23/03/2007

Il Silenzio e lo Spirito

Intervista a Eugenio Finardi

Eugenio Finardi appare sulla scena rock milanese a metà degli anni 70, un momento caratterizzato da una situazione sociale molto particolare. Il movimento giovanile ispirato dal ’68 si sta evolvendo verso altre forme di lotta, più legate alla liberazione del personale che non strettamente strategiche; per lo meno quella frangia che si sta caratterizzando come autonoma da qualsiasi guida politica ufficiale comincia ad avere un certo peso sullo scontento giovanile proletario e vuole riprendersi quello che crede gli spetti e che fino a quel momento gli è stato negato. La musica è uno degli aspetti che l’autonomia considera con più attenzione e comincia ad essere argomento politico di discussione: i concerti, teorizza questa frangia giovanile, non devono più essere solo patrimonio di chi se li può permettere, ma un diritto a cui tutti possono accedere. Sulla scia dei grandi Festival di Woodstock e dell’Isola di Wight, anche da noi cominciano ad organizzarsi i primi raduni giovanili scanditi dalla musica. È la rivista Re Nudo, diretta da Andrea Valcarenghi, antiproibizionista e aperta alle tematiche pregnanti giovanili, a organizzarli in tutta Italia e a ottenere grande partecipazione soprattutto a Zerbo e al Parco Lambro di Milano. Queste manifestazioni diventano, per i giovani, importanti occasioni di incontro in cui si possono condividere modi di pensare e soprattutto la musica, finalmente suonata da artisti che stanno dalla loro parte, anzi che spesso sono proprio come loro. Finardi è su quei palcoscenici insieme ad amici e colleghi del calibro di Alberto Camerini, Claudio Rocchi, Area, Pfm, Stormy Six, Gruppo Folk Internazionale e Yu Kung, che iniziano una nuova stagione musicale slegata dal mondo discografico ufficiale. Gran parte di loro aderisce al progetto Cramps ideato da Gianni Sassi e incide per questa nuova etichetta indipendente.

Ma se la musica che in quei tempi va per la maggiore è il rock progressivo, Finardi se ne distanzia subito, sia per propensioni diverse che pongono molta attenzione ai testi, sia per la convinzione che il nuovo rock debba avere una radice nostrana; crea insomma una figura di cantautore anomalo.

“La mia idea”, mi racconta Eugenio durante un nostro incontro, “era quella di fare del rock italiano legato alla tradizione, che avesse del rock gli atteggiamenti e la sanguignità, ma che poggiasse su linee armoniche e ritmiche italiane. Da lì sono nate Musica ribelle e tutte le canzoni di allora, costruite con dei testi che, nella mia intenzione, dovevano essere scritti in prosa, cioè col linguaggio parlato di tutti i giorni. Non ho mai avuto l’ambizione di scrivere canzoni che fossero poesie e questo, forse, è stato per anni il grosso fraintendimento con i critici di allora. Ero un po’ il fratellino minore degli Area, dicevo le cose in modo più semplice, più legate al quotidiano, ma credo che le mie canzoni fossero altrettanto dirompenti per l’epoca.”

I concerti in quegli anni venivano presi d’assalto, autoriduzioni e sfondamenti erano all’ordine del giorno, probabilmente era difficile far convivere il piacere della musica e la necessità di farsi pagare da organizzatori che spesso non rientravano nelle spese. “Per un sacco di tempo ho chiesto come compenso dei miei concerti una specie di paga oraria. Contavo le ore che passavano da quando uscivo di casa a quando ritornavo dopo aver suonato, poi chiedevo il compenso di un tecnico specializzato della Fiat per quello che avevo lavorato. Questo anche se erano venute 30mila persone ad ascoltarmi. Si fa fatica a ricordare quanto fosse pura la spinta e quanto si credeva in quel che si faceva.”

