11/05/2007

2006, Odissea Stones

Con i gradi di più grande rock’n’roll band del pianeta inchiodati sulle spallucce, e portato a termine trionfalmente il tour “che nessun altra band avrebbe osato intraprendere” fatto di show in teatri, palazzetti e stadi (3 milioni e mezzo di spettatori, tra 2002 e 2003), pure la miglior veggente e il più tosto guru di marketing avrebbero avvertito un minimo di smarrimento nell’immaginare le mosse successive dei Rolling Stones.

Come mantenere uno status regale, senza uscirne mazziati dall’inevitabile paragone con il passato, riuscendo a divertirsi (perché, in fondo, è solo rock’n’roll, ma alle Pietre piace da matti) e confermando le aspettative economiche riposte dallo showbiz (il tour director Michael Cohl in testa) nel gruppo rock che, per primo, ha conquistato le pagine di Fortune? In che modo restare fedeli alla celebre insegna “a rolling stone gathers no moss”, ricevuta in eredità dai maestri del Delta, evitando di trasformarsi in una copia sgualcita della banda che ha svegliato la libido della generazione degli oggi sessantenni?

Domande che non hanno richiesto una lunga incubazione nelle menti di Sir Mick e soci, trovando risposte di marca meravigliosamente Stones. L’industria musicale viaggia al ribasso? Basta invertire la marcia, tenersi lontani dal buon senso imperante. I dischi escono al contagocce, e con contenuto al minimo sindacale, per paura di tonfi commerciali? Ecco A Bigger Bang, ultima fatica delle Pietre, farcita di sedici pezzi (furono di più solo in Exile On Main Street). Alcuni tour si indirizzano verso i palazzetti, per evitare bagni di sangue ai promoter e mantenere i biglietti a prezzi civili? E la premiata ditta Jagger-Richards sceglie prevalentemente stadi, con posti da 500 dollari e un palco del quale persino il suo creatore dice “forse, siamo vicini al limite massimo”.

Sfrontati? Forse. Incoscienti? Può darsi. Più verosimilmente, fedeli al copione in scena dal 1962. Se si pensa che l’album ha conquistato in Italia la vetta della classifica, centrata solo nel 1965 e nel 2002 (con le compilation Around And Around e Forty Licks), che la tournée ha fatto registrare – al 31 dicembre 2005 – incassi per 162 milioni di dollari e che le Pietre hanno debuttato nella Repubblica Popolare Cinese e sulla spiaggia di Copacabana (per uno dei più grandi happening gratuiti di tutti i tempi), ecco che emerge, nitido come non mai, l’anno da leoni appena vissuto dai Rolling Stones.

Andiamo con ordine, però.

 

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L’annuncio che le Pietre avrebbero presto riacceso i motori (fermi dal 2 ottobre 2003) scatta il 10 maggio 2005 alla Juilliard School Of Music di New York. Come dal 1989 in poi, l’appuntamento con la stampa mondiale è nella Big Apple – perché, dirà Keith Richards rispondendo a un giornalista, “questa città è il centro del mondo” – solo che, stavolta, anziché stupire arrivando in treno, nave, o dirigibile, i nostri scelgono la strada più semplice, ma altrettanto irta: presentarsi sul posto e suonare.

Sono le 19 in Europa, le 13 sulla Costa Est, quando Mick Jagger, Keith Richards, Ronnie Wood e Charlie Watts propongono a un’impressionante folla di fan e giornalisti tre brani. Tra i due vecchi classici Brown Sugar e Start Me Up fa capolino la ruvida Oh No, Not You Again, “aperitivo” dall’album quasi ultimato. Annunciata come “il primo show del tour 2005”, l’estemporanea performance viene ribattezzata da Jagger “the cornflakes concert”, scherzoso commento sul fatto che mai il gruppo si è trovato ad esibirsi in orario mattutino. Potere della prima volta.

