La quindicesima edizione del South By Southwest, manifestazione cresciuta di anno in anno, tanto da essere oggi la conference musicale più importante degli States, andrà probabilmente archiviata come la più affollata, soprattutto in termini di pubblico con relative, ed ingombranti, auto al seguito. Bei tempi quelli in cui era possibile passare da una parte all’altra della città e trovare un parcheggio di fronte al club, in pochi minuti: oggi conviene lasciare l’auto nel primo buco disponibile, e calzare comode scarpe da ginnastica, dimenticando tutti quei locali, e quei concerti, non a portata di gamba.
Tuttavia, anche con qualche nervosismo da automobilista metropolitano, che ti fanno sentire comunque un po’ a casa, il South By Southwest anche quest’anno ha regalato parecchie emozioni, qualche piccola delusione, e interessanti preview. Proviamo a sfogliare allora il taccuino e a cavarne fuori qualche ricordo, partendo da una delle categorie più ricche di competitori, quella dei songwriter.
SONGWRITERS IN THE ROUND
Il songwriter del giorno, almeno qui ad Austin, è Bob Schneider, che dopo anni di successo locale alla guida di formazioni come Joe Rockhead, Ugly Americans e Scabs (questi ultimi davvero popolarissimi in città) è arrivato recentemente a un contratto ‘major’ con la Universal, avviando con Lonelyland quella che sembra essere una promettente carriera solista.
Schneider, cui i maligni guardano con invidia la bella (e potente) fidanzata Sandra Bullock, è stato presente un po’ dappertutto, a cominciare da un cd release party che ha aperto per noi, il 13 marzo, la settimana delle danze: in versione unplugged, nel ridotto palco del negozio di dischi Waterloo, il più amato dai compratori di musica di Austin, Bob ha incantato la folla, perlopiù femminile, ma non ha incantato il vostro cronista, per via di una attitudine troppo educata e a tratti autocompiaciuta, che ha reso molli le pur scorrevoli canzoni, fresco melange di pop-rock venato di errebì. Ad onore di Schneider va comunque detto che nella notte degli Awards Musicali di Austin, a lui ne sono toccati ben sei.
Grandi onori, nella notte degli Awards, anche per Slaid Cleaves, da qualche anno in continua ascesa nei favori dei country lovers di Austin. Il gentile Slaid, la cui versatilità e fotogenia lo hanno recentemente portato anche a intraprendere una piccola carriera come fotomodello (per la cronaca, di abiti western), ha guadagnato due Awards con la canzone Broke Down, giudicata miglior singolo e canzone dell’anno. Come pochi sono stati i brividi procurati da Anders Osborne, il cui recente Ash Wednesday Blues aveva peraltro molto ben impressionato. Da solo, e dunque privato della potente macchina ritmica e sonora che lo asseconda magistralmente nelle prove discografiche, Osborne non è andato molto al di là di un roots blues dallo scarno contributo chitarristico e dall’approccio vocale poco più che scolastico.
Parlando di delusioni, Jim White non è stato sicuramente da meno. Preceduto da un discreto tam tam pubblicitario, e forte di una presenza mediatica ben progettata, White ha riempito facilmente l’ampio contenitore de La Zona Rosa, giusto in mezzo agli show di Johnny Dowd, di cui diremo in seguito, e di David Byrne. L’icona di White, ormai ufficiale, comprende giubbotto con bandiera americana applicata sulla spalla, camicia stazzonata, jeans e cappellaccio di paglia sulla testa e un magnetismo minimalista, alimentato da una misurata gestualità relazionale e da poche, studiate, introduzioni parlate. Il resto, la musica insomma, ha perso in quella notte texana del 16 marzo gran parte del proprio fascino maudit. Rimangono i blues rarefatti e malati, a tratti accelerati nei toni di un country gospel sbilenco e decadente, ma ben poca forza traggono dalla personalità di White, opaco cantore di melodie che appaiono davvero fragili e tutto sommato noiosette.
Ben altra forza invece quella esibita da Johnny Dowd, campione della depressione secondo alcuni, lucido istrione per come ci è (ap)parso sul palco de La Zona. Gran stregone, alchimista stralunato, Dowd ha messo in scena una irriverente e personalissima versione dell’american sound, abbracciando simbolicamente tanto Hank Williams quanto Lou Reed, o come lui stesso ha detto, “Merle Haggard e Donna Summer”, con grande sfoggio di feedback chitarristici e una elettronica da Coney Island, perfetto veicolo per la sua performance, a metà tra il cantato e il recitato anche declamatorio.