Ma poi gli anni 70 sono passati ed è arrivata la decade successiva caratterizzata dal riflusso e dall’edonismo: “Come spesso succede sono poi i fatti personali che influenzano i percorsi e ne caratterizzano i pensieri. La nascita di mia figlia che ha la sindrome di down mi ha profondamente toccato e anche la mia musica ne ha risentito; ho fatto un lp che si chiamava Dal blu, molto intimo e introspettivo in cui ho cercato di approfondire maggiormente l’aspetto della lotta personale. Vedevo sfumare le ideologie e i grandi supporti e nello stesso tempo continuare i grandi disagi e il dolore delle parti dimenticate, di qui la necessita di andare più a fondo anche musicalmente nella ricerca più interiore. Ma tutto questo senza abbandonare per niente la lotta sociale scandita nella quotidianità”.

Col passare degli anni si cambia e probabilmente la maturazione determina anche dei cambiamenti filosofici rispetto alla musica e poi c’è un inevitabile fattore biologico che si fa sentire, col tempo si hanno sempre meno cellule nervose. Forse è vero che la creatività è patrimonio della gioventù, mentre l’elaborazione si presta maggiormente per un’età matura. “Credo che effettivamente sia così, anzi vorrei addirittura essere più drastico: dai 16 ai 30 anni, proprio una questione ormonale che incide, si scrive per ispirazione, mentre dai 30 ai 50 si compone in maniera più matura, creatività ed elaborazione si compensano perfettamente, invece dopo i 50 è difficile scrivere qualcosa di nuovo, di veramente degno. Bisogna accontentarsi della capacità interpretativa che cresce notevolmente. Si diventa realisti, meno entusiasti, ma più analitici.”

Le influenze musicali che incanalano la creatività in una determinata direzione sono naturalmente fortissime in giovane età, ma forse continuano a farsi sentire con una certa intensità anche nella maturità. “Forse la più grande influenza in assoluto l’ho subita da Mozart. Mia madre è una cantante lirica e fin da quando avevo 3 anni mi faceva notare che Amadeus alla mia età aveva già scritto dei quartetti, mentre io ancora niente, per cui la scelta era necessariamente tra diventare un vero e proprio Psycho o fare il cantante. Il rock è poi stato fondamentale per la mia crescita, così come il blues a cui sono molto legato. Personaggi come John Lee Hooker, Muddy Waters, Howlin’ Wolf e Robert Johnson sono stati determinanti, anzi la passione per questa musica è rimasta tale che nel prossimo febbraio inizierò un progetto sul blues insieme a Pippo Guarnera. Proprio adesso sto riascoltandomi i vecchi bluesmen viscerali delle origini, quelli del Delta che mi affascinano davvero tanto. Forse perché figlio di una cantante lirica ho maturato per contrapposizione una grande passione per la musica non colta.

“Credo però che il grande progresso della mia maturità sia quello di avere imparato a lasciare fluire in piena libertà l’anima quasi lirica che posseggo in un corpo totalmente rock. È da questa consapevolezza che sono nati lavori come Il silenzio & lo spirito e le collaborazioni con la fadista portoghese Argentina Santos e il chitarrista Jorge Fernando di cui voglio anche tradurre alcune canzoni straordinarie.”

Dopo un esordio rock e una lunga esposizione nello stesso genere, Finardi sembra aver rivalutato con gli anni l’aspetto acustico della performance. Una sorta di percorso a ritroso con la consapevolezza che la semplicità è più prossima di qualsiasi altro aspetto alla perfezione. “In ogni brano, come in ogni testo, sento la necessità di andare al nocciolo della questione, scoprire il punto fondamentale della sua creazione, il cuore di tutto. Scoprirlo può anche diventare una cosa dolorosa. Il rifacimento de I giardini di Marzo di Battisti, per esempio, mi ha fatto scoprire un testo sconvolgente sul tradimento; a volte mi chiedo se lo stesso Lucio quando ha cantato la versione originale si sia reso conto di quanto è profondo quel testo. Quando penetri il senso della canzone è come andare vicino al sole, ti scotti per la sua enorme energia che emana e da lì elabori l’interpretazione. È stata la stessa cosa quando ho reinterpretato Verranno a chiederti del nostro amore di De Andrè. Questo modo di procedere sta diventando per me più importante dello scrivere.”

