Michael Stipe è sulle spine. Entra nella sala riunioni di un elegante hotel milanese posando la tracolla rossa con un fare che trasmette ansia e impazienza. I R.E.M. sono in Italia per promuovere Around The Sun, il nuovo lavoro col quale il gruppo di Athens fa un altro passo per aggiudicarsi il primato della band ‘alternativa’ più popolare del rock contemporaneo.
Abbigliamento casual ma curato, con una manciata di talismani in bella mostra sulla camicia aperta, Stipe non perde tempo in convenevoli. “L’avete sentito il disco almeno una volta? Che ne pensate?” Una chiacchierata con Stipe equivale a una seduta psicanalitica al contrario: qualunque idea ti sia fatta su qualunque aspetto della sua musica il cantante è pronto a ridiscuterle tutte. Ti spiazza. Trasforma le tue domande in qualcos’altro. Il suo tono di voce non supera il sussurro, ma la convinzione è una roccia. “Non è un disco facile”, attacca subito Stipe. “Non si coglie al primo ascolto. Per questo album ho scritto più canzoni di quanto abbia mai fatto. Non sono prolifico, non lo sono mai stato, ma questa volta ho scritto circa venti pezzi e ne ho buttati via un altro po’. Forse solo da questo si può capire quanto è valido.”
Around The Sun, la title-track, è un pezzo che, nelle parole dei suoi autori, “trasuda ottimismo”. Versi di tradizione gospel e un finale sospeso nel vuoto che spazza via gli oscuri presentimenti su un mondo cattivo di Final Straw o I Wanted To Be Wrong. Stipe si dichiara disgustato rispetto alla politica del suo Paese ma conferma che il disco è centrato sulla ricerca di una vita migliore. “Per me uno dei temi che percorre tutto l’album è l’idea dello spostarsi da un posto a un altro. Si tratta di personaggi che si muovono in avanti, cercando di cambiare la propria vita in positivo, di abbandonare la situazione in cui si trovano per qualcosa di meglio. Leaving New York (il primo singolo, nda) è letterale in questo senso: quando l’ho scritta ero davvero su un aereo, e guardavo New York scomparire mentre volavo via. Make It All Ok parla di qualcuno che è come bloccato in una situazione e si libera per andare da qualche altra parte. Posso dire che il tema del disco sia l’ascensione intesa in senso sociale, politico, culturale o delle relazioni personali.” L’ascensione, come Stipe la chiama, dà anche il titolo alla penultima traccia, The Ascent Of Man, invocazione soul in cui il cantante esercita le sue rime surreali accoppiando la “ascesa dell’uomo” a un “catamarano” e fa risuonare un vocabolario che fa persino eco ai misteri della cabala.
Dal canto suo, Mills, che di Stipe è il contraltare loquace e solare, si arrabatta a modo suo per trovare un significato per il titolo dell’album. “Un disco coglie il modo di essere di un gruppo dal momento in cui si cominciano a scrivere le canzoni a quando si finisce il missaggio. E ci vogliono uno o due anni. Il succo, per quanto mi riguarda, è che siamo insieme su questo pianeta e tutto ciò che facciamo è stare qui ‘attorno al sole’. Nei nostri dischi facciamo in modo che il suono sia trattato come emozione. Per questo il disco preferisce giocare con atmosfere luminose e anch’io scelgo più spesso di suonare il basso nella sezione mediana. Vorremmo che chi ascolta si sentisse come risollevato. Anche nel pezzo che sembra il più oscuro, c’è una svolta ottimista che ci aspetta dietro l’angolo. Sono tempi difficili ma cerchiamo di mantenere la fede.”
La sensazione è che il proposito potrebbe giocarsi anche a un altro livello: rilanciare la band come uno degli ultimi bastioni del rock alternativo della galassia sempre che i dati di vendita siano d’accordo. Peter Buck, il chitarrista che sognava di fare il critico rock, affronta le cose di petto. Ci chiede se siamo abbastanza svegli visto che oggi è lunedì e “i lunedì, si sa, sono sempre un po’ duri”. Buck è l’uomo che dovrebbe cercare di far quadrare il cerchio. È lui a giustificarsi per aver definito un anno fa il futuro Around The Sun un disco rock. “Mentre finivamo le canzoni sembrava che i pezzi che costituivano il cuore del disco – Final Straw, I Wanted To Be Wrong, Around The Sun – fossero più riflessivi e tranquilli. Quando abbiamo finito i pezzi rock ci siamo detti: forse questo non è l’anno giusto. Con ciò vorrei che il prossimo disco fosse un disco rock quindi adesso andremo in tour entro una settimana e lavoreremo al prossimo album durante il tour, provando nei soundcheck e registrandoli e chi lo sa cosa verrà fuori.”
