Esordisce con una bugia: “Non comprendo la mia fama d’autore di testi letterari. Dici che uso un linguaggio colto, che calo le canzoni in contesti ricercati. A me pare sia materia accessibile a qualunque bimbo di quinta elementare”. Studio l’espressione per capire se fa sul serio. Lui allarga le braccia e alza le sopracciglia come per dire che quel che afferma è evidente. Mi convinco che sì, fa sul serio e che forse la sua è solo una mezza bugia: l’altra metà è modestia.
Lui è Colin Meloy, cantante, chitarrista e soprattutto autore di canzoni, uno dei più brillanti emersi nell’ultimo decennio nella scena indipendente americana. Ha la faccia più rotonda di quella di Charlie Brown e una frangetta da secchione appiccicata alla fronte. Sul naso porta un paio d’occhiali da vista con la montatura spessa, da giovane intellettuale alternativo. Giovane è giovane: 32 anni. Negli ultimi sei ha scritto, inciso e pubblicato coi suoi Decemberists quattro album e una manciata di ep, accumulando uno stupefacente repertorio di canzoni che col mondo di un bambino hanno in comune giusto l’uso sfrenato della fantasia. Difficile che a uno studente di quinta elementare venga in mente di costruire una canzone attorno ai pensieri di uno studioso sovietico di botanica. Specie se il nostro studioso medita sulle ripercussioni dell’assedio di Leningrado sul raccolto e sull’economia.
La canzone esiste, s’intitola When The War Came ed è contenuta nel quarto album dei Decemberists, il favoloso The Crane Wife. Viene pubblicato in Italia il 19 gennaio. Vedrete, renderà ancora più solida la fama del quintetto campione del folk-pop americano, tanto più che è il primo della formazione ad essere promosso da una grossa etichetta, la Capitol del gruppo Emi, e non dalla minuscola e meritoria Kill Rock Stars. Si badi: When The War Came è solo una delle tante eccentricità del catalogo dei Decemberists, dove Meloy fa sfoggio della fantasia d’un piccolo Salgari mischiata a un senso dell’umorismo misurato, più britannico che americano. Perciò, che Colin ce la racconti giusta: la fama di compositore colto se la merita, punto.
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Qualcuno ha scritto che i Decemberists sono un anacronismo per via delle musiche, che affondano le radici nel folk americano e in quello europeo. Colin non s’offende: “Penso sia vero. Vuol dire che facciamo un tipo di musica che le radio oggigiorno non trasmettono. E poi i miei dischi preferiti sono sempre stati anacronistici rispetto ai loro tempi. Mi sono sempre piaciute le canzoni fuori moda. Se vivi a Portland, in mezzo alla natura, ti viene naturale suonare certa musica, come dire, bucolica”. Gli fa eco il batterista John Moen che gli siede a fianco: “Portland offre un alto grado di accessibilità alle cose”. Colin: “È una comunità. E non è pretenziosa. Negli ultimi tre anni, poi, c’è stata una rinascita della scena. Si sta rinvigorendo. È uno dei motivi per cui molta gente nota s’è trasferita in città: Shins, Frank Black, Modest Mouse, Kristin Hersh, Stephen Malkmus”.
Tra i tanti stili usati o appena sfiorati dal quintetto nel nuovo album e in quelli che lo precedono, molti hanno origine in Europa, dal folk-rock revival che si suonava nell’Inghilterra di fine anni 60 al progressive, fino a certe musiche popolari della parte orientale del continente. Essendo i Decemberists un collettivo più o meno aperto costruito attorno a Meloy, l’avvicendamento dei musicisti a fianco del leader spiega in parte l’evoluzione stilistica del gruppo. È evidente che col passare degli anni i Decemberists, pur mantenendosi fedeli al folk-rock elettro-acustico, hanno aggiunto alla loro tavolozza nuovi colori, raggiungendo un livello di sicurezza musicale impensabili ai tempi del primo album Castaways And Cutouts, maggio 2002. The Crane Wife, poi, ha qualcosa di più e qualcosa di meno del precedente Picaresque. Ha un suono più curato ed è eseguito con una perizia strumentale inedita per i Decemberists, ha un respiro strumentale che altri lavori della band, specie i primi, non avevano. Meloy canta in modo molto più sicuro rispetto all’intonazione incerta di un tempo. “Per una qualche ragione siamo migliorati come musicisti” commenta. “Forse erano le canzoni di Crane Wife a richiederlo. Avevamo più tempo e più soldi: Picaresque è costato 20 mila dollari, questo 170 mila, che per una major è una cifra tutto sommato contenuta”. Secondo John, “la differenza sta anche nel fatto che Crane Wife è stato registrato in un vero studio, mentre Picaresque è stato inciso in una chiesa dove è stato trasportato l’equipaggiamento”.
