Oltre vent’anni di carriera, diciannove album pubblicati e ventidue milioni di copie vendute in tutto il mondo non sono cose da poco. Eppure Chris Rea comincia tardi a prendere confidenza con la chitarra, ha già diciannove anni e alle spalle una brutta esperienza scolastica. L’ispirazione blues, narra la leggenda, arriva quando un insegnante, dopo aver letto pubblicamente un suo saggio, straccia con disprezzo davanti alla classe il quaderno su cui è stato scritto. Il giovane Chris ne raccoglie i brandelli finiti per terra e li lancia a sua volta, furioso, contro il professore. È la fine di una carriera scolastica già problematica, ma anche la realizzazione di quanto può essere difficile la vita.
I genitori di Rea sono emigranti italiani, vengono dalla provincia di Frosinone e cercano fortuna in Inghilterra aprendo un negozio di gelati a Middlesborough. Chris cresce con un’idea idilliaca dell’Italia e comincia presto ad apprezzarne le melodie grazie alle canzoni che alcuni zii gli cantano spesso accompagnandosi con la fisarmonica. Non è un caso che nei suoi successivi lavori compaia spesso un fondo melodico che lo stesso chitarrista attribuisce proprio ai suoi primi ascolti. Chris accompagna sempre i genitori quando tornano in Italia.
“Passavamo spesso le vacanze sul lago di Garda”, mi dice Rea durante un’intervista rilasciatami prima dell’inaugurazione del Festival di Montreux. “È stato lì che nell’estate del ’61 è cambiata la mia vita. La musica italiana di quel particolare periodo mi ha segnato profondamente, mi ha aperto un orizzonte insperato e consolidato definitivamente l’aspetto melodico. C’è poi una canzone, di cui non ricordo il titolo, ma solo alcuni passaggi, che è stata davvero fondamentale (Chris me li canticchia, ma non riesco a risalire a nulla di preciso, nda). Allora preferivo di gran lunga i repertori italiani a quelli inglesi, mi sembravano più completi, più finiti.”
La prima band di cui fa parte è quella dei Magdalene, in cui milita come cantante niente meno che Dave Coverdale, l’ex Deep Purple da poco autoesiliatosi dal celebre gruppo. Ben presto, siamo nel 1973, cambiano nome in Beautiful Losers e vincono un concorso come miglior rivelazione dell’anno indetto dal Melody Maker, ma le cose non si smuovono più di tanto e Chris Rea nel 1977 lascia la band per intraprendere la carriera da solista. Comincia ad avere un certo successo l’anno successivo quando il suo primo singolo Fool (If You Think It’s Over) entra nelle classifiche sia inglesi che americane ottenendo anche buoni giudizi di critica; è l’inizio di una carriera luminosa che si snoda sempre in bilico tra un pop di maniera, molto personale, e l’amore per il blues che appare di tanto in tanto senza mai diventare però determinante. La voce calda e ricca di colori è il suo vero asso nella manica e ben si lega a quel repertorio intimista che gioca non poco sui chiaroscuri e sull’evocazione. Il connubio voce-chitarra lo caratterizzerà come uno dei più originali artisti pop degli ultimi vent’anni e le sue performance dal vivo affascineranno più di una generazione. Rea non è artista da grandi stadi, preferisce il contatto immediato con il pubblico, la sua forza è il feeling che riesce a instaurare con chi gli sta di fronte, quasi un dialogo con scambio reciproco di energia.
Quasi due anni fa il destino impone a Chris Rea una brusca e repentina virata; si ammala seriamente al pancreas e deve sottoporsi a complicate operazioni da cui riesce ad uscire grazie ad una formidabile forza di reazione. Il periodo di malattia e la lunga degenza in ospedale lo fanno riflettere anche sulla sua vita artistica: “In quei momenti non sai bene a chi affidarti, viene istintivo pensare a Dio, ma sai di non avere mai avuto un rapporto stretto con la religione per cui hai quasi timore a farlo. Certo è che dai un senso diverso alla vita, realizzi quanto siano importanti le cose più intime e come, anche nel lavoro, ci si possa permettere di spendere tempo solo per ciò in cui si crede veramente. In questi anni di malattia ho scritto molte canzoni con un sottofondo inevitabile di tristezza e ho capito che potevano essere espresse musicalmente solo con una forma che fosse davvero in grado di sostenerle e cioè il blues. Per me il blues non è certo una novità, è una musica che ho sempre amato, ma che non ho mai lasciato fluire completamente. Ora è arrivato il momento”.
