Ogni tanto lascio lo spazio di questa rubrica per accogliere interventi esterni. Si tratta quasi sempre di occasioni un po’ speciali. Anche questa volta è andata così. Perché è speciale l’album che la Treves Blues Band ha pubblicato un paio di mesi fa (Blues Again, disco blues del mese su JAM di luglio/agosto) ed è speciale il rapporto che mi lega a Roberto Caselli (autore del pezzo) e a Fabio Treves.
Ma più speciale di tutti noi messi insieme è forse la comune passione per una musica, il blues, apparentemente tanto lontana dalla nostra cultura eppure capace come poche di unire i corpi e le anime dei privilegiati che ne percepiscono le vibranti emozioni. Una musica che, anche quando scompaiono i suoi più amati protagonisti (ultimo in ordine di tempo il leggendario John Lee Hooker), è sempre in grado di riproporsi in modo fresco e credibile. Aiutando tutti noi a vivere meglio.
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Venticinque anni di carriera spesi rigorosamente a suonare il blues, undici album e migliaia di chilometri su e giù per l’Italia a portare la blue note anche nei paesini più remoti in attesa di redenzione: questo è Fabio Treves, il John Mayall di Lambrate, cinquantadue anni e ancora una gran voglia di suonare. Una gioventù folgorata verso la metà degli anni Sessanta dal rock e dal blues, un’insofferenza verso l’omologazione, uno sguardo di simpatia nei confronti della cultura hippy che stava nascendo e poi la contestazione, una costante per molti ragazzi della generazione del ’68 che non di rado sono andati a ingrossare le fila del movimento proprio partendo da strade laterali come quella della musica e della controcultura, prima ancora della convinzione politica. L’Isola di Wight (Woodstock aveva un oceano di mezzo) e tutti i concerti del grande rock che anche l’Italia cominciava ad ospitare, Re Nudo, Parco Lambro: sembrava davvero che il mondo dovesse cambiare. Le prime esperienze musicali con la scena milanese che stava già delineandosi, quella dei Finardi, dei Camerini, degli Area e di una serie di altri gruppi con grandi idee che si creavano e scioglievano nel giro di un niente e poi finalmente la grande visione. Come i Blues Brothers in quella funzione gospel quando vedono la luce: “La banda, sì la banda”, ma di stampo blues. L’armonica a bocca, strumento apparentemente ancillare, ma portato alla dignità da Walter Horton, Little Walter e Junior Well e ripreso in Europa da John Mayall e dalla sua corte.
“Il primo disco”, dice Fabio, “è uscito nel 1974 per la Red Records. La Treves Blues Band era allora costituita da dieci elementi e quel lp fu registrato in un pomeriggio. Conteneva i blues che suonavamo regolarmente in concerto, materiale che risentito oggi mi sembra trasmetta ancora una grande energia. Il bello è che quando uscì il film dei Blues Brothers, cinque anni dopo, nella colonna sonora c’erano alcuni pezzi che anch’io avevo registrato nel mio disco.”
In un quarto di secolo di musica ha pubblicato undici album (l’ultimo, Blues Again, da noi giudicato disco blues del mese, vedi JAM 73, è uscito un paio di mesi fa), raramente con la stessa formazione. “Suonare il blues vuol dire immergersi fino in fondo in un certo tipo di cultura. Se nel contesto in cui ci muoviamo si antepongono all’entusiasmo l’interesse o la comodità, il blues non è musica che si possa fare. “Chilometri, sudore e pochi soldi devono essere metabolizzati in fretta altrimenti non si regge nel tempo. Ora però da cinque anni, ho un gruppo fisso col quale le cose funzionano bene: Tino Cappelletti, il bassista, aveva già suonato con me tanti anni fa, mentre Alessandro Gariazzo, il chitarrista, e Massimo Serra, il batterista, sono giovani molto bravi che si sono adattati perfettamente alle esigenze del gruppo.”
Con tutta la gente che è passata nel suo giro, Treves, può benissimo considerarsi una specie di Alexis Korner di casa nostra. “Con le dovute differenze, forse sì. Io non sono certo Korner; e nemmeno Cappelletti e Gariazzo sono Jack Bruce ed Eric Clapton, ma avendo cominciato agli albori della scena blues italiana posso davvero dire che di musicisti né ho visti passare tanti e che con molti sono rimasto in ottimi rapporti di amicizia, come Maurizio Gnola e Paolo Bonfanti coi quali mi capita ancora oggi di suonare. C’è il rammarico di vedere poco personaggi come Roberto Ciotti e Tolo Marton che, purtroppo, vivono lontani da Milano.”
Nonostante si cerchi di rendere il blues più fruibile in Italia, di aprirlo a un pubblico più vasto, le inerzie permangono, prima di tutto perché le case discografiche non ci sentono, non vogliono rischiare. “Non è una situazione che riguarda solo l’Italia. A parte alcuni grandi nomi che si sono ritagliati un’attenzione particolare, anche negli altri paesi i bluesmen hanno vita dura; qualche anno fa Dave Kelly mi diceva che anche in Inghilterra non è facile cavarsela facendo il musicista blues e Jerry Portnoy, che pur è un grandissimo armonicista che accompagna grandi star, è dello stesso parere. Devo però dire che la cosa non mi dispiace più di tanto perché così rimaniamo lontani dalla tentazione del commerciale e continuiamo a fare quello che davvero ci piace.”
In tanti anni di blues c’è stata la soddisfazione di incontrare personaggi mitici e qualche volta di suonarci pure insieme. Gli aneddoti a questo punto si sprecano. “In assoluto il più bel ricordo è stato l’abbraccio, seguito da parole di stima, di Mike Bloomfield dopo che abbiamo suonato insieme, ma anche quello di Frank Zappa che mi ha chiamato sul palco durante i suoi concerti di Milano e Genova o gli incontri con Muddy Waters, Johnny Shines e tanti altri che mi hanno sempre trattato affettuosamente.” Dopo tanti anni di blues chi ha raccolto il testimone di questa musica, come se la cavano le nuove blues band italiane? “Il rammarico è che forse alla prima generazione di bluemen nostrani non ne è seguita una successiva altrettanto convinta.
“Per la verità gli attuali quarantenni che fanno blues sono ancora una specie di continuum di quelli che hanno cominciato insieme a me e se la cavano egregiamente. Quelli più giovani, in genere, si demoralizzano subito se si accorgono che i riconoscimenti tardano ad arrivare e quindi lasciano perdere. Chi non ha la pazienza di formarsi veramente non ha probabilmente neanche lo spirito giusto per fare questa musica.”
Lo schema del quartetto nella Treves Blues Band resiste da ormai molto tempo, nemmeno l’influenza di gruppi come i Blues Brothers ha fatto venire in mente al suo leader di cambiare schema, di aggiungere dei fiati o un pianoforte. “Per aggiungere dei fiati o un piano è necessario avere a disposizione dei musicisti che abbiano proprio un’estrazione blues o rhythm’n’blues e qui da noi è molto difficile trovarli. Quasi tutti quelli che suonano questi strumenti provengono dal jazz, mentre a me piace il piano martellato di Sunnyland Slim o Lafaytte Lake. Se non ci sono le condizioni giuste di partenza è meglio non provarci neanche.”
Roberto Caselli