11/05/2007

Welcome To Smithville, U.S.A.

Chi era tra gli spettatori del World Financial Center, durante la serata di chiusura del New York Guitar Festival lo scorso 15 gennaio, avrà forse intuito qualcosa. Quando sul palco, in mezzo ad artisti che, senza offesa, sono generalmente reputati di serie B – dal punto di vista commerciale, naturalmente -, gente come Mark Eitzel, Michelle Shocked, Chocolate Genius, Dan Zanes, Vernon Reid e Martha Wainwright, è apparso Bruce Springsteen, forse a qualcuno è balenata un’immagine.

Certo, era una serata in suo onore, anzi del suo disco Nebraska, che ognuno di quegli artisti aveva celebrato a suo modo interpretandone un brano. Ma con Bruce sul palco non venne eseguita una delle canzoni di quel disco. Partì invece una versione forse un po’ sgangherata ma molto efficace del classico della tradizione americana Oklahoma Hills, reso celebre da, fra gli altri, Woody Guthrie. Springsteen si limitò a cantare il ritornello, prendendo la voce solista nell’ultima strofa e quindi guidando tutti i presenti per il refrain finale ben quattro o cinque volte consecutive. Alla fine, quando il presentatore della serata gli chiese se secondo lui gli artisti convenuti avevano saputo essere fedeli al messaggio di un disco come Nebraska, Springsteen rispose: “Ho scritto quelle canzoni soltanto perché le ragazze si tirassero giù i pantaloni”.

Circa sei mesi prima, il 28 aprile 2005, Springsteen aveva già cantato Oklahoma Hills. Era accaduto durante una sosta del Devils & Dust Tour a Dallas, nel Texas. Sul palco con lui un ospite speciale, uno dei più accreditati interpreti del repertorio di Woody Guthrie, Jimmy LaFave, nativo proprio dell’Oklahoma. E naturalmente a maggio era uscito Devils & Dust, il capitolo (finale?) della trilogia acustica di Bruce Springsteen, cominciata nel 1982 con Nebraska e proseguita nel 1995 con The Ghost Of Tom Joad. Quella trilogia è adesso un capitolo chiuso perché The Seeger Sessions è un passo verso un nuovo territorio.

Se c’è una cosa che Bruce Springsteen ha imparato da Bob Dylan, per un uomo che fu definito “il nuovo Bob Dylan”, più che a scrivere canzoni nel suo stile, è essere maliziosamente ambiguo nel modo giusto. Insomma, la frase “Mettetevi le scarpe da ballo e divertitevi” che scrive nelle liner notes del nuovo cd We Shall Overcome: The Seeger Sessions è simpatica, ma non basta. Certo, il clima del disco è quello di una bella festa di paese ma insomma, se uno vuole incidere un disco di canzoni folk per ridere e ballare, non sceglie uno come Pete Seeger come testimonial. Prende magari John Stewart oppure John Hartford. Non uno che ha rischiato la galera ai tempi del senatore McCarthy e che va in giro ancora adesso con la tessera del partito comunista americano in tasca (vedi box a pagina 45). E in questo periodo storico, quando il tuo Paese è in guerra (qualcuno si ricorderà come, agli scorsi Grammy Awards, dopo aver eseguito il brano Devils & Dust, Bruce sia uscito fuori con un “Bring them home” – come peraltro si intitola un classico contro la guerra in Vietnam di Pete Seeger – davanti a una audience di qualche decina di milioni di spettatori: “Riportiamoli a casa”, riferito ai soldati americani impegnati in Iraq) e dopo che hai preso parte alla campagna elettorale del Senatore Kerry contro la candidatura di George W Bush.

Sì, The Seeger Sessions è una festa, ma assomiglia di più alla festa dei lavoratori, a quel 1° maggio che negli Stati Uniti non viene celebrato. Una sorta di riunione dopo lavoro dei membri di un qualche sindacato. Springsteen è sempre più schierato politicamente e questo disco lo vuole sottolineare. È vero che i brani del repertorio di Pete Seeger che ha scelto di incidere non sono certo quelli più politici dell’anziano musicista. Sono brani della tradizione folk apparentemente scanzonati (tipo O Mary Don’t You Weep, il classico sing-a-long da intonare con tutta la famiglia davanti al caminetto). Insomma, avrebbe potuto scegliere brani come Talking Union, che parla dei sindacati, o Walking Down Death Row, un brano contro la pena di morte. Oppure My Name Is Lisa Kalvelage, la storia (vera) di tre donne che nel 1965 fermarono un treno carico di armi al napalm destinate al Vietnam. Ma ci sono Mrs. McGrath, un brano fortemente antimilitarista, e c’è naturalmente We Shall Overcome, l’inno dell’America “contro” sin dagli anni 50. Anche se Springsteen, al New York Times, ha detto: “Quando mi fu proposto di registrare We Shall Overcome per il disco tributo a Pete Seeger, pensai: ‘No, non sono in grado di farla’. Tutti sanno che quella canzone è una specie di icona. Ma che cos’era prima che diventasse tale? Così andai alle sue origini e capii: ‘Oh, quella canzone è una preghiera. Posso farla. So come si fa a pregare'”.

