Fare musica è come la storia di Davide e Betsabea, è una ricerca del cuore di Dio, di quello che c’è dentro. Penso che la musica sia un fatto spirituale e forse è per questo che molte persone che tengono alla musica hanno delle vite difficili. Un sacco di gente capovolge tutto e dice: ‘Mi caccerò in una vita difficile così sarò un artista’. Ma è un nonsenso. Quando sei veramente alla ricerca, quando lo vuoi veramente, quando vuoi il cuore di Dio, stai cercando guai. E li avrai.” Così diceva T-Bone Burnett in una intervista con Bill Flanagan di diversi anni fa.
Nick Cave è alla ricerca del cuore di Dio. Non sappiamo quanti guai abbia trovato, ma sicuramente ha avuto una vita non facile.
Poco prima dell’uscita, nel 2003, di Nocturama, l’australiano aveva fatto pubblicamente una promessa: “D’ora in avanti voglio fare come faceva Bob Dylan negli anni 60. Se ne sento la necessità voglio pubblicare un disco all’anno, magari anche due. Non voglio più stare a sentire quello che dicono i discografici, i loro piani di marketing sull’opportunità di una uscita e quant’altro”. Una promessa mantenuta, sembra, visto che un anno dopo Nocturama ecco adesso addirittura un doppio cd. “Nick arrivò a Parigi”, racconta Warren Ellis dei Bad Seeds, “con un mucchio di fogli pieni di testi e un sacco di idee musicali.” Oltre a Ellis, a Parigi, in quelle prime settimane del 2004, ci sono anche Martyn P. Casey e Jim Sclavunos, la sezione ritmica dei Bad Seeds. Con loro Cave registra, dice Ellis, abbastanza materiale per almeno dieci cd. Ma dove Nocturama era stato un disco scritto e registrato in fretta, Cave questa volta ha passato parecchio tempo chiuso a casa sua a comporre nuove canzoni. Con l’aggiunta degli altri Bad Seeds (meno, naturalmente, Blixa Bargeld, ormai definitivamente fuori dal gruppo) nasce Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus, un disco (doppio) dove, per un gruppo abituato a improvvisare come i Bad Seeds, si assiste a un differente approccio, fatto di molte prove, soprattutto per l’imponente presenza in molte tracce del London Community Gospel Choir. Un disco registrato a Parigi perché, spiega Launay, “dava una impronta molto romantica. E poi trovai questi studi, usati per dischi jazz o da Serge Gainsbourg e Johnny Halliday. Usano ancora equipaggiamenti degli anni 60 e 70 con cui è impossibile sbagliare. Nick, dopo aver visto lo studio, disse: ‘Fantastico. È vecchio e malmesso, proprio come noi'”.
Questa, in sintesi, la storia dietro Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus. Una storia che vede rinascere i Bad Seeds come formidabile macchina musicale, dai tempi di The Boatman’s Call un po’ in secondo piano, e soprattutto li vede superare ottimamente il trauma dell’abbandono di Bargeld. Ma naturalmente, dentro, c’è molto di più. C’è la storia di un autore che oggi, ma lo si intuiva ormai da anni, almeno dai tempi di Murder Ballads se si eccettua il mezzo passo falso di Nocturama, potrebbe essere il più significativo autore rock vivente. Anche dischi importanti e ricchi di spunti come The Rising di Bruce Springsteen o Love And Theft di Bob Dylan, per non dire delle ultime produzioni di Leonard Cohen, Van Morrison o Neil Young (cioè i cosiddetti “poeti rock”), sembrano sparire davanti alla bellezza possente di Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus. Oggi forse solo la Patti Smith del recente Trampin’ può guardare a Nick Cave a testa alta, senza doverla abbassare. O il Lou Reed di The Raven, Magic And Loss e New York, perché in mezzo non è che ci sia qualcosa di altrettanto memorabile neanche per lui.
È un percorso, quello che ha portato l’australiano a questi vertici, cominciato ai tempi di Murder Ballads. Non che prima non avesse scritto almeno una manciata di irripetibili capolavori, tutt’altro; possono i Bob Dylan e gli altri personaggi citati prima, guardando a quanto da loro inciso negli ultimi vent’anni, pensare di competere con un songbook che elenca brani come Straight To You, The Mercy Seat, Nobody’s Baby Now, Do You Love Me?, The Whipping Song o The Ship Song, solo per citarne qualcuno? Onestamente e con tutto l’affetto diciamo di no.
Ma c’è un concetto, soprattutto, che non si può bypassare, che è emerso in modo evidente appunto a partire da Murder Ballads e da The Boatman’s Call, che è essenziale per capire chi è oggi Nick Cave. È il concetto di una “nuova” Canzone d’Amore, così come la spiega lui stesso: “Io credo che la Canzone d’Amore debba essere una canzone triste. È il rumore del dolore stesso, è il desiderio di essere trasportati dall’oscurità alla luce, di essere toccati dalla mano di Colui che non è di questo mondo. La Canzone d’Amore è la luce di Dio, giù nel profondo, che si fa largo tra le nostre ferite. Alla fine la Canzone d’Amore esiste per riempire, con il linguaggio, il silenzio tra noi stessi e Dio, per abbattere la distanza tra il temporale e il divino. Per parte mia, io sono un acchiappa-anime per conto di Dio”.
Quello, cioè, che i ‘poeti rock’, sempre quelli di prima, avevano un tempo fatto così bene, in dischi epocali come Blonde On Blonde, Born To Run, Astral Weeks, After The Gold Rush e tanti altri.
