Aveva la voce arrochita dalla vita, Amália Rodrigues. Fin da giovane, come se l’invisibile patina del tempo si fosse depositata su di lei, segnandola dalla nascita. Come se quel timbro rugginoso, lacerato, inconfondibilmente “suo” fosse incrinato da sempre. Causa: una ferita mai rimarginata, la malattia del vivere, il peccato originale di essere umano, troppo umano, e di raccontare storie che parlano di sconfitta e morte, di sofferenze, inganni, tradimenti e amori perduti. Perché quel canto viaggia sulla stessa lunghezza d’onda del blues ed è il blues più occidentale e introverso del mondo, oltre le colonne d’Ercole del sentimento. Suona remoto, metafisico, declinato dagli accordi della chitarra che scivola su melodie intrise di nostalgia: Tudo isto é fado, come titola una delle sue canzoni-manifesto: cioè tutto questo è fado. Un modo di vivere, l’espressione più autentica dello spirito lusitano: un po’ come tango o samba lo sono rispettivamente per quello argentino e brasiliano.
Scriveva nel 1929 il padre nobile degli scrittori portoghesi, Fernando Pessoa, che “il fado non è né allegro né triste, è la stanchezza dell’anima forte, l’occhiata di disprezzo del Portogallo a quel Dio cui ha creduto e che poi l’ha abbandonato: nel fado gli dei ritornano, legittimi e lontani…”. Amália diceva invece, più semplicemente, che il fado “è destino” (dal termine latino fatum, fato). Da qui il fatalismo, la melanconia e la saudade – una forma sublimata di nostalgia che fa emergere un sentimento “cosmico”, di perdita incommensurabile e assoluta – che sono connaturati con il popolo che vive in questo lembo estremo dell’Occidente, affacciato sulle terre d’Oltremare e sugli orizzonti infiniti dell’Oceano. Per questo il cantautore Ivano Fossati ha definito il Portogallo e la sua capitale “un vagone ferroviario che si è staccato dal resto del convoglio…”.
Voce-simbolo di quell’universo, a quattro anni dalla scomparsa la Rodrigues è ancora una leggenda. E lo resterà per sempre, al pari di figure entrate nella mitologia della musica come Edith Piaf, Bessie Smith e Billie Holiday. Quando la grande fadista morì nella sua casa all’età di settantanove anni – erano le 11 di mattina del 6 ottobre del 1999 – persino la televisione di Stato portoghese interruppe le trasmissioni per dare la notizia. E a Lisbona, la sua città, furono proclamati tre giorni di lutto nazionale. Se n’era andata, ha scritto il critico Marco Mangiarotti, “qualcosa di più della regina musicale di un genere, il fado-canzone”; se n’è andato “l’eteronimo femminile del Portogallo, la rivincita delle sue sconfitte al maschile”. “Dal momento che esiste la morte, la vita diventa immediatamente assurda”, aveva detto Amália con quell’orgoglio scolpito di donna originaria dell’Alfama, uno dei quartieri poveri e malfamati della capitale. E ancora: “Per me la morte è non cantare più”. La malattia, per uno scherzo feroce del destino, l’aveva colpita proprio nel suo bene più prezioso, divorandole a poco a poco quella voce disperata ed emozionante. Una voce che l’aveva portata in giro per ogni angolo del pianeta, facendola diventare l’ambasciatrice culturale del suo Paese.
Con la madre, quella quattordicenne dai capelli corvini e dallo sguardo fiero vendeva arance ai marinai per poi recarsi a cantare nelle bettole del porto. Dunque la sua carriera ha superato abbondantemente il mezzo secolo e risulta difficile ripercorrerla facendo ricorso a un solo disco. Amália vantava un repertorio impressionante, più o meno cinquecento pezzi sgranati in circa centosettanta incisioni. Senza contare le migliaia di concerti sui palcoscenici di tutto il mondo: con l’inseparabile scialle nero sulle spalle si è esibita tra l’altro all’Olympia di Parigi e alla Carnegie Hall di New York, al Teatro Sistina di Roma all’Expo della sua Lisbona, dove nel 1998 tenne l’ultima, sofferta performance. Le sue canzoni portano in calce la firma di grandi autori del suo Paese, come José Alfonso, Alfredo Duarte, Alberto Janes, Amadeu do Vale, David Mourâo-Ferreira. Per questo abbiamo scelto un’antologia, The Art Of Amália Rodrigues, percorso tra arte e vita attraverso diciotto tracce, tra le più intense in assoluto: dentro ci si trova anche Povo que lavas no rio (1962) di Pedro Homem de Mello e Joaquim Campos, un fado solenne, tragico, il pezzo che lei preferiva.
