Con queste toccanti parole di fede e di amore, John William Coltrane detto presenta la suite in quattro parti di A Love Supreme: il disco più amato e curato di uno dei più influenti jazzmen del nostro tempo, a partire dal sodalizio con Miles Davis fino agli incontri con Monk e con gli uomini dell’avanguardia, Dolphy e Coleman su tutti. Un lavoro voluto fortemente fin nei minimi dettagli, dall’immagine di copertina (era la sua foto preferita) alla grafica austera e rigorosamente in bianco e nero. Già Crescent, disco inciso nel giugno dello stesso anno, era stato il preludio della sua conversione al misticismo, condizione acutizzatasi ancor di più per la morte del grande amico Eric Dolphy, a pochi mesi dall’uscita di quell’album. A Love Supreme è un’opera che nasce dal desiderio intimo di religiosità suprema di un uomo che fino a pochi anni prima era perduto moralmente e fisicamente, divorato dall’alcol e dall’eroina. Un disco che diventa una sorta di acuta indagine introspettiva e che ha il proprio centro nell’Io. A Love Supreme è quindi strettamente legato alla vita e diviene inevitabilmente un momento essenziale per la creazione di una nuova dimensione umana e musicale di .
Quella specie di poesia introduttiva di Coltrane è la sintesi di un itinerario esistenziale che conduce l’uomo e il musicista a un confronto con Dio. L’articolazione sonora dei quattro movimenti (Acknowledgement, Resolution, Pursuance, Pslam) risente di queste esigenze interiori e la costruzione musicale va a toccare addirittura strutture appartenenti a tradizioni musicali e religiose sia occidentali che orientali; infatti per il sassofonista l’orientamento verso forme rituali di tipo indiano si miscelava con una forma di cattolicesimo personalissimo, intriso di spiritualità e crisi di coscienza. Quindi, oltre a basarsi su una grande libertà improvvisativa rispetto alle strutture delle sequenze armoniche a favore dei valori timbrici, l’opera si snoda maestosa nei labirinti nascosti del jazz e finisce per approdare a una serie di appunti continui e a un clima molto meditativo.
Questo nuovo corso (Coltrane aveva abbracciato da qualche anno lo spiritualismo panconfessionale e praticava lo yoga) viene inaugurato dal quartetto composto Jimmy Garrison al contrabbasso, Alfred McCoy Tyner al pianoforte ed Elvin Jones alla batteria. Muovendosi dentro alla logica della suite, sente di esprimersi come fosse un circuito dell’anima che prende e coinvolge di riflesso anche gli altri musicisti – tutto sommato meno ascetici di lui. Il sax comincia a respirare forte viaggiando al di là dell’estro e dell’invenzione: qui c’è qualcosa di più grande dell’ingegno sonoro, c’è l’intima necessità di arrivare finalmente a una coscienza positiva come essere umano. Anche se molti ritengono che questo disco è per certi versi un lavoro di jazz modale, in realtà risente molto della avvenuta a New York nel 1960, ovvero della New Thing e delle esperienze con Monk. I significati religiosi si sviluppano sulle scia delle teorie di Martin Luther King e di un equilibrio mistico interiore alla ricerca del Bene. Una posizione ideologica assunta da Coltrane e da tutti quei musicisti non aderenti al Black Power e alla sua tensione verso una rivoluzione. Tutto ciò ne modifica la personalità. A Love Supreme è acqua purissima, limpida: musica come trasformazione vitale, musica e movimento, musica e Dio, così d’impatto emotivo da andare al di là di ogni innovazione stilistica.
Con il passaggio dall’etichetta Atlantic all’Impulse di qualche anno prima, si nota proprio questa trasformazione, il desiderio forte di innestare nella sua esperienza musicale un discorso mistico. Una specie di respiro naturale che vuol dimostrare che la vita stessa è musica, musica della spontaneità e in essa non c’è contraffazione. . Religione e religiosità, complementari ma di fatto contrapposte, lottano in un’immensa esplorazione di intenzioni e di desideri: impulsi che vanno verso l’Assoluto con la simbologia dell’ (Acknowledgement); cui seguono la (Resolution) e l’ (Pursuance) per arrivare al (Psalm). Il sax viene lanciato in alto, la ritmica coinvolge l’ascoltatore, il piano lascia ampi spazi di pensiero e tutto risponde all’esigenza di .
