È colto, gentile, brillante, ironico… e un po’ timido. Lo capisci da come reagisce a certe domande, dal modo in cui parla e si muove. Ma più di ogni altra cosa, David Byrne è una persona creativa. Lui ama definirsi “artista”, anche se ci ride su. Effettivamente la definizione di “musicista” gli va un po’ stretta: leader dei leggendari Talking Heads a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, artista visuale a quanto pare ben quotato, discografico a capo della Luaka Bop, Byrne ha saputo inventare se stesso più e più volte. La sua ultima creazione è Look Into The Eyeball, un nuovo album di canzoni concepito in un paesino sperduto dell’Andalusia che il cantante è venuto a presentare a Milano, con alcune interviste e un concerto (vedi box).
Smessi i panni dell’intellettuale, chissà se momentaneamente, in Look Into The Eyeball David Byrne si mischia a noi comuni mortali. L’album è di una leggerezza a tratti spiazzante. Ci sono un sacco di archi. Ci sono ritmi ‘sintetici’ che servono a ‘tenere a galla’ un album altrimenti troppo tenero. Manca quasi completamente, ed è un peccato, il coté ‘etnico’ della musica del newyorkese che emerge solo nel ritmo brasileiro di The Great Intoxication. In compenso ci sono melodie d’altri tempi, molto romantiche – “romantico come può esserlo un matematico”, dice ironicamente Byrne durante la conferenza stampa di presentazione dell’album.
Byrne cita più volte Caetano Veloso come fonte d’ispirazione per questa svolta. Cerca, cioè, d’essere sentimentale ma in modo moderno, coniugando ritmi elettronici e melodie d’antan. Con uno scopo: catturare la bellezza. E quando riesce a mettere in note il fluire estatico della vita, strappa più di un sorriso. Come recita una sua nuova canzone: smile!
Sei considerato un intellettuale. Credo che Look Into The Eyeball mostri invece la tua faccia più romantica, umana se vuoi…
Volevo raggiungere due obiettivi precisi: volevo che le melodie e le armonie risultassero emozionanti, mettendoci anche un pizzico di malinconia; e volevo che ci fossero dei beats. Mi interessava trovare il giusto bilanciamento tra questi due elementi come hanno già fatto Caetano Veloso e Bjork.
Pensi che Look Into The Eyeball sia malinconico?
Lo sono le melodie. E in alcune canzoni lo è anche il mio modo di cantare.
Hai scritto che a un certo punto hai sentito il bisogno di “chiedere scusa per l’accessibilità di queste canzoni”. Perché mai scusarsi per avere scritto una bella melodia?!
È a causa dell’educazione che ho ricevuto, della mia cultura. Non accettiamo la bellezza, questo è il punto. Apprezziamo la bellezza solo se viene dal passato: una vecchia melodia, un vecchio quadro ci commuovono. Pensiamo che l’arte contemporanea debba essere aggressiva, che debba nascere dal confronto. E invece io preferisco sedurre piuttosto che intimidire. Cerco la bellezza. Ecco: sto cercando un modo di essere innovativo seducendo la gente con la bellezza e non con le urla o con un’opera d’arte dall’aspetto sgradevole.
A un primo ascolto le musiche sono più dirette dei testi. Sei d’accordo?
Cerco di farmi guidare dall’istinto nel comporre le musiche. Ma coi testi ci sto più attento: se in un passaggio mi capita di essere troppo romantico, cambio il testo per non cadere in un clichè.
Parlando del concerto di ieri sera, non sapevo che interpretassi I Wanna Dance With Somebody di Whitney Houston…
Non la faccio spesso. È nata come interpretazione ironica. Poi ho visto che funzionava, che ero riuscito a trasformare questo pezzo di spazzatura pop in una vera e propria canzone.
Hai fatto arrabbiare il tizio vicino a me: continuava a imprecare… Ti succede mai di incontrare fan aggressivi?
Accade quasi esclusivamente con i nordici… Per qualche motivo nei paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti pensano che ci debba essere una netta separazione tra musica ‘seria’ e musica ‘commerciale’. Pensano che la musica pop non possieda alcuna qualità. Io invece penso che sia possibile mischiarle.
Uno dei temi del disco è il rapporto tra le persone. In una canzone intitolata Neighborhood scendi per strada, osservi gli abitanti del tuo quartiere. Hai imparato qualcosa osservando la gente?
Ho imparato che gli esseri umani sono belli, ma anche violenti, caotici, perversi. E che è possibile essere tutte queste cose contemporaneamente.
Ti senti diverso da loro?
No, sono esattamente come loro (ride).
Vivi ancora a New York?