Come gli ultimi esperimenti discografici del gruppo dopo l’abbandono di Bill Berry, Around The Sun sembra incline a indagare territori futuribili che prendono il volo su tappeti formati da un mix equilibrato di elettronica e chitarre filtrate attraverso sintetizzatori. Nel caso di esperimenti come Electron Blue, forse il pezzo più audace rispetto all’eredità dei dischi classici dei R.E.M., la parte strumentale diventa talmente iconica da suggerire il gioco di parole del titolo, e l’eco della voce rimanda un blu algido e spettrale. Certo è che lo “shock da tempi moderni” indotto da esperimenti come The Outsiders (il pezzo che ospita in coda il rapper Q-Tip) potrebbe colpire qualche ignaro ascoltatore considerato che i R.E.M. hanno evidentemente deciso di saltare su un treno ad altissima velocità. Around The Sun vive di episodi destinati alla collisione se non fossero abilmente teletrasportati in un’atmosfera impalpabile fatta di tastiere sognanti ripescate da Brian Eno e una magnificenza sonora da favola disneyana revisionata per i tempi di Star Wars ultima versione.
Ancora una volta, insomma, Stipe e soci cavalcano un’onda pericolosa, una che persino alcuni fan di vecchia data guardano con sospetto: i vecchi R.E.M. dalle andature byrdsiane e il piglio da revisionisti del rock ormai non esistono praticamente più. I R.E.M., al contrario, si dedicano ormai sistematicamente a un vulcanico rivolgimento delle trame tessute in oltre vent’anni di carriera, a parte il fatto che non sanno dove tutto questo potrebbe portarli.
D’altronde, come recita il testo, secondo Stipe autobiografico, di I Wanted To Be Wrong, “la mitologia può sedurti / e mi ha giocato un brutto scherzo / che ho cominciato a capire solo adesso”.
Rispetto alla propria, di mitologia, il cantante è pronto a mettere i puntini sulle i. Ride divertito quando lo si definisce uno scrittore più lineare rispetto al passato (“Se vuoi l’impressionismo leggi la seconda metà del secondo verso di Leaving New York perché non si può essere più impressionista di così. Non so nemmeno da dove sia venuta”) e si affretta a distanziare sé stesso dai messaggi contenuti nel disco. Insomma, non è davvero lui che confessa: “Sono una persona qualunque / con una storia come tutti / ma vedo che sei sorpreso” (Electron Blue). “L’errore sta nell’identificare l’io del testo con la mia persona. Non sono mai io. Ci sono autori che scrivono da una prospettiva autobiografica ma non è il mio caso. Non ho mai riferito di esperienze personali nei miei testi, se così fosse l’avrei detto. Ci sono due pezzi su questo disco che, l’ho capito dopo, vengono da un punto di vista molto privato. Comunque non mi sono messo lì a scriverli, non avevo bisogno di scriverli. Sono semplicemente venute fuori da dentro e mi hanno colpito come hanno colpito anche gli altri. Final Straw e I Wanted To Be Wrong sono storie vere e proprie. In quei pezzi c’è sicuramente una parte di me il che mi ha sorpreso molto, ma ho scelto di non modificarli e lasciare che restassero quello che erano.”
I due pezzi sono non a caso accomunati dalla tematica: entrambi alludono, in un modo questa volta decisamente meno surreale, alle vicende della guerra in Iraq.