Il primo movimento, con il riff di quattro note fa-la bemolle-fa-si bemolle ripetuto con la cellula A-Love-Su-Preme, è l’inizio di un corsa verso l’Assoluto. McCoy Tyner è il riferimento armonico per il suo sax dal fraseggio volutamente scarno, essenziale, mentre il complesso drumming poliritmico di Jones diventa l’interlocutore privilegiato per l’improvvisazione insieme con il solido basso di Garrison. I sette minuti di Resolution sono illuminanti per comprendere il nuovo suono di , che con il sassofono prende quattro note e le fa viaggiare ora verso gli acuti, ora verso il grave, creando una specie di urto con l’accompagnamento sempre ancorato alla scala base e donando così insondabili profondità emotive (il sax tenore sdoppiato per effetto di sovraincisione).
Il finale Psalm risponde alla volontà di avere Dio dentro di sé e di volare verso spazi stellari in un abbandono luminoso. Il suo microcosmo diviso da esperienza audace e linguaggio viene definito da molti come la liturgia dell’hard bop. In realtà è ancora di più, è l’esplorazione di una sonorità fino a vertici emotivi inarrivabili. Dice il critico e storico del jazz Nat Hentoff: . Un suono come forza di trasformazione, come rapporto diretto tra l’uomo e Dio. Un sogno estatico, metafisico, verso aree incontaminate dove si può incontrare la musica mantrica. Atmosfera che prende corpo e si sviluppa anche in un flusso ritmico suggestivo. indaga, s’intromette con il suo soffio e crea qualcosa di enorme come nella traccia conclusiva, quando lo stravolgimento, la vitalità del suono e la saggezza d’espressione accendono il senso del giusto e del bello. .
Questo è stato l’insegnamento spirituale-artistico di , che non è legato esclusivamente al mondo afroamericano, ma è universale come i capolavori di Parker, Ellington, Davis. . E da qui in avanti si aprirà il periodo mistico di , che dopo questo lavoro si addentrerà anima e corpo in una fase molto sperimentale e dagli itinerari stravolgenti radicalizzati nel free di Ascension, nei duetti astratti di Interstellar Space per concludersi solo con la sua improvvisa scomparsa.
Questo capolavoro, a distanza di anni, resta ancora uno dei dischi più venduti, amati e citati nella storia del jazz. Nonché territorio prediletto per il mondo del rock, che ha fatto propria quella semplice ma efficace cellula di note chiamata.
DISCHI DELLA MEDESIMA VENA ARTISTICA
Benny Golson / The Philadelphians (United Artists, 1958)
Il sassofonista di Philadelphia, trascurato dai contemporanei e all’ombra di Coltrane e Rollins, è stato un grande maestro per artisti come Archie Shepp. Nella sterminata e un po’ discontinua discografia di Golson, questo è un disco da non mancare se si vuole intedendere appieno il significato di hard bop e l’importanza che avrebbe avuto su come ulteriore sviluppo della sua ricerca. Blues March e Stablemates sono entrati di diritto nel miglior repertorio del jazz moderno.
Yusef Lateef / Yusef Lateef (Prestige, 1961)
Un grande manipolatore sonoro e uno dei primi – insieme a Coltrane e a Don Cherry – a inserire la world music nel jazz, portando qualcosa di nuovo in fatto di atmosfere. Questo disco è una mini-summa del suo lavoro con la Prestige. Un’antologia che permette di mettere a fuoco le numerose sfaccettature e il talento multistrumentista.
Elvin Jones / Illumination! (Impulse, 1963)
L’ombra di Coltrane aleggia maestosa su questo secondo album da leader del poderoso batterista. Coltraniano convinto, Elvin Jones è stato il pilastro insostituibile del quartetto di dal ‘60 al ‘65 fornendogli un beat eccezionale e inconfondibile. In questo lavoro troviamo un sestetto ispirato dove spiccano le figure di un altro collaboratore di Coltrane, McCoy Tyner, Prince Lasha e Sonny Simmons, tutto verso una musica in equilibrio tra il miglior hard bop e forme decisamente free.