11/05/2007

ESSERE UNO STOOGE A 60 ANNI

sottotitolo

I tre Stooges fanno ridere? Il rischio purtroppo c’è. Qui però non si tratta di Moe Award, Larry Fine e Curly Howard e i loro siparietti comici da slapstick d’antan. Qui si tratta di rock’n’roll, o di reich’n’roll (come potrebbe etichettarlo in pieno trip provocatorio il nostro cantore della sua Nazi Girlfriend). Sì, lui è uno dei tre Stooges rimasti, i musicisti, non i comici. È anche vero che il rock è già entrato nella mezza età e ai suoi interpreti storici non manca molto per entrare nella terza (quando non ci sono già da un pezzo), quindi il d’antan ci sta tutto altroché. La notizia ormai è nota: gli Stooges (sì, proprio quelli di Iggy Pop), a distanza di 34 anni dal loro ultimo album (Raw Power, uscito nel 1973), si riformano ufficialmente per pubblicare il disco del ritorno, The Weirdness (in uscita il 20 marzo). Fatto clamoroso, se non fosse: 1) che già era nell’aria da qualche anno (precisamente dal 2003); 2) che di questi tempi ormai di reunion ne accadono un giorno sì e l’altro pure, come se fosse che nel rock non potrebbe più accadere nulla di così eccitante (ed è tutto dire. siamo alla frutta baby).
Constatazioni amare a parte, meglio partire dall’inizio (ma non dall’inizio). Nel 2003 Iggy Pop, al lavoro sul suo ultimo disco solista, Skull Ring, pensa bene di richiamare i fratelli Asheton, Ron e Scott, per invitarli a partecipare alle session dell’album. “All’inizio del 2000 ero proprio alle corde” racconta Iggy “e decisi di realizzare un album che coinvolgesse diversi ospiti, perché non riuscivo a pensare a cos’altro avrei potuto fare. Alcuni degli Stooges stavano suonando in giro e io mi mantenni informato. Alla fine decisi di chiamarli, ma in principio si pensava che il tutto si riducesse a una canzone. Però il responso pubblico fu davvero molto forte, quasi travolgente. All’improvviso il quadro di comando agli uffici della Virgin si era acceso e loro ne volevano di più di brani con gli Stooges”. Pare che i due avessero lo stesso numero di telefono di quando Iggy li aveva chiamati l’ultima volta, ovvero 25 anni prima. Ad ogni modo erano trascorsi 30 anni da quando Ron era la chitarra e Scott la batteria degli Stooges. Eppure i quattro pezzi che ne vengono fuori, Little Electric Chair, Skull Ring, Loser e Dead Rock Star, sono abbastanza tosti perché la giostra ricominci a girare (ché era girata fin troppo poco tre decadi prima e poi vuoi mettere la fame delle nuove generazioni di poter vedere per la prima volta una di quelle band leggendarie, ma non nazionalpopolari, che una volta facevano fuoco e fiamme?). È così fu. Il 27 aprile 2003 nel cartellone del Coachella Valley Music And Arts Festival di Coachella, California (un must dell’alternative rock degli ultimi anni) sono presenti anche Iggy And The Stooges. “Ci invitarono a suonare, ma le cose stavano girando troppo velocemente per me, così prima rifiutai un paio di volte”. Al basso non più lo scomparso (nel 1975 a 27 anni per polmonite, dopo eccessi di alcol e droghe) Dave Alexander, ma Mike Watt (icona dell’alternative rock, già Minutemen e fIREHOSE, che sul palco del Coachella indossa una t-shirt omaggio ad Alexander). La performance è il preludio per un apposito reunion tour (nonostante Iggy dichiari: “Credo che tutti abbiano visto un momento da celebrità leggendaria, hanno assistito a un reality show, e mi ha impaurito, perché non sono quel tipo di persona”), che tocca Stati Uniti e Europa. Anche il sassofonista Steve Mackay, che i nostri non incontravano dai tempi di Fun House (1970), pensa bene di tornare a far parte della partita. Il dvd Live In Detroit, filmato il 14 agosto 2003 nella loro città natale e pubblicato nel marzo 2004, e il live Telluric Chaos, registrato allo Shibuya Axe di Tokyo il 22 marzo 2004 e pubblicato nel maggio 2005, testimoniano la seconda vita degli Stooges, attenti, guarda caso, a riproporre solo materiale tratto dai primi due dischi (quelli con la formazione originale) e da Skull Ring. Le acque si sono mosse e pare che finalmente la band nel 2005 possa aspirare a un riconoscimento della massima importanza, come l’accesso all’empireo della Rock And Roll Hall Of Fame. Peccato non ci sia nulla da fare: i soloni preferiscono Buddy Guy, gli O’Jays, i Pretenders, Percy Sledge e gli U2 (commentare questa decisione sarebbe come sparare sulla croce rossa, perciò ci asteniamo dal farlo). Anche quest’anno gli Stooges sono entrati a far parte del novero dei possibili candidati all’induzione, peccato che però anche stavolta non ce l’abbiano fatta a differenza di Grandmaster Flash And The Furious Five, R.E.M., le Ronettes, Patti Smith, Van Halen (anche qui niente commenti).