La compilation è incentrata sul suo ventennio d’oro: dalle incisioni degli anni Cinquanta fino ai successi registrati in patria tra il 1965 e il 1970. Amália, che aveva raccolto l’eredità di un’altra immensa fadista (Maria Severa), compie la sua prima, importante svolta artistica nel 1952. Grazie al produttore Valentim de Carvalho, comincia a rischiare: nella scelta dei brani, negli arrangiamenti e nella maniera di cantare, in cui fa convivere il fado di Lisbona con la colta tradizione trobadorica di Coimbra. Il tutto “contaminato” da melismi arabeggianti e da ornamenti andalusi. Proprio nel 1952, negli studi di Abbey Road a Londra, propone un repertorio in equilibrio miracoloso tra la tradizione in senso stretto e temi più “leggeri” provenienti dalla musica popolare. Alcuni esempi: la magnifica Lisboa Antigua, la danzante Uma casa portugeuisa e Coimbra, che in origine faceva parte della colonna sonora di un film con Amália ma non era cantato da lei. È soltanto nel 1953 che esce la sua versione, riscuotendo un enorme successo internazionale: “Coimbra de la Chopera è la capitale dell’amore in Portogallo… Coimbra è una lezione di sogno e tradizione”, recita il testo.
Tra le cose più belle di Amália e, in generale della musica lusitana, non vanno dimenticate Barco Negro (con un “battito” percussivo dal lontano profumo d’Africa) e soprattutto Estranha forma de vida, autobiografica confessione in pubblico: “Che strana forma di vita ha questo mio cuore / Vive di vita perduta che gli darei in regalo / Cuore indipendente, cuore che non comando / Vive sperduto tra la gente, sanguinando ardentemente, cuore indipendente”. L’album vira poi verso gli anni Sessanta-Settanta riproponendo un’interprete ancor più completa: è quella di un disco-capolavoro della maturità, Com que voz, che oltre alla title-track contiene Gaivota e Maria Lisboa.
L’ultimo brano di The Art Of Amália Rodrigues, cioè Foi Deus, fa parte in realtà delle storiche registrazioni del 1952 ad Abbey Road. Canta la divina Amália con struggimento infinito: “Fu Dio che diede la luce agli occhi, il profumo alle rose, l’oro al sole e l’argento alla luna… Fu Dio a darmi questa voce”. Appunto.
DISCHI DELLA MEDESIMA VENA ARTISTICA
Bévinda / So Real (Celluloid/Mélodie, 1998)
Tra le eredi della Rodrigues è la meno “filologica” di tutte. Si chiama Bévinda, vive e incide in Francia dove gode di una solida (quanto meritata) reputazione. Dopo una manciata di album, uno dei quali dedicato alle poesie di Fernando Pessoa, si fa notare con questo live registrato nel gennaio 1998 nella parigina Chapelle des Lombards. Un album non inciso alla perfezione forse, ma molto caldo e coinvolgente, capace di condensare in un’ora la carriera di una cantante-autrice dai guizzi originali e dal tocco elegante. Oltre ai suoi hit (da Fatum alla “femminista” Liberdade, fino a Julia Florista), Bévinda per l’occasione regala una cover di Barco negro, un classico della grande Amália.
Mísia / Garras do Sentidos (Detour/Erato, 1998)
Hanno detto di lei che “è la nuova voce del fado”. Vero: o, meglio, è uno straniante incrocio tra le fadiste d’antan, Edih Piaf e il teatro Kabuki. Intellettuale e sofisticata, con un solido background cosmopolita alle spalle, Mísia è la moderna (e capricciosa) musa di un genere autenticamente portoghese, che oggi sembra tuttavia essere rinato a vita nuova in Francia (anzi, a Parigi). Per lei hanno scritto testi e liriche i bei nomi della letteratura lusitana, dal premio Nobel José Saramago al genialoide Antonio Lobo Antunes. E pure raffinati cantautori, quali Sergio Godinho e Vitorino Salomé. In questo lavoro, Mísia ci restituisce la sua versione stilizzata e astratta del fado. E dipinge con pochi tratti essenziali un mondo sensuale e indecifrabile, così vicino e così lontano alla nostra sensibilità.
Cristina Branco / Post-scriptum (L’empreinte digitale, 2000)
Sebbene non sia stato adeguatamente distribuito in Italia, questo cd della trentenne Cristina Branco è senza dubbio uno dei frutti più maturi ed entusiasmanti del nuovo fado. Ancor più che nel successivo e notevole Corpo iluminado (pubblicato per i tipi della Universal, quindi di più facile reperibilità), qui la cantante mostra un talento e una personalità eccezionali. Come nel pezzo che dà il titolo al lavoro, il toccante Post-scriptum, appunto. E pensare che, come tutti i giovani nati all’epoca della Rivoluzione dei Garofani portoghese, questa ragazza del fado sapeva poco e niente…