Se andate sul sito ufficiale di Massimo Priviero (www.priviero.com), nella sezione Download, troverete, oltre ad alcune canzoni, un video: “Little Steven parla della registrazione di Nessuna resa mai”. Ecco che salta fuori, con il suo abituale look da pirata, il chitarrista “fratello di sangue” di Bruce Springsteen, che nel suo inglese marcatamente “italiota” che sembra uscire da un film di Martin Scorsese (o meglio: da una puntata dei Soprano) racconta della sua esperienza come produttore del citato disco di Priviero, uscito nel 1990.
Erano altri tempi: il cantautore, alquanto infelicemente lanciato come “il futuro del rock italiano” un paio di anni prima, non era ancora stato superato a destra da più o meno bene intenzionati nuovi esponenti della scena musicale e poteva permettersi di andare in studio con un personaggio come Little Steven. Non crediamo che questi si sia messo in un’operazione che non aveva precedenti nella scena musicale italiana per chissà quale budget. Piuttosto crediamo l’abbia fatto perché credeva veramente nel valore di questo ragazzo che, dalla lontana Jesolo, era sbarcato a Milano in cerca di fortuna. “Ci capita ancora ogni tanto di sentirci e di incrociarci in qualche occasione” dice di lui Priviero. “Non è solo un gran musicista, ma un uomo che con la musica ha saputo schierarsi e combattere per le cose e i valori in cui crede, senza paura di dire quel che ha dentro né di farsi qualche nemico in più. In questo senso, quindi, anche nel significato e nel valore che ancora oggi può avere la musica dentro ai tempi che viviamo, continuiamo ad essere molto vicini”.
In qualunque modo sia andata poi la strada di Massimo Priviero (noi – comunque – non siamo tra quelli che giudicano il valore di un musicista sulla base dei dischi venduti), quella produzione di Little Steven resta a sigillo di garanzia sulla bontà di un percorso musicale.
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Dolce resistenza (vedi recensione su JAM 131) è il disco della maturità per un artista che ha aperto la strada a molte star che oggi riempiono gli stadi con apparente tranquillità. Non è facile, con una carriera ventennale alle spalle, riuscire ancora a comunicare una tale forza espressiva: “È un album spaccato in due, molto in chiaroscuro” dice Priviero. “Le canzoni acustiche stanno diventando per me sempre più importanti, insieme al bisogno di cercare e di ‘afferrare’ poesia. In qualche modo è anche tornare da dove la mia vita musicale è iniziata e credo che queste canzoni disegnino quello che sarà il mio futuro prossimo. L’attenzione nello scrivere è diversa, il tuo stesso vocabolario si allarga, come le storie che puoi raccontare. Scrivere da cantautore è molto più semplice che scrivere rock, questo a meno che tu non decida di scrivere rock limitandoti a cercare slogan o usando un linguaggio da bar, ma non è mai stato il mio mestiere né lo sarà mai. Ovviamente cerco di caricare anche la parte acustica di tutta la forza che riesco a trovare, per esempio spingendo e scavando sulla voce, mescolando sempre rock, folk e blues… Nello stesso tempo credo che il mio cammino mi riporterà presto alla formula chitarra-voce-armonica e cioè mi riporterà là dove tanti anni fa la mia vita è partita”.
Già in passato (vedi il brano Nikolajevka nel disco Testimone) Massimo Priviero si era cimentato con il tema dei soldati italiani mandati a morire in Russia durante la Seconda guerra mondiale. Nel nuovo disco, complice l’ispirazione dello scrittore Nuto Revelli, questo tema si è fatto ancora più evidente, e risalta in quelli che sono i due brani più belli, La strada del Davai (il cui titolo riprende quello di un libro di Revelli) e Pane giustizia e libertà: “Nuto Revelli è stato alpino in Russia, poi partigiano e in seguito grande scrittore e memorialista. Un uomo che ha vissuto in maniera splendidamente coerente. Amo la storia, tanti anni fa ho anche interrotto per un po’ la mia vicenda musicale per portare a compimento una laurea in storia contemporanea. Conoscere la strada che hai fatto e ricordare di chi sei figlio può darti le chiavi per capire il presente, ricordare e soprattutto non dimenticare. Significa alla fine avere dentro di te dei valori e un bisogno di conoscenza che danno valore alla tua esistenza e che magari ti fanno scavalcare il conformismo e l’idiozia imperanti. Uno scrittore come Revelli questo lo sapeva e lo scriveva benissimo. Questo io provo a farlo con la musica, con quel che scrivo, con le storie che racconto, che suono e che canto”.