Lao Tzù, molti secoli fa, disse che era inutile cercare nuove elaborazioni perché tutto era già stato detto. È un concetto che vale anche per la musica? “Le culture orientali non prevedono l’originalità. Se eri un pittore del periodo classico giapponese e dovevi dipingere un cardellino dovevi cominciare a rappresentarlo esattamente come lo aveva fatto il più grande pittore della generazione precedente. Solo col tempo potevi aggiungere qualche impercettibile dettaglio, ma non era previsto che si potesse essere originali. Anche nella nostra cultura, fino a Mozart si scrivevano opere su storie classiche già note. È un’illusione romantica quella dell’originalità assoluta, tutti in realtà poggiano sulle spalle dei propri precursori. Anche in musica è stato detto moltissimo, infatti viviamo un’epoca di grandi ripetizioni che però acquistano un senso nel momento in cui sono in grado di destare una nuova sensazione emotiva. Non giustificare una nuova emozione, nata dall’elaborazione di un vecchio tema, sarebbe come affermare che un nuovo amore non serve a niente perché si sono già innamorati tutti. Una scoperta personale è sempre una novità che ha valore di per sé. Il valore sta nella verità di quello che canti ecco perché è importante arrivare al nocciolo, lì c’è il nuovo amore, l’unicità di ogni evento.”

Un musicista generalmente è sempre diviso tra lo studio di registrazione e la performance dal vivo, mentre da una parte può lavorare con calma e sperimentare con ogni genere di tecnologia, dall’altra si deve esporre per quello che è e per come si sente in quel momento. “Io preferisco suonare davanti alla gente, preferibilmente non troppa gente, la mia giusta dimensione è quella del teatro. Sinceramente i concerti da stadio faccio fatica a capirli, non si riescono a stabilire contatti intimi, io quando canto ho bisogno di guardare la gente negli occhi. Con Il silenzio & lo spirito finiamo col suonare spesso in queste chiese senza alcun orpello scenico se non la chiesa stessa e il rapporto con il pubblico è profondissimo; senti che respira con te.”

Lavorare con una major, oggi, sembra aver senso solo se si è un’artista che vende molto, altrimenti si rischia di diventare un numero su cui anche la promozione diventa optional. Il passaggio di Finardi dalla Wea alla Edel forse ha a che fare anche con questo aspetto. “Un’etichetta minore dà la possibilità di proporre progetti particolari che rischiano di vendere poco. Se entrambe le parti concordano sul valore intellettuale del disco si procede magnificamente, io non chiedo anticipi e la casa discografica non ha grandi spese. L’alternativa all’alto numero di dischi che si possono vendere è quella di trovare tanti nuovi piccoli canali che aprono a nuovi pubblici. Il disco sul fado che ho realizzato poco tempo fa mi ha permesso di fare una cinquantina di concerti straordinari e di conoscere nuove realtà, così come sta succedendo per questo nuovo Il silenzio & lo spirito che presuppone luoghi concertistici molto particolari.”

È da poco uscito Faber – Amico Fragile, un tributo a Fabrizio De Andrè registrato al Teato Carlo Felice di Genova il 12 marzo del 2000, per ricordare la figura del grande cantautore. Eugenio Finardi è stato uno dei partecipanti a quell’evento. “È stata una serata commovente, molto vera, tutto era molto onesto perché corrispondeva alle nostre esigenze e non a quelle delle telecamere, che per una volta erano assenti. È stato difficile cantare perché c’era grande partecipazione e un silenzio che incuteva timore. Mentre eseguivo il mio pezzo dietro me c’erano Fazio e Michele Serra che piangevano, per cui l’emozione e ulteriormente aumentata. La scelta del pezzo Verranno a chiederti del nostro amore è stata molto personale perché me la cantò per la prima volta Cristiano, allora ancora piccolo, in un momento particolarmente difficile per i suoi genitori che si erano appena lasciati. Fabrizio l’aveva scritta in modo autobiografico, e trasparivano in modo evidente i suoi sentimenti, cosa strana per lui che tendeva invece a celarli.”