Delle tredici canzoni presenti nel suo nuovo album Stony Road prevale decisamente la ballata lenta, il blues intimista di grande intensità emotiva che riduce al minimo la strumentazione d’accompagnamento e lascia alla chitarra slide e all’armonica l’incombenza di reggere l’impatto vocale più che mai evocativo. “Quando devi trattare fatti personali che comportano sofferenza è quasi naturale affidarsi alla ballata bluesy, però ho anche pensato che in mezzo a tanta tristezza qualche pezzo più mosso non ci stesse male, così ho riscoperto antichi amori come il triple stride piano che mia madre usava suonare quando ero bambino e ho costruito Slow Dance, oppure un blues più prossimo a quello elettrico di Chicago che mi sembrava adatto per Changing Times, un commento sociale a proposito del post 11 settembre newyorkese.”
È strano che un musicista come Chris Rea, formatosi in Gran Bretagna, rimanga più influenzato dal blues americano che da quello di casa sua. Sembra anzi che nei suoi pezzi l’aspetto rurale, quello del Delta in particolare, predomini decisamente su quello urbano. “Mi sono sempre sentito emotivamente più vicino al blues americano perché ha sempre badato al sodo, ha sempre cercato di esprimere con la maggior intensità possibile le sensazioni che venivano dall’anima, mentre qui da noi il blues ha spesso rappresentato un modo per far vedere quanto si era bravi con la chitarra. Ho sempre adorato personaggi come Blind Willie Johnson che avrebbero potuto esprimere, con la sola voce, tutto quello che c’era da dire in un blues. Riguardo alla musica rurale, beh, anche in questo caso mi sembra più interessante avere a che fare con tematiche in gran parte esistenziali, piuttosto che con problemi relativi alla mancanza di soldi, di donne o di whisky come succedeva spesso a Chicago.”
Certo nel Sud il blues veniva fortemente influenzato dal gospel e l’aspetto religioso aveva in genere una portata maggiore di quanto non succedesse nelle città. “Sì, il gospel è un modo straordinario di comunicazione con un’entità esterna, When The God Lord Talked To Jesus e Someday My Peace Will Come sono nate da una necessità impellente di dominare la mia ansia, quasi il bisogno di una catarsi che mi permettesse di accedere a nuove certezze. Non è un caso che questi due pezzi siano i più personali e struggenti dell’album.”
Tra i brani più belli del disco figurano Easy Rider e Stony Road, due ballate drammatiche che derivano da storie vere. “Easy Rider è il nomignolo che si dà in gergo a quelle persone che assistono di notte gli ammalati gravi e che, non di rado, per alleviare loro la sofferenza aggiungono alle flebo ulteriori quantità di morfina. Mentre ero in ospedale ho visto morire tre giovani in questo modo, e ho anche capito come possano crearsi seri problemi di dipendenza per tutti coloro che ce la fanno a guarire. Stony Road è invece la storia di un mio fan tedesco che è ritornato ad assistere ai miei concerti dopo aver superato gravi problemi di salute. Il suo ricordo, durante la mia lunga degenza in ospedale, è stato di grande conforto; successivamente è diventato anche fonte di ispirazione.”
Come è cambiata la vita di Chris Rea ora che è uscito dal tunnel della malattia? “Come ti dicevo prima, ora voglio concentrarmi sulle cose che mi stanno veramente a cuore. Al mattino mi alzo molto presto e dipingo per ore; alcuni miei disegni verranno inseriti nel booklet del nuovo disco, i soggetti sono in gran parte chitarre che si possono dilatare fino a raggiungere altre sembianze. La musica continua a rimanere un punto fisso, anche se non so ancora come potrà evolversi la mia ispirazione. Credo comunque sarà più che mai oggetto di speculazioni interiori.”