Nel goliardico botta e risposta che segue il mini-concerto, gli Stones, in ossequio alla tradizione, non si lasciano scappare una parola che esuli dallo stretto indispensabile. Tour mondiale in partenza dagli Stati Uniti a fine agosto e album nei negozi il 5 settembre. Palco più grande che mai e, per duecento fortunati (in parte estratti a sorte, in parte paganti), la possibilità di seguire lo show direttamente sul mastodonte che ospita la performance della band. Onstage seating, l’invenzione di Mark Fisher che nessuno aveva ancora osato. L’immancabile “sarà la vostra ultima volta on the road?” viene accolta da Charlie Watts con un energico “sì”, poi Mick corregge il tiro: “Non ci pensiamo mai, prendiamo ogni tournée come viene”. Nel parterre dedicato alla stampa però, sentiti i prezzi dei biglietti, volano commenti sarcastici sul fatto che sponsor della nuova avventura live sia una società di prestiti. A quando la Stones SpA?

 

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All’inizio di giugno, il missaggio dell’album A Bigger Bang (prodotto da Don Was) impegna il gruppo a Los Angeles. Subito dopo, seguendo una tabella di marcia consolidata, tutti a Toronto per le prove pre tour. I test sul nuovo palco vengono condotti dal 10 luglio in un hangar del Pearson International Airport. Dopo qualche giorno, il quartetto – e i nove musicisti di supporto – si concentrano sui brani da eseguire, nei locali della Greenwood College School. L’attenzione dei fan canadesi è massima. Stazionano pazienti di fronte ai luoghi delle prove, sperando in un autografo (diverse volte i loro desideri verranno avverati), e pronti ad affidare a Internet la lista dei brani eseguiti ogni notte. La carovana rotolante lascia Toronto il 14 agosto. L’elenco dei pezzi provati supera quota cinquanta, spaziando da quelli raramente sentiti dal vivo (Ain’t Too Proud To Beg, Hang Fire e Neighbours), agli immancabili hit (Brown Sugar, Gimme Shelter e Satisfaction), passando per il nuovo materiale (Rough Justice, Streets Of Love, Back Of My Hand e Rain Fall Down). I fan fuori dalla scuola si concentrano soprattutto su tre cover: Get Up, Stand Up di Bob Marley e Peter Tosh, Mr. Pitful di Otis Redding e Night Time (Is The Right Time) di Ray Charles. Alla prova dei fatti, tutte troveranno posto nella set list.

Prima di lasciare la cittadina dell’Ontario, gli Stones regalano a una manciata di fan un concerto a sorpresa. Un’altra consuetudine, visto che è dal 1989 che la band tiene, tra le prove e la prima data, una serata warm up in un piccolo club, annunciata all’ultimo minuto e con prezzo d’ingresso simbolico. Mercoledì 10 agosto, il luogo in cui trovarsi è il Phoenix Theatre, una sala da mille posti. I biglietti venduti al pubblico (a 10 dollari canadesi l’uno) sono circa 250, il resto viene trattenuto dall’organizzazione per parenti e amici dei musicisti e invitati. Aperto dall’aggressiva Rough Justice, lo show dura un’ora e tre quarti e offre alcune chicche del calibro di 19th Nervous Breakdown, Dead Flowers e Live With Me. Finale in crescendo con Tumbling Dice, Brown Sugar e Jumping Jack Flash. Chissà se qualcuno dei presenti avrà pensato che tutto iniziò proprio da un club, il Crawdaddy al Richmond Station Hotel, nel 1963.

I settanta camion necessari a trasportare il palco entrano a Boston, prima tappa del tour, il 17 agosto. Mancano quattro giorni al calcio d’inizio al Fenway Park e due (il 18 e 19) vengono utilizzati per le prove in condizioni reali, tecnicamente definite dress rehearsals. Il canale televisivo CBS4, più ingegnoso (o danaroso?) dei concorrenti, aggira l’embargo imposto ai media facendo alzare un elicottero nella zona dello stadio. Il mondo vede così le prime immagini dello stage firmato Fisher (architettonicamente molto simile alla facciata del Guggenheim Museum, con un maxi schermo centrale dalle dimensioni imbarazzanti), e dei giganti labbroni gonfiabili che lo sovrastano in alcuni momenti. Anche nel Massachusetts la febbre rotolante è a livelli patologici e i soundcheck preserali vedono consistenti capannelli di appassionati assieparsi nelle vie limitrofe (ma incontrano pure le proteste degli abitanti di una delle aree residenziali più aristocratiche della città, disturbati dal volume troppo alto).