Da anni Nick Cave sta scrivendo una immensa, poderosa e terrificante Canzone d’Amore. “Benché la Canzone d’Amore”, aggunge Nick Cave, “si manifesti in forme diverse – esaltazione e preghiera, rabbia, e disperazione, canzoni erotiche e di abbandono – tutte si rivolgono a Dio, perché è la casa stregata dal desiderio nella quale abita la vera Canzone d’Amore.”
Non ci interessa sapere quanto profonda e di che tipo sia la devozione di Nick verso Dio, che ovviamente è assai importante per l’australiano da diversi anni (come lo è per Patti Smith, non a caso.), come testimonia il suo iniziale interesse, verso la metà degli anni 80 dapprima per il Vecchio Testamento (“Vi trovai la voce di Dio, ed era brutale, geloso, spietato. Per ogni pensiero pieno di rabbia che nutrivo su di me e sul mondo ne trovavo uno equivalente che dalle pagine del Vecchio Testamento balzava fuori mostrando i denti”), poi per il Nuovo, passaggi che hanno decisamente influenzato il suo approccio alla scrittura.
Ci interessa di più vedere come l’artista sappia declinare tutto ciò in una forma-canzone di una potenza e di un fascino unico. L’uso del linguaggio, che sebbene si rifaccia agli esempi più nobili della letteratura inglese arrivando fino a Shakespeare (la rivalutazione del linguaggio colto che Cave fece ai tempi di Murder Ballads è assolutamente imprescindibile, vero esempio di poesia applicato alla musica), è sempre capace di essere diretto e anche umoristico, vedi quanto accade nel recente disco: solo Nick Cave può mettere insieme, nella stessa canzone, il poeta John Willmot, lo scrittore Nabokov, San Giovanni della Croce e Johnny Thunders.
Il nuovo doppio cd è in fondo una unica grande canzone d’amore, declinata nei modi più diversi (addirittura nell’esplicitarsi di un rapporto omosessuale, come sembra suggerire il brano Easy Money), nella preghiera alla Musa che si faccia presente (in There She Goes, My Beautiful World), nell’idealizzazione di un rapporto amoroso perfetto e quindi di per sé irraggiungibile con mani d’uomo (Nature Boy), nella saga iconoclasta di Orfeo (The Lyre Of Orpheus), in quella che potrebbe essere la sua dedica funebre a Johnny Cash (Let The Bells Ring).
E poi c’è l’amore struggente per un mondo incamminato sulla strada di un suicidio collettivo, ché Nick Cave non dimentica le tragedie che dal settembre 2001 si accaniscono sempre più verso l’umanità, disseminando qua e là quasi in ogni canzone versi significativi (“Ogni cosa si sta dissolvendo, baby (…) / Il cielo è in fiamme, i morti sono ammucchiati per tutta la terra”; “Tutto sta crollando, cara / È tutto sbagliato / (…) Ogni senso della morale è collassato / È solo la storia che ripete sé stessa”; “C’è una guerra che sta arrivando”).
C’è, naturalmente, l’amore verso un Dio che sembra sfuggire gli uomini ma che ugualmente viene invocato con disarmante certezza nella potenza apocalittica di Get Ready For Love, in Breathless, in Hiding All Away, in O Children.
È un viaggio sconquassante, come solo il miglior Nick Cave può offrire, dentro la coscienza tormentata dell’uomo contemporaneo, ma proprio come il miglior Nick Cave, esso può offrire consolazione e forza (“Sappiamo tutti che c’è una legge / E quella legge è l’amore”; tutta la conclusiva, gioiosa O Children: “Ehi trenino! Stiamo tutti saltando / Sul treno che va verso il Regno / Siamo felici mamma, ci stiamo divertendo / E il treno non ha ancora lasciato la stazione”). È un gospel, quello che emerge da questo disco, che sembra quasi bestemmiare il nome di Dio, tanto è il desiderio che quel Dio si faccia presente, nell’accoppiamento osceno tra la purezza appunto dei cori gospel e il canto irriverente di Cave e dei suoi accompagnatori, un matrimonio blasfemo tra il blues (l’essenza da sempre della musica dell’australiano) e appunto il gospel. Ma è un matrimonio del tutto riuscito.
È il grande buco nero dell’anima dell’uomo che Nick Cave prova a riempire. Proprio come scriveva qualche anno fa: “Nella sua brillante lezione intitolata ‘La teoria e funzione del Duende’, Federico Garcìa Lorca tenta di fare un po’ di luce sulla strana e inesplicabile tristezza che vive nel cuore di certe opere d’arte. ‘Tutto quello che ha suoni oscuri ha duende’, dice, ‘questa forza misteriosa che ciascuno sente ma che nessun filosofo può spiegare.’ Nel rock contemporaneo, l’area in cui io opero, la musica sembra essere meno incline ad avere nella propria anima, irrequieta e fremente, la tristezza di cui parlava Lorca. Eccitazione, spesso; collera, a volte, ma la vera tristezza, raramente. Bob Dylan ce l’ha sempre. Leonard Cohen non si occupa d’altro. Essa perseguita Van Morrison come un cane nero e, per quanto lui ci provi, non può sfuggirle. Tom Waits e Neil Young possono chiamarla a raccolta. I miei amici Dirty Three ne hanno in quantità ma, dopo tutto, sembra quasi che il duende sia troppo fragile per sopravvivere alla frenetica modernità dell’industria musicale” (da La vita segreta della canzone d’amore; Tutte le canzoni, Mondadori, Strade Blu, 2003).
Aveva ragione, Nick Cave, quando alcuni anni fa disse: “Mio padre mi chiese che cosa avessi fatto per aiutare l’umanità e a 12 anni non avevo saputo rispondere. Adesso lo so. Come Cristo, anch’io vengo nel nome di mio padre, per mantenere vivo Dio”.