I Fatti di rock di Ernesto Razzano
Round Midnight pubblica il saggio sulle ‘storie elettriche’ dell’autore campano
Ci sono uomini di musica e uomini dentro la musica. Ernesto Razzano è uno di questi ultimi. Storico organizzatore di concerti, voce radiofonica, docente di storia del rock e firma dei magazine L’Isola della musica italiana e L’Indiependente, l’autore beneventano torna in libreria dopo il suo romanzo Firenze lo sai, debuttando come saggista con Fatti di Rock (Round Midnight Edizioni). Lo incontriamo in occasione della imminente uscita.
Hai dedicato questo nuovissimo libro al “popolo del rock”. A settant’anni dalla nascita di questa musica, il suo popolo ha ancora riferimenti, abitudini, stili?
Il rock è stato tante cose insieme, a volte ha contenuto in sé anche degli estremi opposti, penso a come è stato strumento di propaganda della cultura americana soprattutto nel dopoguerra diventando anche industria discografica (e in parte cinematografica) ma al tempo stesso una voce potenzialmente ribelle di una generazione nuova, come gli adolescenti, che debuttavano nel mondo allargando quella fascia di mezzo tra l’essere bambino e l’essere adulto. I teen-agers dal mercato furono individuati come un target a cui vendere questa nuova musica ma allo stesso tempo questa nuova musica conteneva germi di ribellione e cambiamento che attecchiva rapidamente. Ad esempio il rock ’n’roll era un ballo che non per forza doveva essere un ballo di coppia, per non parlare delle allusioni sessuali o di critica alla società esistente, insomma un cambio di costume dove i jukebox nei bar e in seguito i live club e ancor di più i concerti crearono nuovi spazi di aggregazione. Oggi sicuramente si è affievolito quello spirito collettivo e di condivisione, credo resti ancora qualche sintomo di ribellione attraverso il rock, anche se sempre di più in forma individuale, complice anche tutta la trasformazione avvenuta nel tempo nel mondo della musica.
Fatti di rock è una sequenza di saggi, divisi in “profili” e “storie”. Ci presenti la struttura dell’opera?
Mi sono reso conto scrivendo di storia della musica che in realtà scrivevo fondamentalmente di storia e probabilmente grazie alla formazione “storica” di studi che ho, ho cominciato a fare collegamenti, a inquadrare i vari periodi non solo attraverso le vicende musicali, ma anche sociali e politiche, provando a creare un contesto, una cornice, in cui inserire poi gli eventi o i personaggi che ho trattato, per cui nel racconto dei “profili”, le esistenze di giovani, talvolta giovanissimi musicisti, che provano a diventare artisti o rockstar, si inseriscono in un quadro che prova ad andare alle origini della loro esistenza, delle loro scelte, come esseri umani che incontrano l’arte o la musica. Questo andare alle radici mi ha spinto quasi naturalmente a spingermi anche alle origini di alcuni generi musicali, quindi ai pionieri che hanno tracciato le prime rotte. In altri casi invece ho associato questo metodo alle “storie”, cioè ad alcuni eventi o momenti che allo stesso modo sono stati decisivi nel creare la storia della musica rock del Novecento, soprattutto americana e inglese. Alla fine abbastanza naturalmente ho diviso il libro in due parti, i “profili” con quindici piccoli capitoli e le “storie” con dieci, a cui ho aggiunto una colonna sonora consigliata che ricorda le canzoni che hanno a che fare con le vicende narrate.
Nei profili, accanto a giganti come John Lennon, Syd Barrett, George Harrison e Jim Morrison ci sono anche vicende legate ad altro tipo di personaggi. Penso ai “beautiful losers” come Terry Reid e Nick Drake. La storia del rock sarebbe stata la stessa anche senza questi personaggi?
A fine anni Sessanta credo che la massiccia esplosione del rock psichedelico, delle band in particolare, abbia penalizzato, soprattutto in Gran Bretagna, i cantautori che trovavano meno spazio, per esempio nelle programmazioni radiofoniche o perché snobbati o poco considerati. Tuttavia credo che la loro presenza sia stata decisiva nel tempo perché fortunatamente la loro musica poi ci resta. Penso a come è cresciuto negli anni il “culto” di Nick Drake fino ai giorni nostri o a come spero si possa scoprire ancora di più Terry Reid. Credo anche che caratterialmente bisognava essere pronti a quel sistema che si faceva music business e che creava le prime figure di rockstar, con delle pressioni enormi, in molti casi su ragazzi che non avevano neanche trent’anni e per i cantautori in Inghilterra forse era un po’ più complesso. In America invece molti cantautori erano parte di un sistema di protesta sociale e di lotte per i diritti che spesso li portava a essere meno “soli” nel loro percorso.