E c’è Pay Me My Money Down, della serie, per fare un riferimento di casa nostra, “saluteremo il signor padrone”.

E comunque associare il proprio nome a quello di Pete Seeger, in America, è di per sé una dichiarazione politica molto forte.

 

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“A Smithville, The House Carpenter di Clarence Ashley, una melodia un tempo nota come The Demon Lover, una ballata in cui il desiderio carnale termina con la punizione ultraterrena, è soffusa di senso religioso come un sermone del Reverendo J.M. Gate. In questa città I Wish I Was A Mole In The Ground è più dell’altro mondo, nel senso che non si trova a proprio agio in questo mondo, di He Got Better Things For You dei Memphis Sanctified Singers” (Greil Marcus).

Welcome to Smithville, dunque, la città fondata nel 1952 dal guru Harry Smith, quando pubblicò il monumentale cofanetto di lp The Anthology Of Folk Music, così seminale che una intera generazione ci costruì sopra sogni e futuro. Tre volumi fatti di Ballads, Social Music, Songs, e “non fu una casualità che l’Anthology” dice ancora Marcus “venisse pubblicata nel 1952, al picco della caccia alle streghe del senatore McCarthy”. Una caccia alle streghe di cui Pete Seeger sapeva una cosa o due.

Bruce Springsteen ha girato dalle parti di Smithville sin dai tempi di Nebraska, quando scrisse Johnny 99 come risposta a un brano del 1927, 99 Year Blues di Julius Daniels, che appare nell’Anthology. Adesso ha deciso di tornarci alla grande, rivisitando i canoni di John Henry o quelli della ballata rinascimentale tipo Froggie Went A-Courtin’, usando lo stesso tipo di approccio informale e spontaneista di quando questi brani venivano registrati per la prima volta.

“Che cosa è Smithville?” si chiede infine Greil Marcus. “È una cittadina i cui abitanti non si possono distinguere per razza. Non ci sono padroni e non ci sono schiavi. Molti sono in prigione e la gente di qui prima o poi ci finisce dentro. Dopo tutto ci sono un sacco di omicidi qui: per passione, cinismo, e anche suicidi. Qui gli omicidi e i suicidi sono rituali, atti che si trasformano istantaneamente in leggende, fatti che trasformano la vita di tutti i giorni nel mito o che rivelano che la vita, al suo grado più alto di elevazione, è solo uno scherzo. C’è una guerra costante tra i messaggeri di Dio e i fantasmi e i demoni, i ballerini e i bevitori”.

È il suono dell’America, sono le storie che hanno fatto l’America, e si trovano solo qui, a Smithville. Non è un caso che alcune delle immagini che appaiono nel dvd allegato al disco vedano Bruce e la sua banda ripresi all’aperto, tra spogli alberi autunnali e grandi prati, immagini che ricordano per forza di cose quelle di The Band quando incise Music From Big Pink, un altro disco che ha più di qualcosa a che fare con Smithville.

 

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“Molto del mio modo di scrivere, specialmente quando compongo brani acustici, arriva direttamente dalla tradizione folk. Fare questo disco è stato molto liberatorio dal punto di vista creativo perché amo tutti quei diversi tipi di suono delle radici. Riescono a comunicare un intero mondo solo con poche note e poche parole” ha detto recentemente Springsteen. Welcome to Smithville, Bruce.

Ci sarebbe da discutere sul concetto che certo modo di comporre del cantautore arrivi direttamente dalla tradizione folk. Abbiamo già parlato di questo sulle pagine di Jam (vedi il numero 115) e crediamo ancora che, per uno che ha cominciato ad ascoltare Woody Guthrie a trent’anni di età, il suo volersi associare in modo quasi ossessivo alla grande tradizione folk sia quasi un bisogno, conscio o inconscio, di essere finalmente inserito di diritto tra i grandi padri della canzone d’autore americana. Uno sdoganamento che permette l’automatico ingresso nel pantheon dei personaggi che hanno fatto l’America contemporanea. Insomma, tra Woody Guthrie e Bob Dylan potrebbe anche starci Bruce. Chi scrive aspetta sempre un disco di Springsteen dedicato al rockabilly degli anni 50 e alle oscure b-side della British Invasion degli anni 60, la musica dove lui si è formato.