Da quattro lunghi anni Chris Rea è lontano dal palcoscenico, un lungo break per un musicista che è abituato ad un rapporto abbastanza stretto con il proprio pubblico. L’inaugurazione della trentaseiesima edizione del Festival di Montreux è un onore, ma certamente anche una responsabilità. “Sono contento di presentare il mio nuovo album in un’occasione così prestigiosa, il pubblico forse si aspetta i miei vecchi successi, ma ho deciso di dare una svolta ben precisa al mio repertorio. Eseguirò tutti i pezzi di Stony Road e altri ancora di nuova composizione, concepiti sempre sullo stesso genere. Ho almeno altre sette canzoni inedite già pronte da pubblicare che ho deciso di inserire, insieme alle tredici presenti nel disco normale, in un progetto speciale. Sarà un’edizione a tiratura limitata per i fan più irriducibili.”
Mentre ci beviamo un caffè nella hall del suo albergo, Chris Rea è affascinato dal lago che gli sta di fronte. “Quando stai bene non pensi mai a riposarti, cerchi sempre di dare il massimo e non ti accorgi che ti perdi il piacere di godere quello che stai facendo. Ora capisco che la frenesia non giova, voglio cercare di essere sincero con me stesso in tutte le cose che faccio, apprezzare il frutto della mia fatica. Un disco deve prima di tutto andare bene a me, l’aspetto commerciale è importante, ma non deve essere determinante per il suo concepimento. Sono consapevole che Stony Road è un disco destinato agli appassionati di blues, a un pubblico molto più di culto di quello che mi seguiva nei lavori precedenti, ma sono ottimista perché i fan prestano attenzione oltre che alle vicende artistiche anche a quelle personali che le generano. Credo che capiranno il senso di questa svolta.”
A ben ascoltare, in alcuni brani del disco compaiono anche delle velate influenze cajun, frutto forse di un inatteso accordeon che fa capolino nella ritmica, rubando quasi la parte all’armonica a bocca. “La scelta dell’accordeon ha proprio il senso di riportare alla musica di New Orleans, città in cui si sono sommate influenze nere, francesi e spagnole. Dalle prime due culture è nato proprio il cajun, una musica fortemente evocativa che mi ha sempre affascinato. Un paio di canzoni, Dancing The Blues Away e The Hustler risentono forse di quest’influenza.”
Heading For The City è un pezzo particolare che dal punto di vista vocale raccoglie in sé tutta l’angoscia della solitudine e da quello strettamente musicale mostra di avvalersi invece di una somma di strutture blues avvicendatesi nella storia. “Quel pezzo è da intendersi come una specie di documentario, un viaggio musicale attraverso il blues rurale, Miles Davis, con le relative influenze di Debussy, Chicago e lo shuffle. Una sintesi di alcune delle forme più significative del blues.”
Nonostante le condizioni che hanno generato questo lavoro siano state di grande depressione, l’album, nel suo complesso, assume una potenza espressiva del tutto inspiegabile. Come è possibile che uno stato di abbattimento possa esplodere sul piano creativo con un’energia emotiva così straordinaria? “Non saprei, è probabile che l’inconscio abbia giocato un ruolo determinante nel recupero delle energie; evidentemente dentro di me c’era una forte aspettativa di guarigione che era sopita dalla paura o forse dalla prudenza che in questi casi assume una forma quasi scaramantica.”
Visto che la produzione del disco è frutto delle scelte dello stesso Rea, chiedo a lui come mai abbia scelto di ridurre al minimo il supporto strumentale nei vari pezzi. “Ciò che generava le canzoni era una specie di grido che era ovviamente difficile da rendere musicalmente, da qui è nata la scelta di affidare alla chitarra slide il ruolo unico e fondamentale di rappresentarlo. Naturalmente l’urlo era il momento di più alta disperazione che poi si stemperava nel tempo e quindi nell’intervento di altri strumenti, tutti comunque molto discreti e assolutamente secondari alla voce e alla chitarra.”
Quando alla sera Chris Rea sale sul palco mi stupisce perché indossa ancora gli stessi pantaloni da relax e la stessa canottiera slabbrata dell’intervista; non ha evidentemente dato gran peso al look con cui presentarsi in un’occasione per lui così importante. Ha imbracciato la chitarra e ha cominciato a cantare il blues, il blues delle sue traversie, delle paure e delle incertezze che per lunghi mesi gli devono aver roso il cervello. Gran parte del pubblico non sapeva, ma qualcosa deve avere intuito perché è rimasto catturato dai lamenti della sua slide che si alternavano a quelli della voce.
Poche parole, solo qualche ringraziamento, poi per quasi un’ora e mezza Chris Rea, ad occhi chiusi, ha dato una grande lezione di vita.