Dave Gahan, la storia raccontata in una biografia
Abbiamo intervistato per l’occasione Federico Francesco Falco, autore della parte finale dell’edizione italiana di Dave Gahan – Depeche Mode e oltre…
Si intitola Dave Gahan – Depeche Mode e oltre…, il nuovo libro uscito per Il Castello Editore, collana Chinaski, un ritratto intenso e coinvolgente della vita del frontman di una band che può vantare ormai 45 anni di carriera. Il volume, scritto da Trevor Baker, giornalista musicale che ha iniziato al Guardian nel 2004 e che è anche autore di biografie di Thom Yorke e Richard Ashcroft, raccoglie tante interviste esclusive con persone che hanno lavorato con Dave Gahan nel corso degli anni, in modo da non tralasciare davvero nulla della sua esistenza. Da una parte il successo mondiale ottenuto in breve tempo, dopo un’infanzia e un’adolescenza non delle migliori in Inghilterra, nell’Essex, dall’altra quella stessa fama sarebbe potuta essere fatale per Dave Gahan, entrato a un certo punto della sua vita nel vortice delle dipendenze dalle droghe e per questo motivo “morto per due minuti”. Poi è arrivata la rinascita e i Depeche Mode godono tutt’oggi di una grande venerazione da parte dei loro fan che li seguono dal vivo e all’uscita di ogni nuovo album.
Noi per l’occasione abbiamo raggiunto al telefono Federico Francesco Falco, saggista e critico musicale, curatore della parte finale del libro in questa edizione italiana che coincide anche con la fase più recente di carriera di Dave Gahan e dei Depeche Mode.
Intanto partiamo dalla fine: com’è nata l’idea di affidare proprio a te la parte finale del libro?
Beh, intanto devi sapere che faccio parte da tanti anni di un progetto editoriale chiamato 013 che è questo sito Internet di raccolta dei Depeche Mode in Italia. Inizialmente era uno di quei famosi forum dove la gente prima dei social scriveva, condivideva e quant’altro. Ho iniziato con loro dal 2010 mi pare e, oltre che a partecipare sul forum, scrivevo un sacco di articoli. Dopo un po’ ovviamente il forum è stato meno attivo, ma il sito continuava comunque a elargire contenuti. Loro hanno organizzato anche una data di Alan Wilder, il vecchio tastierista dei Depeche Mode in Italia, e all’interno del forum scriveva anche quello che era il manager storico del gruppo per il nostro Paese. Nel frattempo ci sono stati anche diversi progetti, fra cui un libro per Arcana, uscito tipo nel 2014 che parlava dei Depeche Mode in Italia e di quel tour. Arcana contattò 013 proprio per chiedere “in prestito” tre o quattro penne fra cui la mia per narrare il periodo storico della band. L’estate scorsa, invece, quando si è trattato di rinnovare la tradizione, stavolta la casa editrice che ha bussato alla porta è stata Il Castello e in particolare il direttore della collana Chinaski Federico Traversa che ha chiesto se si potesse avere una collaborazione con qualcuno dello staff di 013 e loro hanno indicato me. Nel frattempo io avevo già fatto uscire un libro su John Frusciante e un libro sui Cure pochi mesi prima. Quando Federico mi ha telefonato, mi ha spiegato un po’ l’idea perché il libro su Dave Gahan scritto da Baker si fermava agli eventi fino al disco Sounds of the Universe, quindi si fermava al 2009/2010 e, per quanto ovviamente fosse argomentato e pieno di nozioni, ci mancava comunque una porzione di quindici anni in mezzo che non era poco, perché, se parliamo dei Depeche Mode è come tagliare non dico metà carriera, ma almeno un terzo sì. Allora mi ha chiesto di scrivere un saggio abbastanza importante che racchiudesse gli ultimi quindici anni.
Dave Gahan: rockstar con tutti gli eccessi, o tutti gli stereotipi se preferisci, che è riuscita a salvarsi, “nonostante sia morta per due minuti”?
