10/05/2007

THE LADY IS BACK

Joni Mitchell

Mai fidarsi degli artisti, diceva una mia amica evidentemente scottata da complicate vicende di cuore.
Già, mai fidarsi. Specie delle rockstar, specie di quelle che, anticipatamente, giurano di “aver chiuso con la musica”.
“Joni Mitchell never lies” (“JM non mente mai”) rappava Q-Tip nel 1997 duettando con Janet Jackson in Got ‘Til It’s Gone, brano impreziosito dal campionamento del ritornello originale di Big Yellow Taxi che, mai come in questo contesto, suona davvero profetico: “Don’t it always seem to go / That you don’t know what you got till it’s gone?” (“Non vi sembra che ci rendiamo conto del valore delle cose solo nel momento in cui le abbiamo perdute?”).
Mai fidarsi degli artisti. Tanto meno di una come Joni Mitchell che se (per dirla con il rapper di A Tribe Called Quest) nei testi delle sue canzoni non ha mai raccontato balle, nella vita privata di casini ne ha combinati parecchi. Dall’abbandono di una figlia, frutto di una relazione occasionale con un pittore (“Ero troppo giovane, avrei finito per rovinare due vite, la mia e la sua”), all’affrettato matrimonio con il folksinger americano Chuck Mitchell (“L’unica cosa buona che mi ha lasciato è stato il suo cognome”); da una lista di cuori infranti che assomiglia a un’enciclopedia del rock (Neil Young, David Crosby, Graham Nash, James Taylor, Jackson Browne, John Guerin, Don Alias, Jaco Pastorious, Larry Klein, ecc.) a relazioni altrettanto turbolente con manager e discografici (“Il miglior modo per disamorarsi dell’arte”, diceva nei primi anni 70, “è lavorare nel music business”). Su tutto, una fortissima idiosincrasia: quella nei confronti dei critici musicali (“Tendono a confinarti in un periodo storico. Punto e basta. Non gli importa nulla di ciò che fai. La mia musica, per essere apprezzata, ha bisogno di profondità d’animo e di emotività, cose che i giornalisti bianchi – esseri ignoranti, maschilisti e spregevoli che oggi controllano la stampa – sembrano ormai mettere da parte in modo scientifico”).
A nulla le sono valsi premi e riconoscimenti ufficiali (tra cui l’ingresso nella Rock And Roll Hall Of Fame, svariati Grammy, un paio di lauree ad honorem) più una serie infinita di attestati da parte di grandi artisti di generazioni diverse (da Madonna a Annie Lennox, da Prince a Tori Amos): Miss Mitchell sembra avercela con tutti. “Ho provato a invecchiare con grazia”, ha detto qualche anno fa, “ma sembra che questo non importi a nessuno… c’è troppa volgarità in giro”.
“Il mondo della musica è una cloaca, mi vergogno di farne parte”, dichiara, nel corso di una famosa intervista, al malcapitato cronista di Rolling Stone, nel dicembre 2002. In quella stessa occasione, Joni sostiene che “ci si è dimenticati che il termine musica deriva da musa: dov’è finita l’ispirazione?”. Quindi, annuncia: “Basta, ho chiuso con la musica. Preferisco dipingere, da sola, nel mio studio”.
Non importa se, proprio in quei giorni di fine 2002, esce un doppio cd (Travelogue), affascinante collection di sue vecchie canzoni rivisitate con l’ausilio di una grande orchestra. Non importa se lei, che una volta, a chi le domandava di rifare i suoi primi successi, rispondeva: “Chiedereste a Picasso di dipingere lo stesso quadro due volte?”, comincia a guardare indietro, verso il proprio luminoso passato artistico.
Mai fidarsi degli artisti.
“Robin Hurley della Rhino Records” racconta “è venuto da me proponendomi un album che voleva chiamare The Best Of Joni Mitchell. Io gli ho detto: Robin, questa selezione la intitolerei piuttosto La scelta del capo… Si trattava semplicemente di una serie di canzoni, più o meno di successo, che non rappresentavano neppure il meglio del mio lavoro. L’ho convinto a darmi retta. Così, insieme, abbiamo scelto un gruppo di brani con un tema che potesse fungere da fil rouge e mi sono impegnata nella realizzazione di dipinti per illustrare il lavoro. Sono nati Dreamland e quindi Songs For A Prairie Girl, per il centenario del Saskatchewan”.
Di incidere nuove canzoni, però, non se ne parla nemmeno.
Joni ha parole di fuoco persino per le giovani cantautrici che si ispirano a lei (“Pallide imitatrici”) o addirittura per le nuove femministe. “Amazzoni”, le apostrofa con disprezzo, “hanno creato un tipo di donna aggressiva ed egoista che a me pare mostruoso…”. Per l’ex regina degli hippie, per la raffinata “signora del Laurel Canyon”, una presa di posizione forte; non c’è che dire.
Mai fidarsi degli artisti.