La cura del prodotto e i finanziamenti della Capitol non hanno fortunatamente spinto il gruppo a riempire le canzoni di suoni stipati come i supermercati la vigilia di Natale. È successo il contrario. “Una delle prime cose che ci ha detto Walla” spiega Colin riferendosi a uno dei due produttori, Chris Walla dei Death Cab For Cutie (l’altro è Tucker Martine) “è che voleva ridurre il numero di sovraincisioni di Picaresque. Ecco perché ti sembra che nel nuovo disco i suoni respirino, che abbiano aria attorno a sé”. The Crane Wife ha effettivamente una qualità in più rispetto agli altri dischi del gruppo di Portland. Se in quelli le parti strumentali erano i colori coi quali Meloy dipingeva il suo quadro, lasciando a un fiume di parole il compito di guidare il racconto, nel nuovo hanno una tale forza descrittiva da produrre una narrativa a sé stante. “Ho sempre considerato Picaresque la summa di tutto quel che erano i Decemberists. Eravamo arrivati nel luogo verso cui ci eravamo indirizzati coi primi due album. Di più e di meglio non potevamo fare. Era ora di provare qualcosa di differente”.
Pare che da qualche parte Meloy custodisca un intero musical, pronto per essere pubblicato. Ogni tanto dà sfogo alla sua creatività anche fuori dai Decemberists. Ha inciso un paio di ep di cover (Colin Meloy Sings Morrissey e Colin Meloy Sings Shirley Collins) e scritto un libro sull’album dei Replacements Let It Be. Nel febbraio del 2006 è pure diventato papà.
Ogni domanda sulla noia esistenziale della “generazione indie” è esclusa a priori.
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Due estati fa anni fa i Decemberists se ne vennero fuori con una canzone che non somigliava a nulla di ciò che avevano fatto in precedenza. The Tain copriva l’intero spazio di un ep ed era suddivisa in cinque sezioni. Il testo era la riduzione di un racconto mitologico irlandese, Táin Bó Cúailnge. Era una suite fatta e finita con cambi di atmosfera e sonorità. Evocava per varietà tematica e stilistica il rock progressivo degli anni 70 e presentava un modulo narrativo che Meloy iniziava a trovare sempre più interessante. Il primo seme di The Crane Wife era stato piantato. In verità, era il secondo. Il primo era stato gettato qualche anno prima, quando Colin aveva trovato in una libreria di Portland la copia di una vecchia fiaba giapponese per bambini. Un uomo trova vicino a casa una gru con una freccia conficcata in una zampa, la cura, la libera. Il giorno dopo all’uscio di casa si presenta una donna. I due s’innamorano e si sposano. I soldi scarseggiano e la moglie si offre di guadagnarne tessendo abiti. A un patto però: che il marito non la sbirci nella stanza in cui lei lavora. Finalmente i soldi entrano in casa, e in abbondanza. Più il marito diventa ricco e avido, più la moglie pare consumarsi fisicamente. Un giorno l’uomo cede alla tentazione, entra nella stanza proibita e scopre che la moglie è una gru e che i vestiti che tesse sono fatti con le sue piume. Sopraffatta dalla vergogna, la gru vola via. Per sempre.
“La fiaba ha una morale” ammette candidamente Meloy “solo non chiedermi qual è. Ha una molteplicità di elementi interessanti: il rimorso, l’amore, l’avidità, la curiosità. È una storia talmente antica che è pressoché impossibile stabilire che cosa volesse insegnare chi l’ha scritta. Il punto di svolta è quando lui guarda la moglie anche se lei gli aveva chiesto espressamente di non farlo. Il messaggio qual è?”. Si gira con aria interrogativa verso John. I due iniziano a ridacchiare. “Forse la morale è non spiare tua moglie? Non infrangere un voto? Non tradire la fiducia? Non invadere la privacy? O magari è un invito a mantenere privata la propria identità recondita? In ogni caso, il concetto base – non spiare la tua amata altrimenti si romperà l’incantesimo – proviene dal mito di Euripide e Orfeo”. Si dice, in quel mito greco, che Orfeo ebbe il permesso di strappare l’amata Euripide dal mondo dei morti grazie alla musica della sua lira. Ma a una condizione: non voltarsi a guardarla finché non fosse giunto a destinazione. Orfeo cede alla tentazione e perde l’amata. “È interessante” ragiona Meloy “come culture lontane migliaia di chilometri e di anni abbiano prodotto storie tanto simili nello spirito”.
Oltre a fornire il titolo all’intero album, la storia della moglie gru è una lunga canzone divisa in tre parti per un quarto d’ora di durata complessiva. Il disco si apre con l’epilogo, una ballata di desolante tristezza che dipinge l’uomo in preda al rimorso per non essersi accorto che la moglie si consumava letteralmente pur di renderlo ricco e felice. Qualche traccia più in là arrivano le prime due parti di The Crane Wife, il prequel dove si raccontano gli eventi chiave: parte come una ballata per chitarra acustica e violoncello e si trasforma in un folk-rock elettro-acustico orchestrato con gusto.
