22/03/2007

Il ritorno dei Queen

Il Re è morto. Viva il Re. Non fa una grinza. Men che meno se, anziché di un Re, si tratta di una Regina. Non una qualsiasi, per giunta. La più elegante, nobile e lussuriosa sovrana che la scena musicale britannica abbia mai conosciuto. Quel 24 novembre 1991, giorno in cui l’incedere regale di Freddie Mercury si interruppe improvvisamente a causa del flagello del secolo, a rendere omaggio alla sua magnificenza furono davvero in tanti. Nessuno, nemmeno tra i detrattori più acerrimi delle schiere glam, si sognò di criticare l’uomo che aveva dimostrato di saper passare dalle sonorità hard di Sheer Heart Attack ai vocalizzi operistici di Bohemian Rhapsody, dileggiandosi inoltre con la pseudo dance di Another One Bites The Dust.

Eppure c’era un’altra lezione con cui fare i conti. L’aveva ricordata lo stesso Freddie in chiusura dell’album che più del postumo Made In Heaven rappresenta il suo testamento artistico, ovvero Innuendo (febbraio 1991): The Show Must Go On.

Lo spettacolo deve continuare. Una dinastia regale che si rispetti non può conoscere interruzione nella sua discendenza. Sta scritto nella storia e le sette note non fanno eccezione. Quante band, anche di successo, hanno conosciuto dei cambiamenti di line up, in fondo? La musica non deve fermarsi. La magia non va lasciata svanire. Eppure quando a Mercury cadde di mano lo scettro nessuno si sentì di raccoglierlo. Nessuno.

Non solo l’eredità artistica lasciata da Farookh Bulsara (il vero nome del leader dei Queen, nato su un’isola dell’arcipelago di Zanzibar) era spropositata ma non esisteva nemmeno qualcuno che si sentisse in grado di ricevere legittimamente il lascito umano di Freddie. Facile capire come una prova del genere facesse tremare i polsi. In fondo chi poteva dirsi in grado di padroneggiare, dall’alto del palco, le folle oceaniche sudamericane, di mandare in visibilio il pubblico di Budapest (così poco avvezzo a quella malattia occidentale chiamata rock) e di sbeffeggiare giornalisti e discografici usando come liana, a mo’ di novello Tarzan, il lampadario del salone noleggiato per il party di lancio di un nuovo lp?

Nessuno. A dire il vero, qualche voce di una ripresa delle attività della premiata ditta Queen, negli anni che seguirono la scomparsa di Freddie, si udì. Riguardava il possibile arruolamento di George Michael nel ruolo di frontman. Non se ne fece molto, però. A dirla tutta, non si capì nemmeno quanta verità ci fosse in quell’illazione. Anche perché la situazione era tutt’altro che semplice da comporre. Non solo occorreva individuare un sostituto per colui che era impossibile da rimpiazzare ma si poneva anche un altro problema. Se a Brian May e Roger Taylor il virus delle sette note era rimasto in circolo non si poteva dire altrettanto per John Deacon. Conclusa l’avventura pressoché trentennale dei Queen appese il basso al chiodo e si rifugiò nella sua fattoria di campagna.

Nonostante tutto il sistema (inteso come connubio letale di stampa specializzata e industria musicale) che tanto odiò la band capitanata da Freddie quando era sulla cresta dell’onda si accorse ben presto che gli era difficile farne a meno. Un’esigenza corroborata anche dalla sete di musica degli ex compagni. Troppi, nel mondo, i fan orfani di quel suono, di quell’immagine, di quell’idea. Troppe le persone pronte ad assiepare di nuovo stadi e palazzetti, per cantare all’unisono gli inni di una generazione, come We Are The Champions o Friends Will Be Friends. Troppe, sia dal punto di vista affettivo sia da quello del marketing, per fare finta di niente. Così, lasciato il fascicolo Queen in archivio per un tempo sufficiente da non insultare la memoria di Mercury, tornare sulla strada con il nome scolpito indelebilmente nei cuori di milioni di persone divenne una ipotesi verosimile. Non si sa se a tale risultato contribuì maggiormente il successo del musical We Will Rock You, o se fu galeotta quella serata in cui Brian May si esibì sul tetto di Buckingham Palace per il Giubileo della Regina, né se la scintilla scoccò in occasione del Pavarotti & Friends del 2003, fatto sta che l’idea di un nuovo tour, sul far di quest’anno, smise di essere tabù.

Con il cuore in pace quanto all’impossibilità di recuperare Deacon, i due ex compagni di Freddie si misero al lavoro sull’anello fondamentale della catena. La soluzione, per quanto non facile, si palesò a Brian May quando, lo scorso settembre, si unì all’allegra brigata (che tra gli altri aveva annoverato pure David Gilmour e Ronnie Wood) del Fender Concert alla Wembley Arena. In quell’occasione il riccioluto chitarrista comprese che Paul Rodgers, già cantante dei Bad Company e dei Free, faceva alla causa perseguita da lui e Roger Taylor. Nacque così, in poco tempo, il progetto di uno tour primaverile di quasi trenta date (la lista sembra destinata ad allungarsi) attraverso tutta Europa (e con prologo in Sud Africa) che toccherà, proprio nei primi giorni di questo mese, anche l’Italia e, più precisamente, Roma, Milano, Firenze e Pesaro.