Si arriva così al momento clou, preparato da oltre un mese. Il primo sold out di una lunga serie è segnato dalla caduta della ventenne Claire O’Leary, incautamente arrampicatasi sulla tettoia di una tribuna. Non perderà la vita, ma riporterà danni permanenti alle anche. La polizia è costretta ad evacuare un settore dello stadio, scegliendo però di non interrompere lo show. Gli Stones fanno piovere sui 30mila astanti ventidue brani. Alcune scelte appaiono parecchio influenzate dal gusto (e del mercato) americano (è il caso, su tutte, di She’s So Cold, Shattered e Out Of Control), e qualcuno storce il naso, ma è giusto così. Keith canta The Worst e Infamy, mentre il b-stage (una sorta di palchetto dalle dimensioni ridotte che si stacca dal corpo principale e solca il mare di fan viaggiando su dei binari), è utilizzato per Miss You, Oh No, Not You Again e (I Can’t Get No) Satisfaction. Prima dei fuochi d’artificio finali scattano i bis You Can’t Always Get What You Want e It’s Only Rock’n’Roll. Dopodiché tutti a casa, compresi i fortunati titolari dei posti on stage, al settimo cielo per l’ultimate experience vissuta, con Sir Mick a voltare le spalle al pubblico più volte per salutarli (anche se la qualità del suono non sembra essere la migliore, da quella posizione).

Musicalmente parlando, la performance convince. Il New York Times la classifica titolando: “Sempre rock, sempre spavaldi, sempre Stones”. I toni delle recensioni resteranno entusiastici per tutte le cinquantaquattro date che seguiranno (fino all’8 febbraio 2006), tra Stati Uniti e Canada. La scaletta non cambierà radicalmente, ma alcune modifiche in corso d’opera (come l’inserimento di As Tears Go By e di It Won’t Take Long) zittiranno i fan più zelanti, pronti a ricordare che, nelle prime tre sere di Licks, variarono oltre quaranta canzoni. Da appuntare, tra i ricordi indelebili del primo leg, la folla oceanica alla Magnetic Hill di Moncton (85mila persone), il ritorno dopo decenni all’Hollywood Bowl di Los Angeles, la mondanità delle serate al Madison Square Garden e la performance nella pomposa cornice del quarantesimo Superbowl (lo scorso 5 febbraio, nonostante la censura del regista tv su alcuni versi di due delle tre canzoni proposte). Altrettanto memorabile, la raffinata semplicità del singolo benefico Hurricane (un inedito, dalle session per i nuovi pezzi di Forty Licks) distribuito ad offerta all’ingresso degli stadi per sostenere la Croce Rossa nell’opera a favore delle vittime dell’uragano Katrina.

I leoni hanno cominciato a ruggire.

 

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Ingiustamente snobbata in Licks, l’America Latina è la destinazione successiva degli Stones. Sono sei, in tutto, le date in programma nel continente dai fan più calienti al mondo. Si inizia con l’ennesima “prima volta”. Mai infatti, dal 1962, la band si era esibita a Porto Rico. Lo fa l’11 febbraio al Coliseo José Miguel Argelot di San Juan, di fronte a poco meno di 20mila spettatori. Ciononostante, le cronache parlano di una serata non memorabile, con Mick poco incline alla sua “ginnastica” da palco e Wood e Richards inspiegabilmente stazionari nei dintorni della batteria. Un peccato, vista la natura storica del concerto, ma un passo falso non basta per gridare allo scandalo.

