In febbraio è salita sul palco del Wintergrass Bluegrass Festival formando un inedito e garrulo trio con Maria Muldaur e Laurie Lewis sotto il nome di Bluebirds. Ha da poco pubblicato l’antologia Jardin Azul: Las canciones favoritas, dedicata alla tradizione popolare messicana, proprio nei giorni in cui ha dato alle stampe il suo nuovo album ufficiale, Hummin’ By Myself (vedo JAM 113), in cui rilegge con calore alcuni standard del jazz e classici di Tin Pan Alley accompagnata da superassi come Christian McBride e David “Fathead” Newman.
Chi ama etichettare e categorizzare gli artisti si troverà spiazzato nell’incanalare in questo o quel genere Linda Ronstadt, da sempre definita una delle cantantiregine della country music. Eppure Linda, con la forza personalizzatrice del suo canto dal fraseggio mobile e circospetto, dai toni plastici e dai toni raffinati senza dimenticare le screziature ruspanti del suo linguaggio, si muove liberamente e anarchicamente nell’universo sonoro della musica popolare americana. Partendo dal country, negli anni 70 ha portato sulla scena la sua poetica singolare e schiettamente popolaresca, tracimando anche nel pop classicheggiante al fianco di Nelson Riddle e affrontando persino l’opera con La Boheme e The Pirates Of Penzance. Dagli esordi con gli Stone Poneys ai Grammy, dalle grandi collaborazioni con Dolly Parton, Emmylou Harris o Johnny Cash alla riscoperta del jazz, abbiamo cercato di capire con lei i suoi continui viaggi artistici e culturali.
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Chi è in realtà Linda Ronstadt?
Una cantante, una interprete che mette il cuore in tutto ciò che fa. Qualcuno dice che sono una star ma il mio percorso è solo all’inizio; sono alla continua ricerca di stimoli, di emozioni da trasmettere al pubblico sotto forma di canzone.
Sei partita da lontano con gli Stone Poneys.
Eravamo ragazzi ma con le idee chiare. Il nostro obiettivo era rinnovare i canoni classici della musica country seguendo le tracce di “outlaws” come Willie Nelson e Waylon Jennings, dare una nuova visione delle radici. Ma poi mi è sembrato un obiettivo troppo limitato e a cui si dedicavano troppi artisti; una specie di moda. I Byrds fecero la stessa cosa molti anni prima inventando il folk-rock; prima ancora c’era stato Johnny Cash e, andando ancora indietro Hank Williams. Tutti grandi innovatori: era impossibile confrontarsi con giganti come loro. Così ho continuato a scavare nella tradizione allargandomi a tutti gli estuari che formano il grande fiume della musica popolare americana.
Odio e amore per la musica country, mi sembra di capire.
La country music è la musica dei nostri padri fondatori, solo che ha molteplici radici. Molti quando sentono un valzer, un banjo o un mandolino dicono: questo è country. Ma il country è la musica degli Appalachi, quella dei creoli, l’operetta leggera di New Orleans, le ballate che parlano di vita quotidiana, di gioia, dolore, morte e che sono la versione bianca del blues. Poi c’è l’industria del country, che spesso tira fuori buona musica, ma non è certo quella di chi ha costruito l’America. Io non mi sono mai definita una cantante country, ma una donna che canta la tradizione.
Però nel tuo repertorio ci sono anche tanti motivetti facili.
Scrivere canzoni semplici e orecchiabili non è un reato: l’importante è lo spirito.
Lo spirito che ti ha portato al jazz con Hummin’ To Myself?
Qui in America è nato tutto dal blues, dal jazz e dalla ballata. In questo cd ho cercato di mettere insieme questi tre elementi. Avrei potuto fare un album più blues, più ruvido – e forse in futuro lo farò – ma stavolta ho puntato sull’eleganza, sulla melodia, su brani senza tempo come Miss Otis Regrets, Blue Prelude, Day Dream. Ho già cantato con l’orchestra, ho già affrontato il jazz, ma non mi sono mai esibita con una band così matura e completa. Christian McBride è stato una rivelazione, un vero leader, mi ha insegnato ad affrontare il jazz in modo spontaneo. Queste canzoni hanno il pregio della semplicità anche se gli arrangiamenti sono molto curati e hanno uno stile da musica da camera. David “Fathead” Newman è un gigante del sax, nel suo sound c’è tutta la sensualità che metteva nei pezzi di Ray Charles. In Hummin’ To Myself c’è un buon equilibrio tra classe e sensualità.