Sì, nel Greenwich Village. È lì che è ambientata Neighborhood. A volte cammino per strada e mi vengono in mente delle idee, dei versi, delle melodie. Le incido lì sul posto, porto sempre con me un registratore portatile… È per questo che preferisco le strade meno battute: la gente mi crederebbe pazzo! (Ride)
Puoi girare indisturbato?
Ogni tanto qualcuno mi riconosce… ma avviene raramente. Vivo una vita normale, vado a mangiare al ristorante all’angolo senza problemi. È importante per me.
New York è ancora culturalmente e musicalmente vivace tanto quanto lo era ai tempi del CBGB’s?
La città è cambiata, ma è ancora stimolante viverci. New York è un polo d’attrazione per gli artisti che vengono da fuori e lì s’incontrano. È un luogo di ritrovo, un terreno su cui collaborare.
Non c’è nulla di paragonabile al CBGB’s degli anni Settanta?
Ci sono sì molti club, dal Knitting Factory al Tonic dove si fa musica creativa, dove si sperimenta, ma nulla di simile a quella scena cheio sappia.
A Manhattan gli affitti sono alle stelle e per molti artisti è dura…
Verissimo. Anche Brooklyn sta diventando sempre più costosa. Se non ci sarà un’inversione di tendenza Manhattan diventerà un parco divertimenti come Las Vegas e non più una forza culturale.
Il testo di Revolution parla di una cantante country: qualcuno in particolare?
Oh, potrebbe essere Patsy Cline, Lucinda Williams o una qualsiasi cantante da bar… Parlo di una rivoluzione profonda che avviene dentro le persone: cambiano molto lentamente, poi un giorno si svegliano e capiscono di essere diverse. E iniziano a comportarsi in modo diverso. È una rivoluzione inconscia.
Credi che la musica possa ispirare questo tipo di rivoluzione?
Sì. Anzi, forse questo è l’unico modo in cui la musica può ispirare la gente. Se invece la musica è troppo didattica, se si prefigge consciamente di cambiare la mentalità delle persone è destinata a fallire.
Quali artisti hanno ispirato la tua “rivoluzione inconscia”?
Moltissimi. Caetano Veloso, Celia Cruz, Serge Gainsbourg… ma l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito.
Parliamo della Luaka Bop? Hai fondato l’etichetta nel 1989 e da allora il mondo occidentale ha scoperto l’esistenza di moltissimi ‘mondi musicali’. Credi che ce ne siano altri che devono essere ancora ‘scoperti’?
Credo che per l’ascoltatore occidentale sia più facile apprezzare e ascoltare le forme musicali ‘classiche’ o ‘tradizionali’ dei vari paesi del mondo. Ed è esattamente quello che è accaduto dal 1989 ad oggi. Penso che adesso l’uomo occidentale sia pronto per apprezzare anche gli artisti popolari di altre culture. Parlo di artisti che, partendo dalle radici tradizionali, fanno musica innovativa, contaminata. Abbiamo scoperto i suonatori di sitar? Adesso dobbiamo scoprire i musicisti che mischiano sitar e sintetizzatore.
Pensi che noi occidentali saremo mai in grado di ascoltare musiche di altre culture senza alcun senso di superiorità, senza considerarle esotiche?
Non potremmo mai ascoltare e quindi apprezzare queste musiche nel contesto in cui sono nate. Mai. Ma queste musiche hanno comunque il potere di suscitare emozioni e di provocare un cambiamento dentro di noi. La gente sta cominciando solo adesso ad apprezzare davvero certi artisti, smettendo di considerarli ‘spezie musicali’.
Pensi che in futuro Internet possa aiutare le piccole etichette come la Luaka Bop a vendere più dischi?
Secondo me questo è un mito. Credimi, è maledettamente difficile vendere musica via Internet. È vero che un appassionato che vive in un paesino sperduto può comprare via Internet dischi che non arriveranno mai nel negozietto sotto casa. Ma come fa questo appassionato a sapere che questi dischi, che questi artisti, che queste etichette esistono?
Pubblicità! Stampa, televisioni, radio…
Già. Ma non è esattamente quello che Internet vorrebbe bypassare? Alla fine Internet è come la radio o la televisione: dominano le multinazionali. Con l’aggravante che la Rete ha ancora molti limiti tecnici nella trasmissione dei dati.
La gente vuole la musica gratis su Internet. Che cosa pensi di Napster?
Anch’io faccio cassettine per gli amici, per far circolare gratis la musica che mi piace. La cosa bella è che si crea una comunità di persone, di amici che comunicano tramite la musica. La musica esprime i loro sentimenti e non hanno nemmeno bisogno di parlarsi per intendersi. Quella di Internet non è una comunità. La chiamano comunità, ma non lo è. Sono persone sparse nel mondo sedute davanti a uno schermo. L’aspetto sociale della musica va a farsi benedire. È una grande perdita per ogni vero appassionato di musica.