La “fermata” seguente regala agli Stones il più importante primato della quinta decade di vita della formazione. Nel 2003, il concerto al Downsview Park di Toronto, organizzato per celebrare la fine dell’incubo Sars nella cittadina nordamericana, aveva fatto gridare al record, con 450mila spettatori. Ebbene, questa soglia, in occasione dello spettacolo gratuito offerto il 18 febbraio sulla celebre spiaggia di Copacabana, a Rio De Janerio, viene superata di oltre tre volte, per un totale di 1 milione e 300mila presenze (senza contare la quantità industriale di contatti registrata dalla diretta via web).

Una pneumatica Jumpin’ Jack Flash, annunciata dallo stesso muro di fuoco che gli Stones attraversarono negli anni in cui il brano uscì e che Jagger canta nel primo verso, apre le danze, proseguite ininterrottamente per un’ora e cinquantacinque minuti. Tra le menzioni obbligatorie della serata, in cui – a dispetto del numero di spettatori – non si è verificato alcun incidente, rientrano una ipnotica Midnight Rambler, con degli inediti fraseggi jazz nella parte centrale (mentre Jagger sussurra nel microfono “mmm. Charlie Watts”, evidenziando lo stato di grazia del batterista), e la reprise di Night Time (Is The Right Time), che Sir Mick trasforma in uno spiritual per oltre un milione di voci.

Ma cosa sarebbe la gloria, parlando dei Rolling Stones, se non si reggesse su qualche episodio picaresco? Così, arrivati al tredicesimo pezzo in scaletta, i teleprompter sul palco indicano Rough Justice, ma Keith Richards attacca la già eseguita Oh No, Not You Again. Chuck Leavell molla in fretta e furia il suo piano e corre verso il chitarrista per interromperlo, mentre dalla spianata di sabbia parte il fragoroso ringraziamento di chi sente di aver assistito a una pagina di rock imperfetta e, per questo, più viva (e naturale) che mai.

La parentesi sudamericana prosegue con due ottimi concerti al River Plate di Buenos Aires. Il primo viene funestato da alcuni tafferugli ai cancelli d’ingresso, ma tutto si risolve con qualche arresto. Lo show va anche in onda sull’emittente Canal Trece, perpetuando così le immagini dell’unica data, oltre a Rio, in cui è stato usato un palco diverso, più colorato e senza onstage seating. Dopo una coppia di performance messicane (rispettivamente a Mexico City e Monterrey), il quartetto si imbarca nuovamente per gli Stati Uniti. Adiós!

 

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Il tempo di quattro date negli States (a Las Vegas, Los Angeles, Little Rock e Fort Lauderdale) e gli Stones sono sul cartellone di un altro evento straordinario. Al Radio City Music Hall di New York (con i suoi 6mila posti, la location più piccola del tour), si esibiscono infatti a favore della Robin Hood Foundation, impegnata nella lotta alla povertà nelle vie di New York. Viste le finalità della serata, una donazione di 100 dollari era necessaria per acquistare i biglietti, in vendita a prezzi tra i 250 e i 7.500 dollari. Inutile dire che nel teatro, la sera del 14 marzo, non entrava più uno spillo. Considerati i 247 anni ottenuti sommando le età dei componenti della band, la sensazione di trovarsi di fronte all’ultima data americana della carriera dei Rolling Stones deve aver pervaso molti.

Lasciato il nuovo mondo, il gruppo prende il volo per il Sol levante. Sedici anni dopo il primo tour del Giappone, le Pietre – con i concerti in programma al Tokyo Dome (ai quali seguiranno le tappe di Sapporo, Saitama e Nagoya) – raggiungono quota un milione di spettatori nella sala più avveniristica della capitale. Mick Jagger, nel presentare le date, si era detto “esaltato all’idea” e aveva predetto (seppur con meno enfasi che nel caso di Italia-Germania del 1982) la vittoria della nazionale nipponica sulla rappresentativa cubana, nell’imminente sfida mondiale di baseball. I resoconti delle serate sono unanimi: mettendocela tutta (tra le due esibizioni di Tokyo cambiano ben sette canzoni, mai così tante) gli Stones smuovono, spingendoli quasi a ballare, i compassati giapponesi. Giù il cappello (mentre sulle bancarelle finisce il primo bootleg del tour in qualità soundboard: First Bang In Tokyo).