Sì, la vita di Dave Gahan a metà degli anni ’90 era stata molto travagliata. I Depeche Mode si erano già riuniti per provare a scrivere il seguito di Songs of Faith and Devotion che sarebbe stato Ultra, ma lui, credo mettendoci un paio di giorni, aveva scritto e cantato solo un pezzo, Sister of Night, e, per chiudere quella canzone che dura sei minuti, hanno dovuto prendere un sacco di take perché Gahan non riusciva a farla bene in maniera completa; stiamo parlando di un collage fatto a metà degli anni ’90, quando non c’era l’attuale tecnologia a disposizione. Visto che andavano così a rilento le registrazioni, loro nel frattempo si presero una grossa pausa durante la quale appunto Dave Gahan scese all’inferno e il libro si sofferma molto su questo aspetto che tra gli appassionati del rock è molto romanticizzato: quando si finisce nella spirale della dipendenza c’è sempre una certa fascinazione sulla cosa, però non dobbiamo mai dimenticare quanto proprio quella spirale poi abbia portato a un qualcosa di positivo. Se vai a vedere il video di Suffer Well, che è stato singolo di Playing the Angel, praticamente c’è il sunto di quell’esperienza lì dei Depeche Mode. Secondo me la miglior sintesi di quel periodo un po’ tormentato è rappresentata proprio da quel video.
A un certo punto l’abbandono di Alan Wilder è passato in secondo piano, visti i problemi di Dave Gahan? Pensi ci sia comunque un prima e un dopo Alan Wilder per il gruppo?
Durante il Devotional Tour si ritrovano con Dave Gahan alle prese con le dipendenze e Alan Wilder purtroppo non riesce più a trovare una dimensione nei Depeche Mode, perché sente sminuito il suo lavoro dal punto di vista del suo effettivo contributo alla causa. Poi c’era anche Andy Fletcher che si era fatto venire una bella crisi di nervi perché aveva avuto delle brutte situazioni in famiglia; lui, e su questo ho insistito un po’ nel mio saggio finale, è stato quello che ha funzionato da megafono fra Martin Gore e Dave Gahan: è stato quello che ha aiutato le due parti a comunicare ed è stato quello che Alan Wilder non ha avuto nei Depeche Mode, perché non ha avuto un traduttore abbastanza abile per parlare con Martin Gore e con Dave Gahan ed è forse quello che poi l’ha fatto disinnamorare di tutto il progetto.
Secondo me ogni grande band vive il suo momento in cui i fan tirano fuori frasi fatte del tipo: “Eh, ma da quel disco in poi sono diventati commerciali, da quel disco in poi non ne hanno azzeccata una, da quel disco in poi non sono andati bene…” Nel caso dei Depeche Mode finirebbe tutto nel ’93, ma per me è un’assurdità, perché si tengono fuori dischi come Ultra o come Playing the Angel che, a non volerli notare, devi essere proprio in malafede. I Depeche Mode dopo il ’93 sono un po’ più scarni dal punto di vista delle ritmiche, ma hanno scritto ancora delle melodie indimenticabili. Quindi posso capire da una parte che ci sia un cambiamento nei Depeche Mode dopo il ’93, ma come si dice in questi casi “non tutto il male viene per nuocere”, perché, per quanto appunto i fan possano notare l’assenza di Alan Wilder, i Depeche Mode successivi sono più crudi, a volte più rock, a volte più graffianti e comunque hanno avuto dei picchi che nella prima parte non si sono sentiti; io penso a un brano come Precious che è una hit perché non saprei come definirla, penso a Freestate, penso a Home e quindi anche alle ballad di Martin Gore. Capisco i fan che comunque hanno nostalgia di Alan Wilder, così come ci sono ad esempio i fan dei Deep Purple che hanno nostalgia di Ritchie Blackmore: a volte è un voler cristallizzare il periodo, a volte forse non è proprio che ti manca il musicista, ma ti manca l’età che avevi all’epoca, oltre che una fase di carriera in cui la band normalmente all’inizio ha più cose da dire o comunque deve fare di tutto per farsi notare o per proporsi; non è detto che facendo tornare Ritchie Blackmore con i Deep Purple scrivi un’altra Smoke On The Water, così come non è detto che Alan Wilder nel gruppo ti farebbe tornare “a quei Depeche Mode”. Lui per me anche come solista ha fatto delle cose di livello come Unsound Methods e comunque la sua discografia solista è un po’ un ibrido trip hop che aveva aperto le porte a quel sound che poi Moby ha reso da classifica, per cui secondo me su questo Alan Wilder è sottovalutato. Lui ha anche avuto un leggero ritorno di fiamma coi Depeche Mode per una versione remix di In Chains all’interno di Sounds of the Universe: il brano secondo me è un brano più o meno da sette e messo fra le sue mani non è che diventi da nove, cioè rimane più o meno un’altra fragranza, ma non gli dà quel qualcosa in più. I fan rimpiangono quei momenti, ma non hai la prova che rimettendo Alan Wilder insieme ai Depeche Mode venga tutto come più di vent’anni fa. Poi ci sono i nostalgici e ci saranno sempre: Alan Wilder è stato importante per i Depeche Mode, ma il gruppo è andato avanti egregiamente anche senza di lui.
