22/01/2025

I muri del suono: il nuovo libro di John N. Martin

Tsunami pubblica uno splendido testo sui luoghi che hanno cambiato il rock

 

Un ex musicista, esperto di rock progressivo, e storico dei movimenti antagonisti, non può prescindere dai luoghi. Dalle geografie, dai panorami, dalle scene. Dagli ambienti in cui si fanno le piccole e grandi storie. John N. Martin, dopo aver raccontato vicende di nomadismo urbano, avventure di assalti al cielo, squarci di utopie a 33 giri, pubblica con Tsunami il suo nuovo libro, I muri del suono. Viaggio nei luoghi che hanno cambiato il rock. Approfondiamo con lui alcuni aspetti di questo saggio, nel quale l’autore attraversa città, studi, locali e anche chiese.

 

Il rock ‘n’ roll nacque nei Sun Studios di Memphis, e uno degli ultimi eventi legati alla cultura rock è stata la tragedia del Bataclan a Parigi. In entrambi i casi, due luoghi. Quanto sono stati decisivi i luoghi per la nascita, l’affermazione e anche la morte del rock?

Prima di risponderti, preciso che il rock non è mai morto (per cui diffida di chi ti ha passato questa informazione), mentre il Bataclan e la Manchester Arena furono due tragedie causate dall’esecrabile fanatismo di pochi invasati e dal loro modo sbagliato di fare la rivoluzione. Non c’entrano con il mio libro. Il rock è una cultura costruttiva, non distruttiva. E anche quando sembra che lo sia, è perché sa che rinascerà dalle proprie ceneri. Come accadde col Punk e con tutti i suoi figli legittimi e illegittimi. E qui chiudo una premessa che volevo fosse chiara.

Dove nacque poi il rock’n’roll? Chissà. Dai primi demo di Elvis? Dalla cucina di Little Richard? Dalla culla di Chuck Berry? Io ho preso come riferimento la sua prima hit mondiale, Rock Around The Clock, perché fece da traino a tutto il resto. Me lo ha confermato Frank Zappa e credo che anche The King sarebbe d’accordo.

Mi chiedi poi quanto siano stati decisivi i luoghi per la sua nascita. “Insostituibili”, direi. Perché un luogo non caratterizza solo ciò che racchiude: sentimenti, desideri, eccetera, ma cresce assorbendo e restituendo gli stimoli di chi lo osserva, lo abita, o anche solo se lo immagina.

I luoghi sono le muse del rock.

 

La genesi del rock è simbolicamente legata a uno studio di registrazione, e questa musica è nata in veri e propri templi del suono, da Abbey Road ai Muscle Shoals. Mi ha colpito la menzione degli A&M a Los Angeles, che evocano We Are The World e la spensieratezza degli anni ’80. Come mai questa scelta?

In realtà, più che nelle sale d’incisione, il rock nasce nell’anima, se non proprio “nel fegato” come dice Vasco Rossi. Agli studi di registrazione spetta solo il compito di organizzare e confezionare tutto quel bagaglio – a volte provvisorio e disordinato – che l’artista porta con sé. E questo potrebbe essere un approccio per così dire tecnico alla questione. Ma ci sono anche degli studi che, avendo prodotto incessantemente icone culturali e di costume (utilizzando anche tecnologie molto avanzate), hanno descritto una vera e propria storia dei loro sistemi di riferimento. E il La Brea a mio avviso ha dato molto in fatto di rappresentazione del mito americano. Dall’ipocrisia con cui è stato trattato Charles Chaplin, sino all’album Breakfast In America che ha fedelmente ritratto – per primo – l’alba del neoliberismo reaganiano.

 

Dicembre 1974, Cattedrale di Reims: Tangerine Dream e Nico in concerto. All’epoca era possibile suonare anche sull’altare di uno dei più grandi esempi di arte gotica europea?

Si, perché, col formarsi di una coscienza politica e sociale all’interno del rock (e questo è avvenuto nei primi anni Sessanta), si è creata una liaison dangereuse tra le forme di solidarietà politica e civile praticate dal beat, e quelle della chiesa cattolica. Un accostamento improbabile, anche perché i beat – quelli veri – erano profondamente anticlericali, ma che generò comunque fenomeni come le messe beat, la musica di fede, ed altre infiltrazioni sia in ambito artistico che in quello sociale. Da quel momento i rockers si sentirono legittimati a esternare la propria fede, e la chiesa strumentalizzò spesso il rock per mietere proseliti anche in ambienti agnostici, se non proprio ostili.

Ma, ripeto, era un sodalizio basato sul nulla, e Reims fu l’occasione per concluderlo. Cosa che la chiesa fece in modo molto pretestuoso con la scusa della profanazione sacrilega, quando fu soltanto ingenuità organizzativa. Amen.

 

I provos, la rivoluzione delle biciclette bianche, la controcultura e la stampa underground, Amsterdam, un club storico che ha ospitato sia i Pink Floyd che i Sex Pistols. Per quanto tempo il rock è andato in Paradiso?

Se ci riferiamo al locale, il Paradiso è aperto ancora oggi. Certamente con modalità diverse da quelle di cinquant’anni fa, ma continua a fare spettacoli ed attività culturali di altissimo livello.

Se invece intendiamo il “paradiso”, come quella tendenza creativo- desiderante che caratterizzò i primi venticinque anni del rock, direi che si affievolì con gli anni Ottanta. Quando cioè le merci sostituirono i sogni, e il disimpegno prevalse sulle lotte sociali. L’underground fu ancora visibile per circa un decennio, ma poi tornò nelle catacombe.