Il 2006 è l’anno per fare le cose sul serio: il gruppo fa quadrato, si riunisce e decide di dare vita a un nuovo album in studio. “Abbiamo fatto mente locale e lavorato per raggiungere questo momento fin da quando ci siamo ritrovati. Abbiamo iniziato a comporre e a mettere da parte il materiale per tre anni, e bing, bang, boom, eccoci qua”. In realtà la lavorazione è stata meno immediata di quanto previsto. Le session sono iniziate nella casa di Iggy a Miami, con l’intenzione poi di registrare le canzoni agli Electrical Audio Studios di Steve Albini a Chicago. Nella fase iniziale la band si è vista tre volte in un anno per 15 giorni complessivi (5 a volta), in cui però sono scaturiti solo due pezzi “che ci fossero congeniali” (in tutto si parla di più di 40 brani). Qualcun altro “era davvero molto buono, ma non era adatto a noi. Se l’avessimo pubblicato vi sareste grattati la testa dicendo: ma che cazzo è sta roba?! Per dire, abbiamo provato a scrivere un brano country e ci è venuto bene. Per un attimo abbiamo pensato di includerlo nel disco. Abbiamo cercato di fare ciò che internamente aveva senso per noi, ma senza dimenticare che alla fin della fiera, quando dai qualcosa in pasto al pubblico, tu sei solo un ragazzino che va a scuola giorno dopo giorno. La gente sa chi sei, ti etichetta. Se il lunedì sei una cheerleader, il martedì faresti dannatamente bene a portare con te i tuoi pom pon”. Il problema era anche che Iggy e gli Asheton non erano mai stati abituati a mettere a punto dei demo prima di allora: “Questa band non aveva mai fatto dei cazzo di demo. Negli anni 60 il nostro demo era il palcoscenico”.
E d’altronde non è stato così semplice ritrovare un’intesa che mancava da parecchio tempo e che rischiava di riportarli indietro ai tempi in cui gli abusi li distrussero. “Alcuni momenti sono stati eccitanti, altri spaventosi, e non mi importa ritornarci. In fondo li conosco quei ragazzi. Non conosco nessun altro nella maniera in cui conosco loro”.
La fase realizzativa in studio è seguita a ruota. “La routine di registrazione era piuttosto elementare: avremmo suonato una canzone cinque o dieci volte, deciso quale avremmo tenuto per lavorarci sopra e poi fatto le sovraincisioni. Ma essere in una rock band significa partecipare a una gara di corsa nei sacchi con una coppia di idioti. Non puoi fare quello che vuoi fare. Così, per procacciarci un po’ di ossigeno, abbiamo inserito nella tabella di marcia un giorno speciale per ogni membro del gruppo. Se è il tuo giorno speciale e vuoi ubriacarti, allora tutti ci ubriachiamo”. Il suo giorno speciale Iggy l’ha utilizzato per correggere due parti vocali che non andavano bene e poi volare a Miami Beach. Ron invece si è limitato a riascoltarsi diligentemente, per uscirsene con: “Wow, fico”.