Perché secondo te Dave Gahan ci ha messo tanto a debuttare come autore? Troppo comodo avere uno bravo come Martin Gore?
Secondo me ha iniziato “a emanciparsi” più che altro quando ha iniziato a capire, almeno secondo il mio punto di vista, che il songwriting della band stessa era ormai accentrato del tutto nelle mani di Martin Gore e a quel punto penso sia diventato un po’ meno timido nell’esporre le sue idee, complice anche l’uscita dal progetto di Alan Wilder. A un certo punto ha pensato di provarci anche lui e ovviamente non l’avrebbe mai provata questa “carriera da autore” se non avesse avuto degli strumentisti che facessero il suo lavoro, perché comunque Gahan, tolta qualche strimpellata, non è esattamente un musicista come gli altri, è più uno che ha comunque una gran bella voce, è un uomo da palcoscenico e quindi non te lo immagini a scrivere canzoni da solo, però appunto poteva farcela con un paio di amici con cui collaborare e quegli amici li ha trovati fra i turnisti che i Depeche Mode hanno preso per sopperire all’assenza di Alan Wilder. Poi c’è chi compra tutto a prescindere di lui perché è proprio il fan collezionista e chi fa dei distinguo. Immagino che Gahan sapesse di avere comunque un pubblico, ma allo stesso tempo c’è sempre quel timore di “non essere abbastanza” secondo me, infatti ha fatto un buon disco con Hourglass, il suo secondo da solista, mentre ha alternato cose buone e meno buone sia dentro che fuori i Depeche Mode: ad esempio con i Soulsavers lui ha scritto dal secondo in poi, cioè dal successivo a quello a cui lui ha semplicemente collaborato e lì, se ti piace un certo soul blues vissuto con momenti di Nick Cave mania, secondo me può piacere, per quanto rispetto ai Depeche Mode c’è meno varietà. Certo, per me è difficile trovare uno che dica: “A me i Depeche Mode non è che piacciano granché, preferisco Gahan solista”. Non è come Robert Plant, ovviamente storia diversa la sua, sebbene ci siano i nostalgici dei Led Zeppelin che sperano in una scaletta con i pezzi della band nei suoi concerti e invece ascoltano brani differenti di lui come solista, ma comunque di ottimo livello, ma nel suo caso è frutto di un percorso vero e proprio. Più facile conoscere i Depeche Mode e poi ascoltare Dave Gahan, che scoprire la band attraverso Gahan solista.
I Depeche Mode sono molto amati in Italia. Secondo te perché?
