Quando scende dal tour bus, Caleb Followill ha tutta l’aria di chi si è appena svegliato: “Dove siamo oggi?”, chiede al road manager. “Torino, Italy.” La routine della vita on the road non è certo una novità per i fratelli Followill, e non stupisce che Caleb accolga la notizia con malcelato disinteresse. Sbadiglia, saluta i pochi presenti e scompare all’interno del club dove la sera stessa i Kings terranno l’unica data italiana del tour di Aha Shake Heartbreak, che li porterà rapidamente attraverso l’Europa prima di stabilirsi per tutto il mese di dicembre nel Regno Unito. In Inghilterra, infatti, la band americana gode di un seguito caloroso e, lo scorso novembre, dopo una sola settimana nei negozi, il gruppo aveva già esordito nelle chart al terzo posto, con poco meno di 60mila copie vendute. Non a caso, l’album è stato pubblicato ora in Europa, mentre arriverà nei negozi statunitensi solo a febbraio.
Poche ore dopo i Kings si presentano al completo all’incontro con la stampa, consapevoli che, ancora una volta, la maggior parte delle domande verterà sul loro look vintage, sulla loro adolescenza errante e sul presunto revival del southern rock. Dal canto loro, i KOL sanno di avere il coltello dalla parte del manico e hanno imparato a sfruttare la situazione a proprio vantaggio: il tono delle risposte è sempre in bilico tra lo schietto, l’evasivo e il sarcastico; inoltre, sono convinti che la bontà del nuovo materiale permetterà loro di scrollarsi di dosso una volta per tutte l’etichetta di enfant prodige dal profondo Sud.
“So perché abbiamo avuto successo”, osserva con distacco Nathan, il batterista, “perché siamo tre fratelli, perché nostro padre era un predicatore e perché siamo cresciuti per strada. Siamo perfettamente consci che all’inizio si è parlato di noi più per la nostra storia personale che per i nostri meriti musicali.”
“Non vorrei risultare arrogante”, aggiunge Jared, il bassista, “ma sono convinto che con Aha Shake Heartbreak abbiamo dimostrato di essere una band in crescita, più sicura di sé e di certo più matura.”
“Quando abbiamo cominciato a comporre le nuove canzoni, il nostro principale obbiettivo era quello di non sentirci limitati dall’etichetta che ci avevano dato”, conclude Caleb.
Facciamo un passo indietro, allora. La storia dovrebbe essere nota: i fratelli Followill sono nati e cresciuti nel Sud degli States, girovagando al seguito del padre Leon, un predicatore che alza troppo il gomito e le mani; cominciano a suonare in chiesa per accompagnare le funzioni religiose, ma è ascoltando i dischi degli Stones che si fanno le ossa. Sembrerebbe di essere alle prese con un racconto di Carver, ma non è così. È innegabile che, nell’odierno panorama musicale omologante e omologato, uno spunto biografico tanto singolare abbia esercitato una certa suggestione sulla stampa; è altrettanto vero, però, che il rischio della semplificazione è sempre dietro l’angolo (specialmente quando la parola new rock’n’roll è sulla bocca di tutti). E così, quando nel 2003 la band pubblica il disco d’esordio Youth And Young Manhood, le frange e i baffi 70’s del gruppo spingono molti a scomodare i Lynyrd Skynyrd come termine di paragone. “Tra tutti i generi musicali caratteristici del Sud degli States, il southern rock è quello da cui ci sentiamo meno influenzati e che ci piace di meno: è talmente una brutta immagine pensare ad un gruppo che non sa far altro che cantare del fottuto Sud”, dice laconicamente Caleb. In effetti, l’orizzonte musicale della band è fortemente imbevuto di blues e classic rock, ma non solo; qualora poi si volesse recitare il ruolo del filologo del southern rock, si dovrebbero citare i primi Black Oak Arkansas – per l’irruenza, il timbro e lo stile vocale di Followill – invece di Lynyrd o Allman Brothers. “E dedichiamo al nostro aspetto molto meno tempo di quanto pensi la gente”, puntualizza stizzito. “È nostra madre a cucirci i pantaloni e tagliarci i capelli.”
Per la cronaca, ora i baffi sono spariti. Sempre per la cronaca, il gruppo ha messo a buon frutto l’anno passato, trascorso sui palchi europei e americani, e ha acquisito una maggiore confidenza con gli strumenti; impressione che troverà conferma anche nel concerto torinese, nonostante la durata, come da copione, molto breve. “È vero”, conferma Caleb, “oggi ci sentiamo molto più a nostro agio come band, sia in studio che dal vivo. Quando abbiamo registrato Youth And Young Manhood a stento sapevamo padroneggiare i nostri strumenti, ora siamo più sicuri di noi stessi e, credo, anche molto più versatili; se vogliamo suonare una canzone in uno stile differente dall’etichetta che ci hanno cucito addosso, lo facciamo, punto e basta.”