Finardi con De Andrè deve aver avuto un rapporto particolarmente empatico visto che anche nell’ultimo lavoro Il silenzio & lo spirito riprende una sua canzone, Il ritorno di Giuseppe, e la interpreta particolarmente bene. “Devo confessare che conoscevo Fabrizio più come uomo che come artista, anche se fui proprio io, tantissimo tempo fa, ad aprire la sua prima tournée italiana. Io venivo dal rock e quindi non avevo la stessa soggezione che avevano gli altri cantautori nei suoi confronti e credo che questo lo rilassasse molto. Tra di noi si era instaurato nel tempo un rapporto quasi di tipo parentale, parlavamo sempre di figli era raro che discutessimo di musica o di lavoro. Però è vero che le sue canzoni mi stanno molto bene addosso, che riesco ad arrivare al nocciolo emotivo che ha generato il pezzo. Il ritorno di Giuseppe però l’ha scelto il mio flautista Giancarlo Parisi, che ha pure lui suonato per molti anni con De Andrè e ha giustamente ritenuto corretto prendere in prestito per questo progetto una canzone della Buona Novella, un album particolarmente spirituale.”

Prima di finire su cd, i brani che compongono Il silenzio & lo spirito sono stati il soggetto principale di parecchi concerti all’interno della rassegna La Musica dei Cieli. “Nel concerto originario c’erano problemi di budget e quindi suonavamo noi quattro (Finardi, Parisi, Cosma e Porciello, nda) accompagnati da una di quelle diaboliche scatolette programmate che ci garantiva la fase ritmica. Poi, dovendo documentarlo su disco, abbiamo pensato che era il caso di mettere tutti essere umani e quindi abbiamo arruolato Christian Calcagnile, che proviene dai Rosso Maltese, alle percussioni e Enrico Guarzoni al violoncello. La scaletta è rimasta identica perché ci sembrava completa così. Come ti ho detto si tratta di un piccolo percorso spirituale e quindi cantare in questo ordine le canzoni mi dà qualcosa di fisico, arrivo alla fine in modo armonico.”

Nella scaletta ci sono canzoni note e meno note: oltre a De Andrè, figurano due brani di Leonard Cohen e uno di Battiato, una scelta certamente non obbligata, ma molto coerente con il progetto. “La scelta finale è stata fatta su un gran numero di canzoni possibili, ma sono soddisfatto della cernita perché corrisponde molto bene a quel che volevamo rappresentare. The Land Of Planty e Hallelujah per esempio sono state prese da Cohen per la bellezza del testo, così come Oceano di silenzio che si presta perfettamente all’operazione, come gran parte dei pezzi di Battiato; non vanno dimenticati poi il Corale di Bach e quattro composizioni messe a punto direttamente da noi.”

Parlare di spiritualità e vivere in una città come Milano crea inevitabilmente qualche dissapore. Conciliare le due cose non è facile anche se spesso obbligatorio. “Io vivo abbastanza isolato, però trovo che Milano stia diventando una città sempre più difficile: ostile alle macchine, ai musicisti di strada, a quasi tutto quello che non sono le grandi banche, il grande commercio, gli stilisti della grande moda, gli unici che ne possono oggettivamente trarre beneficio. Offre molto anche culturalmente, ma se non si trova uno spazio per parcheggiare si finisce con l’uscire sempre di meno senza usufruire della città come si potrebbe. Non per fare della politica gratuita ma in questa società è scomparsa ogni componente di sogno, di utopia, ogni possibile progettualità, o senso di comunità, il tutto a favore di un mercato cieco e spesso ottuso. L’idea dominante è quella di fare soldi impegnando meno forza lavoro possibile e pagando queste persone il meno che si può, senza dare ad esse neppure la possibilità di comprarsi quello che producono. Siamo sicuri che sia questo il modello da seguire, che in realtà serve solo per fare diventare straricca una minoranza? Si è dimenticato quello che una volta i cattolici chiamavano la centralità dell’uomo, un concetto che credo abbia un senso profondo anche per i laici.”

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