Oggi il “paradiso” è dentro di ciascuno noi, ma questo non va bene. Come disse Blaise Pascal, i sogni vanno sempre desiderati, costruiti e alimentati. E soprattutto condivisi. Altrimenti il rock scompare.

 

Parliamo anche di Italia. Spesso si cita il Vigorelli dei Led Zeppelin come luogo e momento simbolico per lo sviluppo del rock nel nostro Paese, tu sei andato saggiamente indietro fino al Palaghiaccio. Annata 1957. Fu lì che nacque il rock italiano?

No, non nacque proprio lì perché il rock ‘n’roll italiano era già suonato dal 1956 da Adriano Celentano e divulgato dai ballerini Bruno Dossena e Marisa Oriani. Però possiamo certamente confermare che il “Festival di Rock ‘n’ Roll e Danze Jazz” del 18 maggio 1957, fu la sua consacrazione.

Il nostro R’n’R tuttavia non durò molto, soppiantato in pochi mesi dalla moda degli “urlatori”. Però ebbe il merito di entrare di prepotenza nel meccanismo della musica italiana, distraendola dal melodico, e istigando i giovani a nutrirsi di novità. Per contro, gli incidenti del Vigorelli – provocati da un mix di panico e di follia che si poteva tranquillamente evitare – furono il primo episodio che contribuì ad escludere l’Italia dai grandi concerti mondiali. Da quel momento il mondo andò avanti… e noi no.

 

Ancora Milano ma con un clima, tempi, attori completamente diversi. Il Parco Lambro. Argomento dibattuto e studiato, come Woodstock fu un climax ma anche l’inizio della discesa. A quasi mezzo secolo di distanza, a bocce ferme, qual è stata a tuo avviso l’importanza di quell’evento per la cultura italiana?

Il Festival del Parco Lambro del 1976 segnò lo strappo tra due modi diversi di esercitare il contropotere. Quello storico ed assembleare, figlio della ricostruzione e del sessantotto, e quello nato durante l’occupazione Fiat Mirafiori del 1973, che portava invece avanti un discorso pragmatico – spontaneista, la cosiddetta “Autonomia”. Vi militavano operai, disoccupati, soggetti extrapartitici, femministe, studenti, creativi, e ancor prima quei giovani che volevano riappropriarsi della propria vita, dopo un’adolescenza vissuta nei mostruosi quartieri-dormitorio, costruiti negli anni Cinquanta per stipare la manodopera residuale. Prevalse la linea autonoma, le lotte si spostarono dalle fabbriche alle città coinvolgendo un numero sempre maggiore di persone e – fatte salve le vicende socio-politiche – questo ricadde anche sulla musica.

La complessità del Pop Italiano lasciò il posto ad argomentazioni dirette e a linguaggi semplici (a volte anche troppo); terminata la sua fase ermetica, anche il cantautorato ricorse a una poetica più comunicativa, mentre formalmente si recuperarono la destrutturazione lessicale, l’onomatopea e il dialetto. Poi, poco prima del 1977, si adottarono anche l’ironia, l’iconoclastia, il patchwork e il nonsense che fecero da anticamera al punk italiano e al Movimento del ’77. Tutte caratteristiche nate grazie allo shock del Lambro, ed evolutesi fino ai giorni nostri.

 

Un capitolo speciale – non solo perché tu c’eri – riguarda il Magia Music Meeting. Un luogo forse poco celebrato ma decisivo negli anni ’80 in città, e non solo…

Premetto che il Magia non ha “cambiato” la storia del rock, però, ha avuto l’enorme pregio di intercettare quei mutamenti che nei primi anni Ottanta stavano insistendo sulla città musicalmente più importante d’Italia. In più, di presiedere all’evoluzione di quell’enorme tessuto creativo che – al netto delle implicazioni giuridiche – porterà Milano a diventare una delle capitali mondiali della moda e del design. Una metropoli che riaprirà finalmente le porte alle rockstar internazionali, farà da modello per centinaia di attività commerciali sparse in tutto il mondo, e rimarrà a lungo insuperata in quanto a varietà e qualità di proposte culturali.

Una chiosa ancora: al Magia tutto questo fermento potevi godertelo gratis. Dal tramonto all’alba pagavi solo il bar e la tavola fredda, e per il resto potevi goderti free of charge, tutto ciò che il locale ti offriva: concerti, mostre, compagnia, celebrità, feeling. Per questo divenne uno straordinario collettore di energie, tuttora ricordato e rimpianto.

Poi naturalmente c’erano il Leoncavallo e l’Helter Skelter, il Conchetta, il Garibaldi e altre decine di Centri Sociali Occupati, ma quello è un altro discorso.

 

In tempi di musica smaterializzata, liquida, disconnessa dai supporti e destinata a un ascolto omologato e individuale, non più collettivo, quali sono i luoghi che potranno cambiare ciò che resta del rock?

Il problema non sono i luoghi, ma l’uso che se ne fa. E quando si profila un default antagonista o – come ora – ne permane uno molto a lungo, normalmente servirebbero luoghi informali, autogestiti, apolitici e aconfessionali, che incoraggiassero la socializzazione fisica (senza escludere naturalmente quella digitale), che promuovessero il confronto e l’integrazione sociale sulla base di progettualità non allineate, e le cui criticità venissero discusse collettivamente, e trasformate in pratiche costruttive: culturali, storiche, territoriali, assistenziali, didattiche e, chiaramente, anche ludiche.

Ma se pensiamo davvero che la tecnica basti all’arte, la tecnologia al benessere, e che “Times Square si trovi a Londra”, allora non ne usciamo più.

John N. Martin - I muri del suono

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