A ben guardare, Aha Shake Heartbreak sembra essere proprio il tentativo della band di sfuggire al destino degli esordienti che ripetono all’infinito la formula che ha riscosso il gradimento del pubblico, pur senza avere il coraggio o la possibilità di discostarsene completamente; nel nuovo album, infatti, trovano spazio ancora delle ruvidissime tirate in odore di garage come Pistols Of Fire, Razz e Four Kicks. “Probabilmente Four Kicks sarà il prossimo singolo. Molti, alla casa discografica, volevano che fosse il primo, ci chiedevano qualcosa di molto veloce e duro, ma noi volevamo qualcosa che la gente non si sarebbe aspettato. Nella fattispecie, addirittura avevo suggerito che fosse una b-side”, spiega Caleb. La scelta è così caduta su The Bucket, un brano meno immediato ma decisamente più melodico e orecchiabile.
In generale, dopo più ascolti è possibile notare come, rispetto a Youth And Young Manhood, in Aha Shake Heartbreak la matrice rock-blues d’annata sia più sfumata e che i KOL provino a conquistare l’ascoltatore creando atmosfere più varie anche all’interno dello stesso brano; merito anche dello sforzo vocale del cantante che, in tracce come Milk, Day Old Blues e Rememo, riesce a modulare il suo caratteristico rauco lamento perché sia adatto a liriche più ermetiche e introspettive che in passato. Infatti, nel precedente lavoro la maggior parte dei protagonisti dei brani erano gli emarginati stravaganti, grotteschi e perversi con cui aveva avuto a che fare la famiglia Followill nel corso della propria formazione e a cui Caleb dava voce per esprimere la sua inquietudine e il proprio disagio esistenziale. Ora invece i ritratti di quest’umanità derelitta lasciano spesso e volentieri il posto a uno sguardo rivolto verso sé stesso e la propria condizione: nonostante, o forse proprio a causa della celebrità raggiunta (“Le ragazze ameranno il modo con cui scuoto i capelli / I ragazzi odieranno il mio aspetto”), Followill teme di esporsi eccessivamente e preferisce dichiarare che le sue canzoni parlano solo di risse, alcol e sesso. Può darsi. Eppure in ogni brano fanno capolino accenni alle sue vicende umane e sentimentali e quanto esse siano ora condizionate dalla sua popolarità.
“Milk è una canzone molto sentita e personale. A dire il vero tutte le canzoni dell’album lo sono, ma questa lo è in modo particolare. È uno dei ultimi brani che abbiamo registrato, anche se Matthew aveva scritto da tempo le parti di chitarra; una sera ero davvero sbronzo e ho cominciato a cantare da solo in una stanza d’albergo. Gli altri hanno trovato quella melodia emozionante, e quindi l’abbiamo incisa immediatamente. Posso dire solo che il testo riguarda una ragazza che frequentavo, ma non voglio aggiungere altro.”
Così come altro non aggiunge quando gli si fa notare che il testo di Rememo sembra affrontare lo stesso argomento da una prospettiva più cinica (“Vedo le verginelle che ridono nervose e mi squadrano / Cercano di mettere assieme qualcosa da dire / Tanto non importerebbe lo stesso”). Invece dietro alla Taper Jean Girl del brano omonimo, confessa, si cela una cantante con cui i Kings hanno suonato dal vivo, ma ragioni di opportunità lo spingono a trincerarsi dietro a un deciso “no comment”, visto quanto il ritratto della suddetta ragazza sia impietoso nella sua crudezza. E così, sbrigate in fretta le formalità promozionali, i quattro possono ritirarsi in attesa del concerto.
Concerto che, come detto, da un lato conferma una certa crescita della band dal punto di vista strettamente tecnico (i brani del vecchio repertorio sono presentati anche con una lieve propensione all’improvvisazione, come la conclusiva Trani; diverso è il discorso per le nuove canzoni, che hanno ancora bisogno di essere rodate e levigate dal vivo), tanto quanto le indiscutibili doti vocali e di frontman dal sicuro appeal di Caleb. Dall’altro, spiace constatare che i Kings Of Leon sotto i riflettori indugino proprio in quegli atteggiamenti preconfezionati da cui, nel privato, dicono di sentirsi distanti. Un esempio su tutti? L’uscita di scena frettolosa, dopo cinquanta minuti d’orologio e altre tre canzoni ancora in scaletta, con chitarra e microfono buttati per terra ad arte per impressionare le giovani fan delle prime file.
Che si tratti della contraddizione di fondo di tante nuove leve del rock, l’avvertire la vacuità e la fuggevolezza della sovraesposizione mediatica senza riuscire a farne a meno? Senza falsi moralismi, c’è ancora chi crede che il rock’n’roll, qualunque esso sia oggi, possa essere una forma di scambio e di comunicazione (relativamente) genuina, oltre che una colonna sonora delle proprie emozioni; altri credono che sia un piacevole passatempo. Per altri ancora è evidentemente un affare remunerativo.