18/05/2007

Amália Rodrigues

The Art Of Amália Rodrigues (Hemisphere/Emi, 1998)

Aveva la voce arrochita dalla vita, Amália  Rodrigues. Fin da giovane, come se l’invisibile patina del tempo si  fosse depositata su di lei, segnandola dalla nascita. Come se quel  timbro rugginoso, lacerato, inconfondibilmente “suo” fosse  incrinato da sempre. Causa: una ferita mai rimarginata, la malattia  del vivere, il peccato originale di essere umano, troppo umano, e di  raccontare storie che parlano di sconfitta e morte, di sofferenze,  inganni, tradimenti e amori perduti. Perché quel canto viaggia sulla  stessa lunghezza d’onda del blues ed è il blues più occidentale e  introverso del mondo, oltre le colonne d’Ercole del sentimento.  Suona remoto, metafisico, declinato dagli accordi della chitarra che  scivola su melodie intrise di nostalgia: Tudo isto é fado,  come titola una delle sue canzoni-manifesto: cioè tutto questo è fado. Un modo di vivere, l’espressione più autentica dello spirito  lusitano: un po’ come tango o samba lo sono rispettivamente per  quello argentino e brasiliano.

Scriveva nel 1929 il padre nobile degli scrittori  portoghesi, Fernando Pessoa, che “il fado non è né allegro né  triste, è la stanchezza dell’anima forte, l’occhiata di disprezzo  del Portogallo a quel Dio cui ha creduto e che poi l’ha abbandonato:  nel fado gli dei ritornano, legittimi e lontani…”. Amália  diceva invece, più semplicemente, che il fado “è destino”  (dal termine latino fatum, fato). Da qui il fatalismo, la melanconia e  la saudade – una forma sublimata di nostalgia che fa emergere  un sentimento “cosmico”, di perdita incommensurabile e  assoluta – che sono connaturati con il popolo che vive in questo  lembo estremo dell’Occidente, affacciato sulle terre d’Oltremare e  sugli orizzonti infiniti dell’Oceano. Per questo il cantautore Ivano  Fossati ha definito il Portogallo e la sua capitale “un vagone  ferroviario che si è staccato dal resto del convoglio…”.

Voce-simbolo di quell’universo, a quattro anni  dalla scomparsa la Rodrigues è ancora una leggenda. E lo resterà per  sempre, al pari di figure entrate nella mitologia della musica come  Edith Piaf, Bessie Smith e Billie Holiday. Quando la grande fadista  morì nella sua casa all’età di settantanove anni – erano le 11  di mattina del 6 ottobre del 1999 – persino la televisione di Stato  portoghese interruppe le trasmissioni per dare la notizia. E a  Lisbona, la sua città, furono proclamati tre giorni di lutto  nazionale. Se n’era andata, ha scritto il critico Marco Mangiarotti,  “qualcosa di più della regina musicale di un genere, il  fado-canzone”; se n’è andato “l’eteronimo femminile del  Portogallo, la rivincita delle sue sconfitte al maschile”.  “Dal momento che esiste la morte, la vita diventa immediatamente  assurda”, aveva detto Amália con quell’orgoglio scolpito di  donna originaria dell’Alfama, uno dei quartieri poveri e malfamati della capitale. E ancora: “Per me la morte è non cantare  più”. La malattia, per uno scherzo feroce del destino, l’aveva  colpita proprio nel suo bene più prezioso, divorandole a poco a poco  quella voce disperata ed emozionante. Una voce che l’aveva portata  in giro per ogni angolo del pianeta, facendola diventare l’ambasciatrice  culturale del suo Paese.

Con la madre, quella quattordicenne dai capelli  corvini e dallo sguardo fiero vendeva arance ai marinai per poi  recarsi a cantare nelle bettole del porto. Dunque la sua carriera ha  superato abbondantemente il mezzo secolo e risulta difficile  ripercorrerla facendo ricorso a un solo disco. Amália vantava un  repertorio impressionante, più o meno cinquecento pezzi sgranati in  circa centosettanta incisioni. Senza contare le migliaia di concerti  sui palcoscenici di tutto il mondo: con l’inseparabile scialle nero  sulle spalle si è esibita tra l’altro all’Olympia di Parigi e  alla Carnegie Hall di New York, al Teatro Sistina di Roma all’Expo  della sua Lisbona, dove nel 1998 tenne l’ultima, sofferta  performance. Le sue canzoni portano in calce la firma di grandi autori  del suo Paese, come José Alfonso, Alfredo Duarte, Alberto Janes,  Amadeu do Vale, David Mourâo-Ferreira. Per questo abbiamo scelto un’antologia,  The Art Of Amália Rodrigues, percorso tra arte e vita  attraverso diciotto tracce, tra le più intense in assoluto: dentro ci  si trova anche Povo que lavas no rio (1962) di Pedro Homem de  Mello e Joaquim Campos, un fado solenne, tragico, il pezzo che lei  preferiva.