Ripartire con solo il nome Queen sulle locandine, però, sarebbe stato eccessivo, un boccone troppo difficile da trangugiare, sia per gli appassionati di rock sia per i fan più intransigenti. Ecco quindi che la line up delle serate prevede il duo May-Taylor (titolare del premiato marchio di fabbrica), al quale si unirà, per le parti vocali che furono di Mercury, Rodgers (che attingerà anche dal suo repertorio personale). Un amalgama forse eterogeneo, ma che non ha mancato di riaccendere l’entusiasmo nel popolo dei Queen, a giudicare dalla vera e propria caccia al biglietto scatenatasi in tutti i Paesi attraversati dal tour e dalla velocità dei sold out della maggior parte delle serate.

Al di là dell’accoglienza in termini di partecipazione, quale sarà, però, l’esperienza emotiva di chi assisterà a quei concerti? Posto che il vuoto lasciato da Mercury è incolmabile, sapranno Rodgers e gli ex compagni di colui che chiudeva le sue esibizioni con mantello e corona rivelarsi all’altezza della situazione?

Brian May, in una recente intervista, non lascia spazio a dubbi, soffermandosi sulla genuinità della soluzione trovata. Secondo il chitarrista il tour non potrà che riuscire perché “non è mai stato pianificato. Negli ultimi tempi mi sono concentrato esclusivamente sul musical We Will Rock You. Poi di recente mi hanno invitato al Fender Festival e per pura coincidenza ho suonato con Paul Rodgers. Ho spedito una cassetta della serata a Roger Taylor, che ne è rimasto affascinato. Qualche settimana dopo sia noi Queen che Paul Rodgers avremmo dovuto suonare alla Hall Of Fame di Londra. Abbiamo allora pensato che valesse veramente la pena provarci e improvvisamente si è creata una alchimia e ci siamo accorti che molto deve ancora accadere. In questo momento il nostro tour è superato nelle vendite dei biglietti solo dagli U2. Speravo di poter muovere un po’ di gente ma il fatto che abbiamo esaurito le più grandi sale d’Europa in un tempo record è quantomeno incredibile”.

Alle obiezioni di chi osserva come, con l’assenza di due componenti su quattro della formazione originale l’utilizzo del nome Queen possa rivelarsi pretestuoso, May ribatte con altrettanta fermezza: “È Queen perché Roger Taylor e io siamo i Queen. Il nostro principale intento è suonare della grande musica. Sappiamo che con Paul Rodgers possiamo regalare dell’ottimo rock, qualcosa che manca dalle scene da molto tempo. E i critici dovrebbero rispettare questo, viste le cifre di prenotazione dei biglietti che i fan ci hanno riservato.” Quanto alle parti vocali, nel confermare che sarà Rodgers a farsi carico del lavoro di Mercury, l’uomo che costruì la Red Special con le sue mani sottolinea comunque che “parteciperemo sia io che Roger alle parti vocali. E occasionalmente si sentirà anche la voce di Freddie”. A quanto pare ci saranno proiezioni di video di Mercury e si sentirà la sua voce in alcune occasioni.

Riguardo al repertorio delle serate la risposta agli interrogativi dei curiosi non è delle più consuete. Alla domanda “quali canzoni non vedi l’ora di suonare?”, Brian ha infatti risposto “All Right Now e Can’t Get Enough Of Your Love e altre grandi canzoni di Paul Rodgers. Essere in grado di suonare questi pezzi della sua carriera è un vero piacere. Sarà più eccitante che suonare le nostre canzoni. Ma ora, grazie a Paul, ho scoperto nuovamente tanti brani dei Queen. E anche Freddie non è stato mai così vicino a me come negli ultimi giorni”.

Qualche perplessità in più riguarda l’inserimento in scaletta di Bohemian Rhapsody, considerata (a ragione, peraltro) il manifesto vocal-concettuale di Mercury: “È veramente una decisione difficile che non abbiamo ancora preso. Questo perché è troppo figlia di Freddie. Così Paul dovrà decidere se vorrà cantarla o meno. Fortunatamente però abbiamo più di una canzone di successo. La cosa più complicata di questo tour non è cosa suonare ma bensì cosa lasciare fuori! Faremo comunque decisamente più materiale dei Queen che dei Free o dei Bad Company”.

Dal canto suo il nuovo acquisto la butta sulla prudenza, specie per quanto riguarda la parte che sarà chiamato a interpretare: “La sola cosa che posso pensare al riguardo, senza sentirmi completamente intimidito, è che non sto rimpiazzando Freddie. Mi presenterò solo per eseguire la musica che amo, con grandi musicisti. Ancor prima che ci mettessimo d’accordo per fare questo tour ho dovuto accettare che nessuno avrebbe mai potuto rimpiazzare Freddie. Non farò parte dei Queen. Farò un tour con i ragazzi (Brian e Roger) e se tutto andrà bene, riprenderemo da lì. Abbiamo parlato di scrivere e registrare insieme. Ma faremo il tour e vedremo se funziona. Tutto ciò che faremo è seguire il feeling”.