Il 7 ottobre entrano negli Electrical Audio Studios e in due settimane incidono tutti i pezzi che avrebbero costituito The Weirdness e anche qualcuno in più. Salvo il paio di errori in sede vocale di cui sopra, si tratta di registrazioni praticamente live, come piace a Iggy. “Non ho detto ‘ok, bella questa’ diciannove volte. È stato tutto un ‘ai vostri posti, pronti, partenza, via!’. La musica dovrebbe essere live per il 93%, anche in studio di registrazione. Gli studi sono come gli ospedali: un sacco di gente si registra per entrare, ma poi non ne esce più. Quindi io ero davvero conscio del dover fare in modo che tutto sopravvivesse”.
In studio c’è il vate dell’alternative rock Steve Albini ad aiutarli in veste di tecnico del suono. In realtà due pesi massimi come Rick Rubin e Jack White avevano espresso il loro interesse nel lavorare con gli Stooges, ma il gruppo ha scelto diversamente. “Collaborare con Albini è stata un’idea di Ron” precisa Iggy. “Penso che Ron stesse cercando qualcuno che parlasse la sua lingua, qualcuno che fosse davvero coscienzioso e qualcuno che probabilmente l’avrebbe aiutato a sostenere la sua integrità. Ho telefonato a Steve e ho realizzato che l’immaturo, gotico, maniaco che scrisse quel gran articolo su Maximum Rock’n’Roll (che si riferisca a The Problem With Music pubblicato nel numero 133, 1992?, nda) non era l’unica persona che viveva dentro lui. Così dissi: okay, lo possiamo fare. Ha un approccio al suono tale che se una delle sue tracce va a finire per sbaglio su un disco degli anni 30 potresti non accorgertene. Puoi dire la stessa cosa di un disco degli anni 50, 70 o 90. Le sue registrazioni non saranno datate tra dieci o venti anni perché lui non usa quel modo di lavorare”. E Albini dal canto suo ha espresso il suo punto di vista: “Ho già avuto a che fare con persone famose in precedenza e non mi ha fatto alcun effetto, ma incontrare delle persone che sono i tuoi eroi è un bel casino”.
Un casino che ha portato a The Weirdness. Come sia il disco lo potete leggere sullo scorso numero di Jam (n. 134). In questa sede riassumiamo e ribadiamo: non un granché. E di più: a voler esser del tutto sinceri è una delusione. Non che ragionevolmente ci si potesse aspettare un lavoro del calibro dei vecchi Stooges, però questa band, almeno su disco, avrebbe fatto meglio a lasciare i ricordi dove stavano. Iggy non è la solita iradiddio, l’apporto di Mackay è pressoché insignificante, idem quello di Watt e i due Asheton. beh, da Scott non è che si potesse attendere chissà cosa, ma da Ron. Guardate Ron Asheton oggi: sembra un professore del Nebraska Methodist College di Omaha sulla via della pensione. e suona pure come lui. Ascoltatelo e cercate di recuperare con la memoria i riff taglienti dei tempi che furono, perché in The Weirdness ne troverete davvero pochi. Certo, quando in ATM la azzeccano si spera quasi che le cose possano solo migliorare, ma quando in Idea Of Fun paiono quei pesci palla che si gonfiano per accrescere le proprie dimensioni quando si sentono minacciati o quando nella title track si mettono a pasticciare languidi si pensa che la speranza sia morta per sempre. D’accordo, Iggy dichiara: “Suoniamo fottutamente compatti!”. E Ron aggiunge: “Questa è stata la migliore esperienza di registrazione che abbia mai avuto. La migliore di tutte. Nessuna tensione, nessuna posa, tutti si sono divertiti, si rideva. È stato tutto ciò che avevo sperato che fosse. E sono molto contento del risultato”. Scott conclude: “La musica è davvero diversa da ogni altra musica che abbiamo mai fatto con gli Stooges. C’è stata maggior enfasi nel voler suonare bene. Non riesco a dire abbastanza su come Jim (Iggy Pop, nda) abbia preso il controllo della situazione e diretto le session. Ha svolto un lavoro eccellente ed è stato un piacere”.
Ok, autocompiacimento come da prassi, ma gli Stooges erano (sì, erano) davvero un’altra cosa. E non lo diciamo per fare i nostalgici di tempi che perlopiù non abbiamo vissuto. Basta andare a (ri)ascoltarsi The Stooges, Fun House e Raw Power (i primi due recentemente ristampati in deluxe edition dalla Rhino) per rendersi conto della reale portata di una band influente come poche altre.