Buck, quello che tra i R.E.M. meno si nasconde tra le mezze parole, conferma. “Final Straw l’abbiamo scritta e registrata la settimana in cui sono iniziati i bombardamenti in Iraq (fu messa allora on line, ndr). Si tratta di far capire che c’è gente là fuori che si sta chiedendo che succede e perché. Qualcosa a cui ancora non so rispondere.” Final Straw è l’obiezione sollevata, il perdono che lascia il posto alla vendetta. Ma solo per un istante. Poteva benissimo essere la personale Masters Of War dei R.E.M., salvo che non si può dire che i R.E.M. siano né “troppo giovani”, né “troppo poco saggi” per non sapere come dovrebbe andare a finire. Sono i R.E.M. ad aver creato Vote For Change (la sottolineatura è di Stipe che non ci sta a fare la parte del gregario), il tour negli stati ‘altalena’, quelli ancora incerti sul candidato presidenziale da votare alle prossime elezioni di novembre per sostenere il democratico John Kerry, ma come dice Buck “anche se falliremo e Bush sarà rieletto sarebbe già un successo se porteremo più gente a votare. In America dei votanti registrati meno della metà votano per il presidente e meno di un terzo votano per le comunali. Poi ci sono anche quelli che non si registrano. Più gente vota, migliori saranno i risultati, specialmente quando assisti a un’elezione decisa da 300 schede”. In certi casi, come in quello di Fahrenheit 9/11, il discusso film di Michael Moore, la lotta assume, secondo Stipe, dimensioni epiche. “Il film di Michael Moore è propaganda, ma è come Davide e Golia. Lui è Davide, mentre Golia sono i media statunitensi che in questi quattro anni hanno semplicemente permesso a questa amministrazione di fare quello che vuole.”
Per quanto li riguarda, dice Mills, c’è una cosa su cui i R.E.M. ancora litigano: il missaggio. “Quello è sempre una parte difficile. Per il resto abbiamo dovuto sacrificare qualche pezzo tra i nostri favoriti. Alcune le suoneremo dal vivo, come I’m Gonna DJ, una cosa piuttosto ironica. È stata scritta sui disordini del WTO a Seattle ma era troppo leggera per questo disco.” Appena nomini Fascinating, chiacchieratissima ballata ‘cosmica’ rimasta fuori dal precedente Reveal, gli occhi gli si illuminano. “Quella era la mia preferita su Reveal, ma era troppo lunga e troppo lenta per includerla nel disco e lo stesso per On The Fly ma a quel punto avremmo avuto un disco da settanta minuti e non era possibile.”
Per Mills la parabola dei R.E.M. è simile a quella di un serpente: vagabondare in una direzione, svoltare l’angolo, cogliere qualcosa qua e là e fuggire via. Around The Sun sembra aderire a quella che il bassista chiama la “poetica degli spazi vuoti”, la bellezza del silenzio. Stipe, per parte sua, la definisce “la voce dell’inconscio”. Il viaggio dei R.E.M. prosegue così veloce che Stipe è costretto a chiedere al mondo di “stare lì” ad aspettarlo, in un finale che ricorda l’illuminazione del ragazzo sordo, muto e cieco degli Who di Tommy. “Quando scrivo”, sottolinea il cantante, “non penso assolutamente a niente. Ed è quello il momento in cui tiro fuori le cose migliori. La mia parte razionale è troppo scaltra, ma non intelligente abbastanza perché ha scritto canzoni per troppo tempo.”
Razionale o no, i R.E.M. sanno perfettamente che per cogliere il mondo in movimento occorre percorrerlo tutto. Da ottobre ad aprile 2005 saranno in giro per tutto il mondo conosciuto, compresi Sud Africa e Giappone. In Italia toccheranno Milano e Bolzano in gennaio. E porteranno con sé gente così diversa come Angela McCluskey, Joseph Arthur e Five Eight, gente che Buck non smette di ascoltare nel suo i-Pod tra una trasferta e l’altra. “In Italia abbiamo un sacco di amici e fan e ci sentiamo come a casa”, ribadisce il chitarrista. “Abbiamo suonato grandi concerti qui. Quello del ’99 a Bologna fu fantastico, il pubblico conosceva a memoria tutte le canzoni. In questo tour abbiamo il nuovo disco e poi suoneremo i nostri vecchi hit, le richieste dei fan e cambieremo scaletta ogni sera.”
Mills assicura che i nuovi pezzi non faranno fatica a traslarsi nella dimensione live, come il gruppo ha sperimentato in un concerto per 200 fortunati alla St. James Church, nel pieno centro di Londra, lo scorso settembre. Come in un vecchio musical anni 50 basterà un piccolo cenno o una battuta e, se anche non riusciremo a pronunciare parola, i R.E.M. ci affascineranno di nuovo.