Una lucida coscienza, quella di Rodgers, che riguarda anche le differenze, e i punti in comune tra lui e l’indimenticato frontman. “Abbiamo radici differenti. Il mio background è molto più grintoso di quello di Freddie. Le mie radici musicali affondano nella musica blues e soul. Mercury era molto legato alla tradizione dello showman, molto appariscente e teatrale. Se abbiamo qualcosa in comune è l’abilità di saper tenere il palco e il pubblico e di cantare insieme a loro. E poi i Queen erano l’ultima vera live band e io ho sempre pensato a me stesso come a un cantante da concerto. Quindi questo è un ottimo punto in comune che avevamo.”

Una certa somiglianza, dicono gli osservatori più attenti, si riscontra comunque nello sfondo sul quale si muovevano le band in cui hanno militato i due cantanti, leggi esagerazioni e abitudini smodate. Di fronte alla richiesta di un parere, Paul conferma senza misteri: “Sono consapevole che i Queen hanno vissuto in gran parte gli anni 70 e interamente gli anni 80. Tutti i gruppi lo hanno fatto. Nei Free e nei Bad Company, abbiamo avuto tutti gli eccessi possibili. A quel tempo era davvero divertente. Pensavamo di espandere le nostre menti. Le droghe erano una scorciatoia verso l’illuminazione o almeno così credevamo. Poi la gente ha cominciato a morire. Improvvisamente diventò tutto così serio. Un’intera generazione si svegliò e realizzò che prendere tonnellate di droga non era così fico come pensavamo. L’alcol e le droghe causarono terribili danni. Specialmente nei Bad Company, quando girava un sacco di cocaina”.

L’ex Free non rinuncia poi a dire la sua sul brano dei Queen che avrebbe sempre sognato di comporre, ovvero We Will Rock You: “Per me ha tutte le qualità di un classico del rock. Ha ritmo e ti prende completamente. È una di quelle canzoni che avvolgono tutti quanti, è una cosa magica. Non sono probabilmente il miglior giudice ma niente che io abbia mai scritto si avvicina alla potenza di We Will Rock You. Nemmeno All Right Now.”

Di contro Paul ammette che non vorrebbe trovarsi a cantare I’m Going Slightly Mad, perché “la amo, ma non penso che potrei cantarla. Forse è troppo ironica per me. Per affrontare un brano del genere, probabilmente dovrei sciogliermi un po’.” Idee assolutamente chiare, poi, anche sul look con cui salirà sul palco. Al bando, per motivi di buon gusto e di opportunità (ma anche di assenza del phsyique du rôle) qualsiasi imitazione sgualcita, estetica o gestuale di Mercury, vedi vestiti attillati e scarpette da ballo, o un bel paio di calzoncini corti. “Penso che sembrerei orribile vestito così. Molti di noi lo sarebbero. Freddie poteva farlo, e Dio lo benedica per questo! Ma no, non scimmiotterò il look di Freddie, comunque. Non copierò i suoi baffi. Andrò sul palco facendo le cose che so fare.”

A fianco del trio May, Taylor, Rodgers, i fan avranno la possibilità di vedere all’opera il bassista Danny Miranda (in passato alla corte dei Blue Öyster Cult), il tastierista Spike Edney e il secondo chitarrista Jaime Moses. Tutti e tre hanno (o hanno avuto) qualcosa a che fare con i Queen. Miranda, ad esempio, è stato al basso nella versione andata in scena a Las Vegas del musical We Will Rock You, Moses ha accompagnato il gruppo nel concerto alla British Music Hall Of Fame (ed è un componente della Brian May Band), mentre Edney è un vecchio amico della band. Elementi che non fanno che amplificare le curiosità quanto alla reazione del pubblico al nuovo tour. Il capitolo finale dei Queen, o una nuova era per la band che ha iniziato a lavorare nel 1971?

L’ultima parola in merito, com’è giusto che sia, spetta a Brian May: “Questo tour non sarà il nostro addio. Questo tour non segna la fine della saga Queen, anzi è un nuovo inizio. La partnership con Paul Rodgers apre così tante porte per noi, porte rimaste chiude per troppo tempo. Ci saranno altri concerti, anche negli Stati Uniti, dove non suoniamo dal 1982. E potrebbe esserci della nuova musica anche con Paul Rodgers e forse suoneremo qualcuna di queste nuove canzoni in queste serate.”

Il Re è morto. Viva il Re. Il tour ci dirà se, grazie al fiuto per il successo maturato in una carriera quasi trentennale, Brian May e Roger Taylor hanno scovato quantomeno un Principe, un pretendente alla corona degno di tale nome.

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