Ti dice: forza, fai la tua prossima mossa coraggiosa. Immagina che cosa si può fare. È uno sforzo che tutti noi dobiamo fare.”

Una volta era più facile capire chi era il nemico. Oggi invece, come recita la canzone, “sai che c’è, ma non sai dov’è”. Ani: “Le multinazionali e le forze del capitalismo sono talmente bene integrate nelle motivazioni del governo che è duro capire dove sta la verità. Nella politica e nella cultura americana c’è del freddo, dello squallore. Mi chiedo se non abbiamo bisogno di una qualche chiave di lettura più complessa per capire come vanno le cose, per vedere che dietro al logo della Nike c’è lo sfruttamento del lavoro nel terzo mondo. Hai presente il loro motto? Just do it. Io dico: just do it… what? Che cosa dovremmo fare? Sfruttare la manodopera? La semplicità dei messaggi, della pubblicità, della televisione controlla la mente. Miro a una critica più sofisticata del controllo esercitato dalle multinazionali.”

In un disco dove personale e politico si mischiano con tanta efficacia, abbondano riferimenti agli anni Ottanta. Ani DiFranco ha appena superato la soglia dei 30 anni e, forse per la prima volta, si guarda alle spalle. E lo fa con lucidità, descrivendo in modo anche poetico gli effetti che ha provocato su di lei (e su tutti noi) crescere in quel decennio, “nell’era di Reagan e Bush, quando il capitalismo ha abbattuto a pistolettate la democrazia”, come recita Your Next Bold Move, autentica canzone pivotale dell’album.

“Sì, gli anni Ottanta in America hanno esercitato una grande influenza sul mio modo di vivere. Sai, la politica dell’indipendenza, la volontà di lotta… Non sapevo nemmeno perché, ma avevo quest’istinto che mi spingeva a lottare il business delle corporazioni. La gente che manovra i soldi controlla il mio paese fin da quando ho avuto la ragione per capirlo.”

L’ha capito guardando innanzitutto la sua città: Buffalo, NY. È descritta in Subdivision, una canzone da brivido sugli effetti più evidenti della divisione razziale in America. “La main street divide in due la città manco fosse il Muro di Berlino: i neri sull’east side, i bianchi nella west side. Capisci? Nel XXI secolo esistono ancora cose così.

“Penso che il problema del razzismo ci riguardi tutti, che influenzi la vita di tutti noi. I bianchi scappano dal centro città, che diventa povero e degradato, i bei vecchi palazzi vanno a pezzi e la suburbia si espande a dismisura finché non c’è più campagna, non c’è più natura, non c’è più alcuna cultura urbana.

“Stiamo costruendo un enorme paesaggio di paura e divisione tra le persone.”

La grandezza di DiFranco sta anche nel modo in cui racconta questa realtà: non su un piedistallo, ma scendendo in strada tra di noi. Come quando canta della prima volta in cui ha visto una persona dormire per strada: “Ho pensato: non posso andare oltre, non può essere vero. Ma guardando gli altri ho imparato a tirare dritto.

“Strane le cose che impariamo a fare…”.

Una comunità invisibile

Negli ultimi quattro anni la vita di Ani DiFranco è cambiata. Quando ci incontrammo per la prima volta nel 1997 le domandai quale fosse la comunità per la quale cantava. Mi rispose con quattro concetti: anni ’90, New York, giovane, donna. Non è più così.

“Il mio paesaggio si è espanso. L’idea di comunità si è espansa”, conferma. “Dopo tutto questo viaggiare negli Stati Uniti e in Europa ora capisco lo spirito delle città, gli odori, gli stili di vita, i ritmi. Il mio mondo si è espanso e scrivo da un posto diverso adesso, probabilmente un luogo meno specifico.”

Adesso Ani canta anche per noi. Adesso c’è una comunità invisibile che si riunisce ogni volta che lei si esibisce in pubblico o che pubblica un album. Ascoltare i suoi primi dischi suscita ammirazione, partecipazione emotiva. Gli ultimi album esigono di più: un’adesione totale, incondizionata. Il suo invito ad entrare nella musica con lei è contagioso. E quando sei lì, quando assisti alle sue performance, non c’è la rabbia, l’arroganza, la frustrazione espressi da altri artisti suoi contemporanei. Solo sollievo e calore.

Ani ha pure iniziato a cantare di questa comunità invisibile. Lo ha fatto due anni fa con una canzone intitolata Freakshow, una metafora del bizzarro carrozzone formato da Ani, i suoi musicisti, i tecnici. Oggi canta Imagine That e in quel carrozzone ci siamo anche noi. Nel testo Ani offre una descrizione poetica e problematica del rapporto performer-pubblico. Ci fa capire che cosa vuol dire starsene lì sotto la luce punitiva dei riflettori, con la gente che ti guarda come fossi un televisore e tu che impili freneticamente sacchetti di sabbia nel tentativo d’arginare l’alluvione della tua insicurezza. La magia della musica di questa trentenne che sembra un folletto è che riesce immancabilmente ad esorcizzare le sue e le nostre insicurezze.

“È la bellezza di questo mio lavoro, no? Un’artista dovrebbe essere in grado di offrire conforto dall’insicurezza che tutti sentiamo. La stessa insicurezza che, ti giuro, provo quando salgo sul palco. Anche se da fuori non si vede. Ho visto un programma su Ella Fitzgerald: la guardavo sul palco e mi sembrava forte, sicura, bella, espressiva. Un modello di donna eccezionale. Poi il documentario mostrava il dietro le quinte. E allora vedi la Fitzgerald insicura, piena di paure. Diceva di sentirsi grassa, brutta. E io ho pensato: ecco! Normale che si sentisse brutta e grassa, ma quando saliva sul palco grazie a lei ogni donna grassa e brutta aveva una rivincita. Anche per me è così. Quando sono sul palco combatto l’insicurezza. Uno mi guarda e magari sembro la più grande stronzetta al mondo. Uno mi guarda e, forse, inizia ad accettare se stesso e i propri difetti. Siamo quel che siamo, non dobbiamo chiedere scusa per questo. Ma se ci guardiamo in faccia possiamo imparare a superare i nostri limiti.”

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