Se furono Velvet Underground e Doors i primi a far uscire dall’innocenza il rock con i rispettivi album di debutto del 1967 (all’epoca i Rolling Stones non erano ancora entrati nella loro fase più depravata), furono gli Stooges i primi a traghettarlo in un abisso di violenza, sesso, perversione, volgarità. Gli Stooges erano davvero pericolosi: non inscenavano le pantomime provocatorie dei Doors, né avevano la patina intellettuale e avanguardistica dei primi Velvet (sebbene lo zampino di John Cale su The Stooges si faccia sentire in We Will Fall). Non recitavano una parte, erano e basta. E lo erano nella maniera più primitiva e brutale possibile. Aldilà delle innegabili valenze stilistico-sonore è soprattutto in questo che si deve riconoscere la loro influenza sul punk almeno un lustro prima che si iniziasse a usare quel termine per definire un genere musicale. Non suonavano punk, erano punk. Una bella differenza. E allora leggerete dell’autolesionismo di Iggy Pop, del suo flagellarsi il corpo tagliandosi qui e là, del suo gettarsi sugli astanti sotto il palco (pare che lo stage diving sia una sua invenzione, un po’ come il pogo sembra sia stato un brevetto di Sid Vicious), del suo essere on stage sempre oltremisura, inafferrabile e impazzito. Un cane sciolto sempre e comunque. Non ci si sarebbe potuti aspettare di meno. Rabbia e frustrazione compresse nei riff ricolmi di wah wah e fuzz della chitarra di Ron (quello che riesce a esprimere in No Fun, pezzo prediletto dai Sex Pistols, e in I Wanna Be Your Dog vale una carriera). Come avrebbero potuto piacere a un largo pubblico? Impossibile. Com’era impossibile che durasse a lungo un’entità così instabile, un nucleo radioattivo pronto a esplodere da un momento all’altro. Dopo The Stooges del 1969, arriva nel 1970 Fun House ed è ancora meglio. Non è il sax free di Steve Mackay a fare la differenza (ci aggiunge quel poco che basta a farli diventare ancora più caotici e animaleschi), semmai è la registrazione più cruda e diretta. T.V. Eye e Dirt sono le due facce della medaglia: l’urlo primitivo della prima è forse la più efficace rappresentazione della loro musica (pezzi come questi a 37 anni di distanza bagnano il naso, per essere educati, al 95% dell’odierno rock supposto garage, noise, hard, punk o quel che volete voi); la lascivia morbosa che permea la seconda è qualcosa di talmente reale da essere tangibile, ma allo stesso tempo riesce a imbastire un’atmosfera malinconica, ricamata in un tessuto morbido fatto di attesa parossistica e rilascio gaudente (una nasty song come non ce ne sono mai più state, il desiderio sessuale fatto canzone). E poi i primi segnali di diaspora: droga a tutto spiano; Dave Alexander molla i remi; la band di fatto entra in stand by. Ci pensa David Bowie a metterci una pezza: nel 1972 diventa amico di Iggy e spinge affinché metta in piedi un nuovo gruppo, che dovrebbe ruotare attorno al nuovo chitarrista James Williamson. I fratelli Asheton, nel frattempo accantonati, vengono richiamati proprio perché non si riesce a trovare dei sostituti adatti. Ron, ahilui, è costretto a spostarsi al basso. Ne viene fuori quel Raw Power (1973), sotto dicitura Iggy & The Stooges, violentato dal mixaggio scandaloso a opera dello stesso Bowie. Disco che la vulgata comune suole sottovalutare, in realtà un altro caposaldo imprescindibile, nonostante il suono oggettivamente pessimo.
Il resto è storia, come si direbbe. Ma è una storia lunghissima e complicata quella del solista Iggy Pop. Un personaggio assimilabile a nessun altro, con una carriera fitta di alti e bassi, svolte inaspettate e attesi ritorni. L’Iguana è inafferrabile, se non quando decide lui stesso di mettersi in gabbia e con The Weirdness, a parer di chi scrive, l’ha fatto. Non è cresciuto (o forse è solo morto e risorto molte volte) e a guardarlo nel fisico neppure invecchiato (salvo il volto e in questo non è dissimile da Mick Jagger).