Ma The Seeger Sessions può effettivamente essere quel bagno purificatore che Springsteen ha cercato lungamente, almeno da quando ha inciso un disco come Nebraska. “Chiunque desideri essere un songwriter dovrebbe ascoltare quanta più musica folk possibile, studiare la forma e la struttura di un materiale che è stato in circolazione per cento anni. Io torno sempre a Stephen Foster” ha detto una volta Bob Dylan. E come Bob Dylan in momenti diversi della sua carriera, quando sembrava aver smarrito ogni direzione ed è tornato a un bagno rigenerante nella musica folk (i Basement Tapes e i due dischi di cover dei primi anni 90) che ha rilanciato la sua capacità compositiva, forse Springsteen ha capito che finalmente doveva fare la stessa cosa. In fondo qualcuno ha già definito The Seeger Sessions i Basement Tapes di Bruce Springsteen. E lui stesso lo ha lasciato intuire: “Volevo il suono di un gruppo di persone semplicemente sedute assieme a suonare (.). È stata una cavalcata carnevalesca, il suono della sorpresa e della pura gioia di suonare. Musica da fare sul marciapiede, musica da camera, musica da pub, musica selvaggia, musica da circo, musica di chiesa, musica da strada. Era tutto lì che aspettava in quelle canzoni, alcune vecchie più di cento anni”.

La cosa curiosa è che i musicisti coinvolti in questo progetto non sono assolutamente del giro folk. Tutt’altro. Il violinista Sam Bardfeld è un etnomusicologo che ha lavorato in passato con i Jazz Passengers (l’ensemble jazz guidato dalla cantante dei Blondie Debbie Harry), Lou Reed e Laurie Anderson, John Cale, John Zorn e numerosi artisti latini. Il trombonista Art Baron è un altro musicista jazz che addirittura ha suonato con Duke Ellington e sul versante pop con Stevie Wonder e James Taylor. Infine il batterista Larry Eagle è un curioso pazzoide che incide dischi di musica country in Finlandia, jazz in Russia, rhythm and blues in Malesia e Chicago blues ad Atene. Ci sono anche due vecchie conoscenze del giro springsteeniano, e cioè il trombonista Richie “La Bamba” Rosenberg, che ha suonato in concerto con Bruce sin dagli anni 70, e il sassofonista Ed Manion.

Ma la preoccupazione principale di Springsteen, crediamo, non è stata quella di fare un disco da purista del folk. “Voglio un wild sound” dice nel video che accompagna The Seeger Sessions rivolgendosi ai musicisti “voglio il sound della birra, voglio il sound del whisky, vi voglio vedere tutti ubriachi”.

Nel black gospel di O Mary Don’t You Weep, nel sound da Third Line Marching Band di New Orleans che esce dai fiati durante John Henry, Springsteen ha trovato qualcosa che solo qui, a Smithville, poteva trovare.

 

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B.B. King’s, noto club della Grande Mela. È il 7 marzo. “È tempo di festa, gente. Suonato con strumenti tradizionali come banjo e fiddle, il sound di We Shall Overcome: The Seeger Sessions, fa venire in mente le immagini di una hootenanny (quei momenti informali di incontro tra musicisti folk che erano di moda nei primi anni 60, ndr) dei vecchi tempi”. Così racconta chi era presente quel giorno alla presentazione ufficiale del nuovo disco di Springsteen. Qualcun altro aggiunge: “Un po’ come il suono di The Band e la collaborazione fatta dai Wilco con Billy Bragg per i due dischi di canzoni di Woody Guthrie”.

C’era anche Springsteen, naturalmente. Che ha detto: “La musica folk è un modo per guardare in avanti” e poi ha aggiunto: “Le session spontanee che hanno dato vita al disco mi hanno ricordato quelle cose eclettiche che facevo a inizio carriera”.

E quando uno dei presenti lo ha avvicinato dicendogli che non avrebbe mai portato suo figlio di 2 anni a un concerto del tour di Devils & Dust (dove, lo ricordiamo, Springsteen chiedeva apertamente il più assoluto silenzio durante le esibizioni) e quindi gli ha chiesto se poteva portarlo a uno dei prossimi show, Bruce ha risposto: “Assolutamente! Anzi, portati tutta la famiglia! Ci sarà da divertirsi!”.

Il prezzo della fama è spesso la qualità e l’idealismo insito nella musica che un musicista crea e realizza. Springsteen ha preso un attimo di pausa per andare a respirare nelle vere radici della musica americana. Una musica che ha iniziato molti e li ha ispirati a intraprendere un cammino. Ecco dove Springsteen ha capito dove poteva riaccendere il suo fuoco invece di spegnerlo con un semplice nuovo disco di proprie canzoni.

Per una nuova generazione di ascoltatori cresciuta con la musica di Springsteen, questo disco rappresenta l’introduzione a un periodo storico che avrebbe potuto rimanere sconosciuto e dimenticato. Springsteen lo resuscita e allo stesso tempo ne mantiene viva la purezza del tempo in cui quei brani originariamente presero forma. In attesa che qualcun altro, fra vent’anni o giù di lì, ci riporti ancora a Smithville. Dove tutto è cominciato.

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