La compilation è incentrata sul suo ventennio d’oro:  dalle incisioni degli anni Cinquanta fino ai successi registrati in  patria tra il 1965 e il 1970. Amália, che aveva raccolto l’eredità  di un’altra immensa fadista (Maria Severa), compie la sua prima,  importante svolta artistica nel 1952. Grazie al produttore Valentim de  Carvalho, comincia a rischiare: nella scelta dei brani, negli  arrangiamenti e nella maniera di cantare, in cui fa convivere il fado  di Lisbona con la colta tradizione trobadorica di Coimbra. Il tutto “contaminato” da melismi arabeggianti e da ornamenti  andalusi. Proprio nel 1952, negli studi di Abbey Road a Londra,  propone un repertorio in equilibrio miracoloso tra la tradizione in  senso stretto e temi più “leggeri” provenienti dalla musica  popolare. Alcuni esempi: la magnifica Lisboa Antigua, la  danzante Uma casa portugeuisa e Coimbra, che in origine  faceva parte della colonna sonora di un film con Amália ma non era  cantato da lei. È soltanto nel 1953 che esce la sua versione,  riscuotendo un enorme successo internazionale: “Coimbra de la  Chopera è la capitale dell’amore in Portogallo… Coimbra è una  lezione di sogno e tradizione”, recita il testo.

Tra le cose più belle di Amália e, in generale  della musica lusitana, non vanno dimenticate Barco Negro (con  un “battito” percussivo dal lontano profumo d’Africa) e  soprattutto Estranha forma de vida, autobiografica confessione  in pubblico: “Che strana forma di vita ha questo mio cuore / Vive  di vita perduta che gli darei in regalo / Cuore indipendente, cuore  che non comando / Vive sperduto tra la gente, sanguinando  ardentemente, cuore indipendente”. L’album vira poi verso gli  anni Sessanta-Settanta riproponendo un’interprete ancor più  completa: è quella di un disco-capolavoro della maturità, Com que  voz, che oltre alla title-track contiene Gaivota e Maria  Lisboa.

L’ultimo brano di The Art Of Amália Rodrigues,  cioè Foi Deus, fa parte in realtà delle storiche registrazioni del 1952 ad Abbey Road. Canta la divina Amália con  struggimento infinito: “Fu Dio che diede la luce agli occhi, il  profumo alle rose, l’oro al sole e l’argento alla luna… Fu Dio a  darmi questa voce”. Appunto.

DISCHI DELLA  MEDESIMA VENA ARTISTICA

Bévinda / So Real (Celluloid/Mélodie,  1998)
Tra le eredi della Rodrigues è la meno “filologica” di  tutte. Si chiama Bévinda, vive e incide in Francia dove gode di una  solida (quanto meritata) reputazione. Dopo una manciata di album, uno  dei quali dedicato alle poesie di Fernando Pessoa, si fa notare con  questo live registrato nel gennaio 1998 nella parigina Chapelle des  Lombards. Un album non inciso alla perfezione forse, ma molto caldo e coinvolgente, capace di condensare in un’ora la carriera di una  cantante-autrice dai guizzi originali e dal tocco elegante. Oltre ai  suoi hit (da Fatum alla “femminista” Liberdade,  fino a Julia Florista), Bévinda per l’occasione regala una  cover di Barco negro, un classico della grande Amália.

Mísia / Garras do Sentidos (Detour/Erato, 1998)
Hanno detto di lei che “è la nuova voce del fado”. Vero:  o, meglio, è uno straniante incrocio tra le fadiste d’antan, Edih  Piaf e il teatro Kabuki. Intellettuale e sofisticata, con un solido  background cosmopolita alle spalle, Mísia è la moderna (e capricciosa)  musa di un genere autenticamente portoghese, che oggi sembra tuttavia  essere rinato a vita nuova in Francia (anzi, a Parigi). Per lei hanno scritto testi e liriche i bei nomi della letteratura lusitana, dal  premio Nobel José Saramago al genialoide Antonio Lobo Antunes. E pure  raffinati cantautori, quali Sergio Godinho e Vitorino Salomé. In questo lavoro, Mísia ci restituisce la sua versione stilizzata e astratta del  fado. E dipinge con pochi tratti essenziali un mondo sensuale e  indecifrabile, così vicino e così lontano alla nostra sensibilità.

Cristina Branco / Post-scriptum (L’empreinte  digitale, 2000)
Sebbene non sia stato adeguatamente distribuito in Italia, questo cd  della trentenne Cristina Branco è senza dubbio uno dei frutti più  maturi ed entusiasmanti del nuovo fado. Ancor più che nel successivo e notevole Corpo iluminado (pubblicato per i tipi della Universal,  quindi di più facile reperibilità), qui la cantante mostra un talento  e una personalità eccezionali. Come nel pezzo che dà il titolo al  lavoro, il toccante Post-scriptum, appunto. E pensare che, come  tutti i giovani nati all’epoca della Rivoluzione dei Garofani  portoghese, questa ragazza del fado sapeva poco e niente…

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