Joni (definita una delle più “accanite fumatrici esistenti sul pianeta terra”) negli ultimi anni, ha problemi con la voce. “L’avevo praticamente persa. Ma il fumo non c’entrava nulla”, spiega, “si trattava di noduli alle corde vocali. Ho conosciuto un terapeuta cinese che mi ha risolto il problema. Oggi, ho ritrovato la mia voce”. Una voce, timbricamente, assai diversa da quella da usignolo che aveva fatto innamorare tutti alla fine degli anni 60: il range di tre ottave è scomparso, ma l’espressività è aumentata. “Canto molto, molto meglio di una volta”, dice la Mitchell, “mi sento persino in grado di interpretare i repertori dei miei grandi idoli come Edith Piaf o Billie Holiday”.
Il fatto non è di poco conto. È uno dei motivi tecnici del suo ennesimo  “sblocco artistico”, un po’ come successo dieci anni prima grazie a un synth della Roland che le consentiva di pre-settare le complesse accordature della sua chitarra. Joni, furbescamente, spiega che le “è capitato altre volte di avere bisogno di periodi di stacco dalla musica. Mi serve per ricaricare. E poi ho bisogno di attenzione, da parte di tutti”.
Dopo una lunga intervista con VH1, un altro momento decisivo. “Mi hanno tenuto lì per cinque ore sino a che non rispondevo quello che volevano loro”. La sera stessa, vede in televisione un’intervista di Larry King a un militare americano, prigioniero nella prima guerra del Golfo e prigioniero anche nella guerra del Vietnam. Che spiega le torture subite. “Mi sono identificata in quell’uomo”, dice Joni, “ho capito benissimo cosa volesse dire”.
Joni ormai è pronta.
Vola in Canada, in quel suo ritiro nella British Columbia dove era già stata nei vari momenti di crisi della sua vita. Si siede al piano e compone quasi di getto quattro nuove canzoni. “Ho anche provato a suonare la chitarra dopo tanto tempo. Non avevo più calli sulle dita e, i primi giorni, sanguinavo…”.
Nasce Shine, il suo primo album di canzoni inedite da dieci anni a questa parte “che uscirà dopo l’estate anche se non ho ancora deciso per quale etichetta”.
Tra i brani scelti, spicca la versione musicale di una poesia di Kipling, If. “Stavo a metà dell’opera, quando un amico, (il ballerino di Broadway, Charles Valentino, nda), mi ha telefonato e me l’ha letta. Ho pensato fosse un finale perfetto per il mio nuovo lavoro. If è il primo pezzo del cd arrangiato e suonato con la chitarra”.
Ma c’è di più. La Mitchell riprende anche a scrivere canzoni con consapevolezza socio-politica. Pure lei sente la rinascita di una nuova coscienza americana, anche se non è questo il motivo del suo ritorno. “Rileggendo i testi di alcune mie canzoni degli anni 80 e 90 (come quelle di Dog Eat Dog) si può capire che il monito che lanciavo al mondo era concreto. All’epoca, pochi lo hanno compreso. Oggi dobbiamo tutti adoperarci per scuotere le coscienze della nazione. Ma se ascoltate con attenzione Sex Kills (del 1994) capirete che io avevo profetizzato tante cose con molti anni di anticipo…”.
Mai fidarsi degli artisti.
Personaggio esuberante che adora conversare, la Mitchell negli ultimi anni si è concessa pochissimo ai microfoni della stampa. Solo qualche amico fidato ha avuto il privilegio; ultima, in ordine di tempo, la songwriter Amanda Ghost che per BBC Radio 2 ha realizzato due puntate (Coming From The Cold: The Return Of Joni Mitchell) andate in onda a fine marzo, pochi giorni dopo la scomparsa di Myrtle Anderson, amata madre di Joni, morta a 95 anni e ispiratrice di canzoni come Let The Wind Carry Me, Song For Sharon, Facelift, Dreamland. Nel corso dell’esclusivo programma, la Mitchell le fa ascoltare alcuni frammenti di brani del nuovo album. Accompagnata dai “fidi” Brian Blade, Herbie Hancock e Wayne Shorter, Joni in Shine pennella spezzoni di poesia sonora.
Chi l’ha incontrata negli ultimi tempi, la descrive raggiante.
“Ho impiegato tanti anni a mettere a fuoco il mio stile. Sono davvero convinta che sia originale, unico. La musica, come la pittura, necessita di tempo. Oggi, credo di aver raggiunto il pieno della mia maturità artistica. Ne sono consapevole e molto soddisfatta. Non vengo mai considerata una poetessa come Bob Dylan o Jim Morrison. Ma non me ne dispiace. Perché sui poeti la penso come Nietzsche che diceva: infangano le loro acque per farle apparire profonde. Solo i neri mi capiscono veramente. Una volta un musicista di colore mi ha detto: la tua musica va oltre le razze e i sessi. Un altro mi ha fermato per strada e mi ha confessato: le tue canzoni sono dei piccoli film. Non potevano farmi complimento migliore. Persino il capo della gang dei Crips di Los Angeles è un mio fan”.
Altro che “basta, ho chiuso con la musica”.
Forse, proprio a se stessa e alla sua musica pensava cantando il ritornello di Big Yellow Taxi che, pare, sarà incluso (con arrangiamento nuovissimo) in Shine.
Mai fidarsi degli artisti…

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