C’è poi la ripresa in chiave decisamente rock del classico di Luigi Tenco Ciao amore ciao, con le liriche originali che il cantautore suicida non incise mai, in cui si citano, anche qui, soldati mandati in guerra: “Tenco è stato un grande musicista e un grande poeta. Il testo originario della canzone ha una forza e un’attualità incredibile. Per questo ho voluto rifarlo e riarrangiarlo con le mie chiavi di lettura. Luigi Tenco è stato un grande. In sua memoria sono state fatte nella musica italiana le cose più nefande a opera di pennivendoli che a distanza di decenni separano ancora il testo dalla musica, rimbambiti incapaci di distinguere un rutto da una nota di basso ma che godono nel sottolineare una allitterazione strana in una frase di qualche cantautore pseudominimalista. È per amore e in ricordo di un grande musicista che ho voluto ‘spianare’ le chitarre e picchiare sulla mia voce. Non lo saprò mai, ovviamente, ma qualcosa mi dice che questa versione sarebbe piaciuta a Tenco”.
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La resistenza e la guerra di cui Priviero canta non sono solo quelle di sessant’anni fa, sono una condizione esistenziale tutt’ora non censurabile: “L’idea di resistenza è dentro la mia vita, ogni giorno, difendendo quello in cui credo. Si resiste a tante cose, anche alle porcherie e alla mafiosità che esiste per esempio nel mondo dello spettacolo, della musica, di certa comunicazione. Si resiste ai furbi. Quand’ero ragazzo un mio professore di latino mi diceva ‘non dimenticarti mai che la parola furbo viene dal latino fur, e che questa parola vuol dire ladro…’. Mai stato furbo in vita mia”.
Due brani in particolare lasciano qualche domanda irrisolta. Il primo è senz’altro Italia libera: “Non c’è più bell’aggettivo al mondo, per me, che si accompagni alla parola Italia… Non c’è valore più grande. Non c’è parola più bella da cantare, magari anche con rabbia e amarezza. Il bisogno di libertà non si esaurisce. ‘Italia libera’ è un chiodo che attacchi al muro al mattino, dove vuoi appendere un quadro o un’idea che ti piace e che ogni tanto vuoi guardare, per respirare meglio”.
L’altro è Spari nel cielo, che sembra suggerire qualche riferimento al mondo post 11 settembre 2001: “Spari nel cielo è una canzone di ambientazione gospel, non è un caso che inizi solo con la voce. Il nostro continuo respingerci tra civiltà lontane o parallele ci lascia solo orizzonti dove riusciamo a malapena a scorgere spari nel cielo e questo riferimento non è tanto a un fatto più o meno cruento. Uno sparo nel cielo è un rumore sordo, che svanisce in breve, che non significa nulla se non un’impotenza a comprendersi. In questa canzone, credimi, c’è fondamentalmente molto bisogno di verità, c’è molto bisogno di aiuto. Probabilmente, in questa canzone c’è molto bisogno di Dio”.
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Per uno che ha intitolato un suo disco Rock in Italia, cosa vuol dire oggi fare rock in Italia? “Non so cosa voglia dire oggi fare rock in Italia. È una domanda che non mi faccio più da un sacco di tempo. Gli orizzonti, i confini, i modi musicali sono così indefiniti. Vedi vecchi e rinomati cantautori con la panza inforcare chitarre elettriche per poi passare a ritirare premi alla memoria di qualche artista scomparso, bamboloni cresciuti che inseguono slogan per le radio dei subnormali, vati conformisti dei centri sociali che declamano versi con allegata t-shirt del Che degni di uno scolaro incerto di terza media… Io non sono là. Non so cos’è il rock in Italia, vado per la mia strada, molto spesso perdo e la perdo, ma cerco di dirigerla verso quello in cui credo. E non è là”.
Sono passati quasi vent’anni da quando Massimo Priviero esordiva con San Valentino. Era il 1988 e gli anni 80 erano quasi finiti: “Era un periodo strano. Gli anni 80 non erano stati granché a livello musicale, ovviamente in paragone ai 60 e ai 70. Era un periodo in cui imperava molto l’immagine spesso a scapito dei contenuti. I modi della comunicazione stavano cambiando rapidamente. Ero un ragazzo cresciuto in fretta, che aveva girato l’Europa e che aveva la chitarra in mano, le sue canzoni in tasca e le sue storie da raccontare… Tutta la musica che ti girava intorno in quel periodo la vedevi, ti toccava ma lasciava pochi segni sulla pelle. La musica che contava era quella con cui eri cresciuto. Ma soprattutto era la tua”.
E che dischi rock ha ascoltato Priviero, recentemente, quali dischi sono ancora in grado di comunicare qualcosa? “Quando sei in studio a registrare le tue cose, almeno questo vale per me, cerchi di evitare di sentire quel che è uscito da poco. Ti posso dire tre grandi dischi, diversissimi tra loro e relativamente recenti. I Green Day di American Idiot, cioè come continuare a essere bravi figli dei Clash e riuscire a scrivere delle grandi canzoni; lo Springsteen delle Seeger Sessions, come fare un omaggio a un grande folksinger e allo stesso modo alla tua storia e alla tua terra; il Jackson Browne del disco dal vivo Solo Acoustic, come portare lo struggimento esistenziale della musica fino alla poesia”.