Alcuni mesi fa abbiamo intervistato i tuoi ex compagni nei Talking Heads, Chris Frantz e Tina Weymouth. Siamo rimasti colpiti da quanto Tina sia tuttora emotivamente sconvolta dalla separazione del gruppo, che pure è avvenuta 10 anni fa…
Io riesco a vedere le cose in modo molto più distaccato. Sono molto, molto orgoglioso della musica che abbiamo fatto, dei film, dei concerti. Ma non posso vivere ancora in quel periodo della mia vita (ride), devo mettermelo alle spalle e vivere nel presente.
Tina ha detto, più o meno, che “David è come un registratore che cattura i suoni che lo circondano”, e fin qui tutto ok. Poi ha aggiunto: “Ma non li rielabora”…
Penso che potrebbe essere vero per alcune cose del mio album Rei Momo, che feci una decina d’anni fa. Non credo che sia una critica valida oggi: la fusione dei vari elementi musicali che utilizzo è tale da creare qualcosa di nuovo. Allora le mie influenze erano evidenti. Oggi non lo sono più.
Parlami del progetto Nuovi peccati?
Si tratta di un libriccino fatto in collaborazione con la Biennale di Valencia, in Spagna. È una guida ai nuovi peccati che verrà infilata furtivamente sotto le porte degli alberghi, il libro ideale da mettere al fianco della Bibbia. Ho cercato di utilizzare uno stile di scrittura simile a quello della Bibbia, didattico e dogmatico, spiegando quali sono i nuovi peccati e qual è il nuovo inferno.
Abbiamo bisogno di una guida?
Le virtù di ieri sono i peccati di oggi. Abbiamo bisogno di una guida che ce lo spieghi (ride).
Quali sono i nuovi peccati? L’avidità? La fame di potere?
No, quelli sono i vecchi. Quelli nuovi sono la carità, la speranza…
La speranza…?!
Sì, la speranza. Vedo che hai bisogno di quella guida… (risate) È una guida sincera, ma è come se l’avesse scritta un pazzo (ride).
Credi che l’ironia sia una parte importante del tuo lavoro?
Sì, assolutamente. Ma non del nuovo album.
Sei soddisfatto della reazione della critica e del pubblico ai tuoi lavori extramusicali?
Non mi posso lamentare. In Italia, per fare un esempio, la reazione è buona. Ma negli Stati Uniti ci sono più resistenze, quello dell’arte è un circolo chiuso. Sono sospettosi…
Probabilmente pensano che tu sia “solo un musicista”…
Già, è quel che pensano loro… erroneamente (ride)! La mia prima ambizione è sempre stata essere un artista.
La musica è stata una deviazione nel percorso (ride)…
Una GROSSA deviazione…
Già, enorme (ride)… Ho decisamente esagerato (ride).
Ieri, durante la conferenza stampa, hai detto che non hai potuto invitare il Balanescu Quartet a incidere con te perché costava troppo. David Byrne non riesce a fare i dischi che vorrebbe?!
Registrare un disco pop costa maledettamente tanto. Se un disco vende molto, con quello successivo puoi permetterti qualche lusso.
Anche alla luce di queste considerazioni, non rimpiangi i tempi del grande successo coi Talking Heads? Più soldi uguale più libertà…
Come dicevo ieri, mi hanno offerto più volte di riformare il gruppo, ma ho sempre rifiutato senza pensarci su. Certo sarebbe bello girare con uno spettacolo più ricco, suonare con tutti i musicisti che voglio… Ma non ho rimpianti. Anzi, il bello della musica è che per scrivere una grande canzone basta una chitarra.
Finita l’intervista incrocio nei corridoi della Virgin la vedova di Fabrizio De Andrè, Dori Ghezzi, e Fernanda Pivano. Byrne ha più volte ripetuto che Creuza de ma di De Andrè e uno dei dischi più belli degli anni Ottanta. Durante la conferenza stampa di ieri ha affermato di avere distribuito ai collaboratori della Luaka Bop cassette di artisti italiani che gli piacciono, da De Andrè a Battiato passando per gli Avion Travel, senza ricevere da parte dei suoi soci gli apprezzamenti che si aspettava. Strano, ma vero: a volte Byrne è in minoranza all’interno della sua stessa etichetta che, come afferma il cantante, “è una specie di democrazia”.
Alla luce della visita di Dori Ghezzi, si può pensare che la Luaka Bop, o almeno Byrne, abbia intenzione di pubblicare Creuza de ma all’estero, dando il giusto risalto a uno dei dischi italiani più belli d’ogni tempo. Incrociamo le dita.