Lavori molto sulla voce, studi e ti eserciti?
La voce deve viaggiare libera ed essere legata alle emozioni. Studiando canto si rischia di irrigidirsi in uno schema e di non essere più originali. Mi esercito tutti i giorni ma a modo mio, magari sperimentando o cantando vecchi blues e antiche ballate.
Quali sono i tuoi punti di riferimento artistici?
Potremmo parlarne per ore. La mia idea fissa è sempre stata l’originalità; vorrei che la mia voce fosse caratteristica e personale. Per questo non ho mai ascoltato troppo le grandi voci femminili, per paura di rimanere intrappolata dal loro fascino. Poi potrei fare centinaia di nomi che mi hanno influenzato: da Uncle Dave Macon al già citato Hank Williams passando per George Jones. I miei genitori hanno origini tedesche e messicane, così sin da piccola ho imparato ad amare il folklore tex-mex e l’opera. Linguaggi apparentemente diversissimi tra loro ma con tanti punti in comune.
Cioè?
Le arie d’opera hanno influenzato la ballata angloamericana. È importante cogliere i riferimenti. C’è la canzone popolare, figlia della old time music, che è per sua natura sgraziata, ruvida, nervosa, anarchica nell’incedere, e quella che ha preso spunto nelle sue evoluzioni vocali dal bel canto, adattandolo e trasformandolo in ballata popolare.
Non ami le voci femminili, ma canti e incidi con Emmylou Harris e Dolly Parton.
Quelle sono amiche. Credo che Emmylou sia la miglior voce in circolazione. Anche il suo ultimo disco è fatto di stupende canzoni molto originali e fuori dall’orbita strettamente country. Ha una voce chiara e potente come non ne ho mai sentite e può affrontare con agilità qualunque repertorio. Dolly è un mito, rappresenta i valori tradizionali ma non beceri dell’America.
Anche tu ti sei schierata, come tanti artisti, contro Bush: ti senti sconfitta?
Il mondo è in una situazione terribile. Noi possiamo dare una mano, cercare di toccare le coscienze con la musica.
Oggi i media ci stanno portando al disastro culturale. La tv è inguardabile, la radio trasmette solo porcherie: almeno la radio negli anni 50 e 60 era un punto di riferimento per gli appassionati di musica. Oggi si ascoltano cose che difficilmente si possono definire canzoni.
Tu sei nota anche per le tue collaborazioni illustri, quali ricordi con più affetto?
Non vorrei fare torto a nessuno. Ma alcune hanno segnato la mia anima. Che emozione ripensare a Harvest, quando duettavo con Neil Young in Old Man. Neil è un uomo chiuso ma dolcissimo con gli amici e le persone che ama: mi ha insegnato molto. Un altro personaggio cui sono molto vicina, per la sua incredibile sensibilità è James Taylor. Oggi si parla tanto di contaminazioni: grandissimi contaminatori di stili furono i ragazzi della Nitty Gritty Dirt Band. Che miscela di bluegrass, country-rock, folk, rock… Con loro ricordo Hey Good Looking di Hank Williams, registrata su Dream in versione western swing. E per ultimo voglio citare i concerti con Johnny Cash: il suo carisma inchiodava tutti. Un uomo che ha vissuto sulla strada, è precipitato all’inferno e poi è tornato per essere d’esempio a tutti.
E adesso quale altra svolta prepari?
Ora farò tantissimi concerti, e intanto comincerò a lavorare ad un nuovo album sulla musica della Louisiana. Musica creola, un pizzico di jazz, ma soprattutto cajun e zydeco. Sto già facendo concerti con Ann Savoy, una splendida cantante francofona che dà nome all’omonima band.