Bowie diventa il padrino della rinascita artistica di James Newell Osterberg. Lo ripulisce e se lo porta con sé durante il tour di Station To Station. In pieno trip mitteleuropeo, Bowie lo convince a fare armi e bagagli e trasferirsi con lui in un appartamento a Schöneberg, Berlino Ovest. La permanenza cambierà il percorso artistico di entrambi: Bowie dà vita alla celebre trilogia berlinese e Iggy, con l’aiuto dell’amico che co-compone e produce, pubblica nel 1977 i due dischi che lo rilanciano (con una nuova immagine e un nuovo stile), The Idiot e Lust For Life, a loro modo un capolavoro (il primo, introspettivo, decadente, gelido e raffinato diventerà influente su certo post punk) e uno che ci si avvicina (il secondo, più rockeggiante ed esuberante). Seguono una sfilza di album più o meno discreti, con in alcuni casi delle vere e proprie sorprese (è il caso di Blah Blah Blah del 1986, con un Iggy pronto per Mtv in Real Wild Child e Cry For Love). Con Brick By Brick (ospiti Slash e Duff McKagan dei Guns n’ Roses) del 1990 torna in territori a lui più congeniali, ma è solo col successivo American Caesar del 1993 che colpisce duro e bene. Seguono altri lavori non propriamente riusciti, fino al già citato Skull Ring del 2003.
Oggi Iggy Pop è un signore sessantenne (li compirà il prossimo 21 aprile) che sembra non avere la minima intenzione di fermarsi. La fisicità che esprime sul palco è la medesima di quando era giovane (forse è lui che ha fatto il patto col Diavolo) e il carisma, complici gli anni, è addirittura aumentato (da anni alcuni registi si sono accorti che era difficile trovare una faccia cinematografica come la sua, e infatti l’hanno ingaggiato nei propri film, vedi per esempio Sid & Nancy, Dead Man, Coffee And Cigarettes e The Crow: City Of Angels). E a proposito di film, il personaggio di Curt Wild, interpretato da Ewan McGregor per Velvet Goldmine, chiaramente ispirato a Iggy Pop (si esibisce sulle note di una cover di T.V. Eye tra l’altro) sembra Ned Flanders a confronto dell’originale.
Seppur, come visto, abbia tentato diverse mutazioni artistiche, in fondo dimostra di trovarsi più a suo agio quando la materia che ha per le mani è ruvida e grezza come quella con cui è cresciuto. Lui stesso, sebbene più maturo, non è cambiato: pare lo stesso figlio di puttana di sempre, con quell’aria vagamente pericolosa come se stesse per fare qualcosa di folle da un momento all’altro. Perché Iggy Pop non è mai stato rock’n’roll nel corpo e nell’anima, no, è sempre e solo stato punk.
“Le dirò una cosa sul punk-rock: punk-rock è una parola utilizzata dai dilettanti e. uhm. dai manipolatori senza cuore, e la musica che assorbe le energie e i corpi e i cuori e le anime e il tempo e le menti di giovani uomini, che vi si donano completamente. Ed è una parola che si basa sul concetto di disprezzo; un termine fondato sulla moda, sullo stile, sull’elitismo, sul satanismo, su tutto ciò che c’è di marcio nel rock’n’roll. Io non conosco Johnny Rotten. ma sono sicuro, sono sicuro che lui mette tanto sangue e sudore in quello che fa quanto ne metteva Sigmund Freud. Vede, quello che a lei suona come una vagonata di rumoraccio antiquato in realtà è la brillante musica di un genio. me stesso. Ed è una musica talmente potente, che è quasi fuori dal mio controllo. E quando ci sono dentro non provo piacere né dolore, sia dal punto di vista fisico sia emozionale. Riesce a comprendere ciò di cui parlo? Si è mai sentito così? Quando non riesci a provare nulla e d’altronde neanche lo vuoi. Ha presente? Ha capito che sto dicendo, sir?” (da un’intervista che Iggy Pop rilascia al giornalista Peter Gzowski per la Cbc l’11 marzo 1977).

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