In altre canzoni del cd Meloy prende spunto da fatti storici o di cronaca. Di When The War Came dice l’autore che “è nata leggendo il libro di Elise Blackwell intitolato Hunger sull’assedio di Leningrado. Mi piaceva calarmi nei pensieri di un botanico. Solo in un secondo tempo la gente ha preso a dirmi: la canzone parla dell’Iraq, vero?”. Dietro a Shankill Butchers si cela la vicenda dei “macellai di Shankill”, un gruppo di irlandesi protestanti che negli anni 70 si dedicava all’omicidio sanguinolento dei nemici cattolici. “Mi sono imbattuto in questa vicenda leggendo un libro su Van Morrison – vedi che le mie canzoni non sono poi così alte? Gli omicidi iniziarono come rappresaglie di tipo religioso, diventarono massacri frutto di violenza cieca”. L’avvicinarsi del pericolo è reso dal gruppo con una ballata acustica al tempo stesso sinuosa e minacciosa, seducente e inquietante. “Mi affascinava il lato orrorifico e l’ineluttabilità della violenza, l’universalità dei sentimenti espressi”. Che poi è questo il punto: che canti dell’Unione Sovietica degli anni 40 o dell’Irlanda dei 70, del Giappone della notte dei tempi o della Guerra Civile americana, Meloy dipinge sentimenti e situazioni senza tempo e quindi potenzialmente rilevanti per i suoi contemporanei. Lo fa, specie in quest’album, mescolando tenerezza e tristezza, commedia e tragedia, avventura e romanticismo, l’esotico e il bizzarro. È esemplare il singolo O Valencia!, la vicenda di due novelli Romeo e Giulietta il cui amore è contrastato dalla famiglia di lei. Ovviamente finisce con una macchia di sangue sull’asfalto e una maledizione indirizzata all’intera città. “Cerco di tenere allenata la fantasia” commenta Meloy “leggendo libri, guardando film, vivendo. Non mi considero un grande osservatore. Tendo anzi a ignorare molti dettagli. Mi interessa raccontare il succo della storia e a volte rischio di prendere cantonate su date e fatti storici. Sono un cantastorie, non un professore universitario. Sono uno studente delle elementari”. Uno studente ossessionato da un immaginario vetusto. Tutto ciò che è moderno è bandito dalle canzoni dei Decemberists: ci sono sciabole e baionette, non mitragliatrici; galeoni, non aeroplani. C’è un immaginario fiabesco tradotto in immagini dai disegni della moglie di Meloy, Carson Ellis. C’è un gusto narrativo e un vocabolario che non sono di questi tempi. “Credo che tutto quanto abbia avuto inizio con My Mother Was A Chinese Trapeze Artist” racconta il cantante. Il brano è contenuto nell’ep del 2003 intitolato 5 Songs, che per la cronaca si chiudeva con la migliore canzone della storia dedicata al furto di una bicicletta (The Apology Song). L’attacco è puro Meloy: “Mia madre era una trapezista cinese nella Parigi prebellica, contrabbandava bombe per i partigiani. Incontrò mia padre a una festa a Aix-en-Provence. Lui era travestito da cadetto russo e lavorava per l’Asse”. Da lì è stato tutt’un florilegio di personaggi eccentrici, una galleria di singolarità la cui bizzarria è immancabilmente mitigata dal senso dell’umorismo (stiamo parlando di un gruppo che ha eletto l’Orangina a propria bibita ufficiale): la madre di famiglia che di notte va al porto costretta a soddisfare le voglie dei marinai, imbavagliata; la povera Leslie Anne Levine, nata alle 9 e morta a mezzanotte, che ci parla dall’aldilà; Eli il venditore ambulante; il legionario che nel mezzo di un qualche deserto pensa alla gaia Parigi; uno spazzacamino orfano; soldati della Prima guerra mondiale con tendenze omosessuali; l’impiegato del governo che per amore sottrae dall’ufficio documenti riservati; lo sportivo che deve affrontare una brutta caduta; e naturalmente due marinai intrappolati nel ventre di una balena e il dialogo romantico tra l’anca e la gamba della fidanzata di Meloy. E altre canzoni, un sacco di canzoni sulle navi e sul mare e sui marinai, una vera ossessione. Nell’ultimo disco il tema torna nella suite The Island, storia di pirati, violenza e abuso sessuale raccontata con una lingua inglese d’altri tempi. “Sono queste le cose che mi affascinano” commenta il cantante. “Forse è per via della mia passione per il vecchio folk, per Broadside e la musica del XIX secolo, per le ballate che parlano di guerre napoleoniche. Il mondo dipinto dal folk è un mondo antico. E credo di avere attinto da esso il mio tipo di linguaggio e il mio approccio”.
In questo viavai di personaggi inventati, veri, verosimili, ne sfugge uno: Colin Meloy. “Io? Non sono un tipo interessante. Non trovo stimolante scrivere del mio piccolo mondo, non ci posso spremere molta materia. Preferisco cantare di personaggi differenti da me, immaginarmi calato in situazioni di fantasia. Mi piace occuparmi di storie dal valore universale, di archetipi. Ecco, voglio lavorare con gli archetipi, non m’interessa esprimere emozioni”.