Ma il tempo di godersi la soddisfazione non c’è, poiché l’ennesima sfida è dietro l’angolo. Inseguito invano negli anni 70, e sfumato nel 2003 a causa dell’epidemia di Sars, il primo concerto nella Repubblica Popolare Cinese va in porto l’8 aprile. Due giorni prima, tre jumbo con a bordo le 260 tonnellate di materiale necessario allo show avevano portato the greatest r’n’r band in the world nel più grande Paese sulla Terra. Shanghai è la città prescelta, ma – nonostante l’aria occidentale che vi si respira – il governo di Pechino detta regole ferree. Quattro brani del repertorio rotolante (Brown Sugar, Honky Tonk Women, Beast Of Burden, Let’s Spend The Night Together e Rough Justice), per i riferimenti espliciti nei testi, devono restare fuori dalla scaletta (e, non a caso, erano già stati tagliati dalla versione di Forty Licks commercializzata nel Paese di Mao).

Incontrando i giornalisti, Keith Richards scherza: “Beh, potremmo farli strumentali”, mentre Jagger è più serio, ma fatalista: “Ce lo aspettavamo, ma non è un problema, possiamo scegliere tra altre quattrocento canzoni”. Però, una volta sul palco del Grand Theatre (popolato, nei suoi 8mila posti, quasi solo da stranieri in Cina per lavoro, visti i biglietti a prezzi inarrivabili per le masse), la regola viene rispettata à la Stones. Niente pezzi “vietati” (che non vengono però sostituiti, decretando quindi – con una set list da diciotto pezzi – la performance più breve della tournée), ma avanti con Bitch e Start Me Up (dalle liriche non esattamente da educande). Come se non bastasse, poi, via libera ad una Wild Horses in tandem con un emozionantissimo Cui Jian, il rocker della rivolta di piazza Tienanmen. Pare che ai piani alti del palazzo del governo, alle 22 e 50 di quel sabato sera, svanita l’eco dell’ultima nota di (I Can’t Get No) Satisfaction, abbiano tirato un bel sospiro di sollievo. Chissà se manterranno la promessa di trasmettere lo show su uno dei sedici canali della tv di Stato.

 

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Il calendario segna l’11 aprile quando il quartetto rotolante tocca terra in Oceania. Si inizia dall’Australia (Sydney e Melbourne), quindi rotta verso la Nuova Zelanda (Auckland e Wellington). Performance che ricevono il consueto calore (ricambiato con una delle non frequenti esecuzioni di Worried About You) e che, una volta terminate, sanciscono l’inizio di una pausa di cinque settimane del tour, destinato a riprendere in Europa esattamente un anno dopo la press conference al Lincoln Center e con Biggest Mistake, il terzo singolo dall’album A Bigger Bang, sugli scaffali dei negozi (dopo Streets Of Love e Rain Fall Down).

Il rocambolesco infortunio occorso a Keith Richards, intento a trascorrere i giorni di riposo alle isole Fiji, manda però a gambe all’aria i programmi della band e sparge il brivido nel mondo. I tempi di recupero conseguenti all’operazione praticata al chitarrista per rimuovere un ematoma cranico (causato, parrebbe, dalla caduta da una palma) fanno slittare l’inizio del tour, che avrebbe dovuto approdare al Meazza di Milano il 22 di questo mese (con l’onstage seating in vendita a 450 euro, contro i 200 dollari degli Stati Uniti).

Paradossalmente, anche questa non è una novità. Negli anni 90, Richards si ferì in occasioni altrettanto singolari: cadendo da uno scaffale libreria e tagliandosi a una mano con una corda della chitarra. Anche a quel tempo, la cancellazione di alcune date si rese necessaria. Peraltro, al di là dell’arrabbiatura che la notizia pare aver suscitato nell’iper razionale Sir Mick, se Keith il pirata si fosse fatto riguardoso, rendendosi conto di aver compiuto 62 anni, con tutta probabilità gli Stones non avrebbero mai vissuto l’annata ruggente che hanno alle spalle.

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