Hai dato una certa attenzione a figure seminali come Sister Rosetta Tharpe e Robert Johnson. Che debito ha il rock con queste personalità?
Credo che a loro vada riconosciuto il coraggio che hanno avuto al pari del talento che hanno dimostrato. Stiamo parlando di periodi storici in cui bisognava garantirsi innanzitutto la sopravvivenza, lottando contro la povertà e il razzismo, spesso il maschilismo, e mentre si affrontava quotidianamente questa lotta si aveva anche la forza di suonare, sperimentare, innovare e addirittura in alcuni casi mettere le fondamenta della futura musica rock. In questa cerchia essenziale ci metterei anche Woody Guthrie e figure a lui molto simili anche se distanti geograficamente come Victor Jara e Violeta Parra, quest’ultima ancora poco considerata nella sua interezza umana e artistica.
Bel Air, Seattle, Watts, Belfast. Il rock ha anche la sua storia di luoghi e città, dove ha incontrato la Storia del Novecento. Le vicende del secolo scorso quanto devono alla cultura pop?
La seconda metà del Novecento, specie dagli anni Sessanta, diventa una società anche mediatica, televisioni soprattutto, ma anche cinema e musica cominciano ad accorciare ancora di più le distanze favorendo il protagonismo delle nuove generazioni, si manifesta e si lotta per i diritti di tutti, anche di chi è dall’altra parte del mondo. Alcuni fatti della storia della musica rock hanno a che vedere con la storia in generale e per questo la guerra in Irlanda è parte della vita di una generazione di artisti che non potrà non raccontarla nelle proprie canzoni, Wattstax è un festival legato a doppio filo agli scontri razziali di Los Angeles. In generale certa musica è anche il frutto di un conflitto sociale unito a una ricerca esistenziale. Pensiamo alle lotte per i diritti della generazione dei Sessanta, ma anche alla ricerca di protagonismo (antisistema) del punk, o della ricerca di un rifugio esistenziale del grunge.
Le città del rock. un tema a te caro. Pensi esistano ancora le “scene” oppure anche il rapporto tra musica e città è dissolto?
Non credo si sia dissolto, certamente si è complicato. In positivo mi viene in mente la recente scena di Dublino capeggiata da qualche anno dai Fontaines D.C., ma magari ce ne sono anche di più nascoste (o al di fuori del recinto del rock) fuori dai soliti confini europei o americani, spesso unico parametro per valutare lo stato di salute della musica. È certo che gli sviluppi tecnologici degli ultimi trenta anni in campo musicale hanno trasformato velocemente il panorama. Quella rete virtuale che inizialmente univa efficacemente sensibilità musicali distanti ha riempito le camerette e svuotato i locali o i punti di incontro “fisici” in cui tanti musicisti si trovavano per mettere su band e immaginare un futuro sui palchi. Ma è anche vero che ogni generazione ha la sua musica e dunque anche i suoi mondi da cui magari ne nasceranno altri nel prossimo periodo, altrettanto prolifici. Le città vivono grosse trasformazioni che pure incidono su spazi e tempi della cultura e dunque anche della musica, che non è separata dal tutto.
Sei docente di storia del rock all’Accademia Lizard di Benevento ma anche un avido lettore di testi musicali. Secondo te com’è lo stato di salute della saggistica rock in questo periodo?
Credo che ci siano tanti testi molto utili e interessanti che ricostruiscono periodi storici relativamente vicini, approfondendo gli ultimi cinquanta o trenta anni. Credo però che mancano analisi e approfondimenti sul presente, ci vorrebbe un maggiore interesse in questo senso, perché credo che non valga più il detto che “la tecnologia è neutra e dipende come si usa”. Nel caso dell’arte o della musica non credo ora sia più così. Se da una parte è normale che la storia difficilmente prova a racconta il presente (questo non solo nella musica), è altrettanto urgente accelerare certe riflessioni per come accelera la realtà. Anche la stampa musicale, non solo la saggistica, potrebbe farsi maggiormente carico di questo aspetto, resistendo alla spasmodica ricerca del clickbait.