Un altro cantautore, che quanto ad irriverenza non scherza, è quel bel tipo di Malcolm Holcombe, che forse qualcuno ricorderà per un paio di prove discografiche, la prima delle quali (e la migliore) A Far Cry From Here, oggi praticamente introvabile. Holcombe ha (ri)animato il palco solitamente ingessato del Trade Show, ovvero una bella nicchia acustica nel mezzo della Fiera delle mirabilie discografiche e dintorni. La sua è stata un’esibizione per certi versi scioccante, a tratti selvaggia e incontrollata, e trattandosi di un songwriter folk blues tutto sommato tradizionale, davvero inusuale. Spiritato, una voce rasposa, densa di umori gutturali, ruvida e ubriaca, Holcombe ha strapazzato le melodie di ballate bluesy con attitudine waitsiana, guidando, e spesso sopravanzando, un formidabile quartetto acustico, con slide, contrabbasso e armonica.
Prima di Holcombe, e ben sintonizzato sullo stesso mood blues folk, si era esibito M Ward, da Portland, Oregon, una delle piacevoli scoperte di questo South By Southwest. Una scoperta, invero, solo per il vostro cronista, perché chi è stato ben attento alle cronache musicali degli ultimi due anni, dovrebbe aver già incontrato il nome di M Ward. Legato al clan Giant Sand, e in particolare a Howe Gelb, Ward ha già un album all’attivo e uno in dirittura d’arrivo, e vanta anche una amicizia artistica con Willard Grant Conspiracy. Eccellente chitarrista, Ward ha infilato un paio di sad folk songs, un blues atipico, un rag strumentale e una rilettura, personalissima, di Let’s Dance di David Bowie.
Ward era al suo debutto alla conference texana, così come Dirk Hamilton, in realtà non proprio un debuttante in senso stretto. Ben tre gli showcase che lo hanno visto protagonista, sempre spalleggiato dal chitarrista Braley Kopp, produttore del suo ultimo lavoro, SexSpringEve-rything. Le sue esibizioni hanno confermato, se mai ve ne fosse stata necessità, che l’uomo è più che mai pronto a incrociare i guantoni con la serie A della canzone rock contemporanea, proprio come faceva un quarto di secolo orsono.
Per chiudere questi appunti dedicati ai songwriter, nessuno meglio di Escovedo, che ha presentato in concerto il suo nuovissimo lavoro, A Man Under The Influen-ce, aiutato per l’occasione da uno svagato Ryan Adams. Recensione e commento dello stesso Escovedo le trovate a parte.
GRRL POWER
Voltiamo pagina, e andiamo a vedere cosa è successo nella sezione femminile della canzone d’autore. Gli appunti più belli li ha scaturiti la bella e talentuosa Sara Hickman, artista bizzosa e stravagante, dal brillante talento chitarristico e dalla superba qualità vocale. Sara, che ha aperto lo showcase della Shanachie nel confortevole guscio di Hideout, può davvero fare tutto: la songwriter acustica e preziosa, la chanteuse jazz, la popster spiritosa e raffinata, la cantante blues funk neanche tanto blue eyed. Solo chitarra e batteria (Paul Pearcy) e una back vocal discreta, per la performance più intensa fra le tante viste durante questo South By Southwest.
La regina del festival, per i più, è stata invece Lucinda Williams, del cui show riferiamo in altra parte dell’articolo: qui segnaliamo allora alcune interessanti autrici, prima fra tutte Deanna Varagona, già con Lambchop, Paul Burch e Chris Mills. Deanna ha impressionato per l’aura quasi favolistica, da torbida e svagata storyteller, dall’impronta tardo dylaniana. Così come Mary Lorson, tormentata e dark, seduttiva per l’intensità di ballate elettriche e nervose, che trovano quiete e momentaneo conforto nel canto dimesso e pacificante dell’autrice.
Solari, o comunque non afflitte da inquietudini metropolitane, le country girl Laura Cantrell e Kasey Chambers. Cantrell, che la stampa americana ha già omaggiato dell’ingombrante nomea di miglior songwriter dell’anno di New York City, è una nipotina di Patsy Cline, dalla voce esile e gentile, portavoce di un fare country tradizionale e rigoroso. La Chambers invece, ha beneficiato di un tiro promozionale davvero imponente, che sta fruttando a The Captain, suo debutto solista, buoni riscontri anche commerciali: forse per questo le è stato concesso l’onore di suonare nel grande palco del Waterloo Park, giusto prima di Junior Brown e davanti a una folla almeno cento volte più grande di quella che avrebbe avuto all’interno di un assai più angusto club. Uno show divertente, il suo, nel quale Kasey, rincuorata dalla presenza del papà alla chitarra e del fratello alla batteria, ha dimostrato di aver appreso molto bene la lezione di Lucinda, dopo aver ben studiato anche le solide buone maniere della tradizione country.
IT’S ONLY ROCK AND ROLL
Sezione assai nutrita questa, nella quale confluiscono band come Slobberbone, The Silos, Waco Brothers, Micheal Hall, Vallejo, The Gourds, Monte Montgomery, Delbert McClinton, Billy Joe Shaver, Kevin Gordon, Elbow e Black Crowes, di cui troverete la cronaca dello show nella cover story di questo numero.
Tentiamo qualche appunto sparso, cominciando da Slobberbone, assieme a Waco Bros la band sicuramente più eccitante di tutto il panorama alt. country, e in netto progresso rispetto alle esibizioni cui abbiamo assistito solo lo scorso anno. Non fanno prigionieri i quattro di Denton, che sono riusciti a quadrare magicamente l’aggressività punk con lo sbilenco romanticismo honky tonk. Pochi fronzoli anche per The Silos, trio potente quanto un sestetto, sporco e essenziale, tra Rolling Stones e Clash, infradiciati di rum cubano.
Monte Montgomery è un songwriter, tecnicamente, ma il suo show è da funk/rock/jam band, e la sua chitarra, falsamente acustica. “Jimi Hendrix all’acustica”, lo ha definito Dirk Hamilton, con noi allo show di Monte, e pare davvero una definizione azzeccata. Delbert McClinton, invece, solitamente attorniato da una band poderosa, ha scelto una dimensione downhome, con le sole chitarre acustiche di Gary Nicholson e Stephen Bruton, regalando un set bluesy al confine tra Texas e Mexico. Saltiamo Kevin Gordon, che fa solo venir voglia di riascoltare Chuck Berry, e ricordiamo Billy Joe Shaver, un maestro, di musica e di vita, per tutti i giovani country rocker. Stringeva il cuore, vederlo aggrappato alla sua minuscola Martin mentre dedicava Star In My Heart al figlio Eddie, recentemente scomparso, la cui scomoda eredità per quel pomeriggio texano era nelle ruvide, ma ispirate mani, del buon Jessie Taylor. “Mr. Outlaw”, uno tra i più grandi honky tonker di sempre, ha roccato e rollato, ma anche swingato, per un’oretta buona, divertendosi sul palco come fosse la prima volta, e facendo divertire tutti, in un pomeriggio in cui l’assenza del povero Eddie Shaver pesava come un macigno. Hats Off to Billy Joe.
OUT OF THE BLUE
Alla rinfusa, ficchiamo in queste ultime righe il progetto Willard Grant Conspiracy, ancora diverso, come ogni volta, e come ogni volta, sempre affascinante. Accanto ai due cospiratori Fisher e Austin, il solo David Michael Curry al violino, e di volta in volta accompagnatori casuali, e spontanei, a conferma del fatto che le canzoni di WGC sono opere aperte, canzoni in progress. E ancora Los Super Seven, giunti con Canto (vedi recensione su questo numero) al secondo capitolo discografico. Nell’ordine Cesar Rosas, David Hidalgo, Ruben Ramos, Rick Trevino e Raul Malo, i solisti che si sono affollati sul palco, affiancati da tre percussionisti e un violino, per un divertente tour dell’America Latina.
Dall’America Latina all’Italia: avete capito bene, quest’anno, ed è questa la vera novità del quindicesimo South By Southwest, c’erano anche due band italiane per le strade di Austin, i romani Cosmonauti, surf band strumentale accasati presso una indie di Austin, e il forlivese Stiv Cantarelli, leader e frontman dei SaTellite Inn, la prima alt. country band italiana con un disco americano per la MoodFood Records, già casa dei Whiskeytown. Stiv si è trasferito negli States, almeno per ora, e le date texane sono state il debutto della sua nuova band. Un buon debutto, a giudicare da come il pubblico li ha ricevuti.
Tra i loro nuovi fan abbiamo visto Freddie Krc (Shakin’ Apostles), Merel Bregante e, più tardi a Portland ove Stiv ha suonato una decina di date, i Richmond Fontaine.