C’è uno stereotipo con cui ho chiuso anche il mio saggio, cioè con la famosa canzone Non si esce vivi dagli anni ’80, perché spesso si dice così, non tanto per la moda degli anni ’80, ma perché c’è un determinato tipo di sound che lo senti e dici: “Oh, questo disco è stato prodotto negli anni ’80” perché ha quella batteria ultra-riverberata, delle tastiere registrate in un certo modo…
I Depeche Mode secondo me sono fra i pochissimi al mondo, fra quelli che vendevano milioni di copie nel periodo, che riuscivano a rimanere dentro a certi parametri di quel sound, ma comunque a fare in modo che ascolti quel disco e non lo collochi per dire nel 1986. Quando uno ascolta certe incisioni di Black Celebration non gli viene da dire: “Oddio, è proprio anni ’80”; quando uno ascolta Violator non dice: “Questo è 1990”; cioè sono dischi che se li togli da quel frammento temporale in cui sono usciti, hanno comunque un loro senso di vita, sono dischi che sono invecchiati bene e quindi hanno quel merito di essere usciti indenni da quegli anni e di diventarne dei capostipiti. Poi, insieme a quello, devi pensare che loro hanno fatto un botto di singoli e hanno avuto anche un ottimo ritorno dal punto di vista commerciale, nel senso che molte band hanno fatto un successo incredibile negli anni ’80/inizi anni ’90, soprattutto a livello post punk-new wave, e poi c’è stata qualche “sfracellata” che puntualmente mandava il gruppo in mille pezzi, penso ai New Order, ai Simple Minds, un po’ pure ai Cure, ma loro qualcosa poi hanno riavuto, soprattutto adesso, di ultra-recente, mentre i Depeche Mode, tolti quegli anni di sbando di cui abbiamo parlato all’inizio della nostra chiacchierata, non hanno avuto quel calo. I Depeche Mode da quando li seguo, cioè dal 2002 o dal 2003, li ho visti in concerto per la prima volta allo stadio a Roma per il tour di Playing the Angel e da lì in poi li ho sempre visti far stadi; per una band anni ’80 che suona synth e tastiere è tantissimo, devi avere fatto una carriera veramente di primo livello per avere quel pubblico lì che in Italia si possono permettere o comunque si potevano permettere ai tempi solo U2, Springsteen e pochi altri. I Red Hot Chili Peppers adesso fanno gli stadi, ma anche per il ritorno di Frusciante, mentre per dieci anni sono andati nei palazzetti. I Depeche Mode non solo facevano un primo giro in Italia per esempio negli stadi, poi l’anno dopo facevano i palazzetti e questo per una band che fa elettronica, che è partita con delle melodie da synth a una mano sola come noi alle elementari ed è finita a fare delle cose molto articolate, è veramente un qualcosa di enorme e un qualcosa di irripetibile nell’attuale scena contemporanea. I Depeche Mode messi nel presente probabilmente non sarebbero sopravvissuti, perché non avremmo avuto né il tempo né il modo di vederli evolvere in questa maniera. Non immagino i Depeche Mode degli anni ’80 o degli anni ’90 sopravvivere a un X Factor per dire. Per quanto io nell’attuale mondo musicale non mainstream trovo ogni anno almeno una cinquantina di dischi molto godibili, non si può creare una reputazione mainstream così particolare come se la sono creati i Depeche Mode in tutti questi anni.
Ovviamente nel libro non si parla solo di Gahan, ma di tante persone importanti per i Depeche Mode, come ad esempio Anton Corbijn.
Se vai a guardarti il video di See You e poi vai avanti di un lustro circa e ti guardi Strangelove, sembrano due cose del tutto differenti: in Strangelove vedi questa band tutta con uno stile, con quel bianco e nero, mentre se vedi See You pensi non sia nemmeno lo stesso gruppo. C’è l’opera di una persona che, oltre a usare una macchina da presa, fa scorrere le idee in una maniera che non ti possono insegnare in un master o in un corso d’alta formazione: la band dava il suono, lui e altri come lui davano gli occhi ed è una cosa fondamentale per certe parti di carriera di questi gruppi, soprattutto negli anni ’80 in cui per i video si poteva spendere di più, e mi dispiace che oggi non si possa spendere altrettanto per dare certe immagini alle nuove band in questa maniera. È come se Corbijn letteralmente avesse conosciuto tutt’e quattro i musicisti del gruppo e abbia comunque capito come tirar fuori in pochi secondi il meglio da ognuno di loro, perché un videoclip dura in media quattro minuti e ti devi mettere nell’ottica di queste band o più forse di questi ascoltatori che vedevano passare 100-150 video a settimana se stavano su MTV e quindi ti potevi scordare di loro con una facilità impressionante; lui invece riusciva in quattro minuti a farti capire l’essenza della band e del singolo davvero con poco: un dono della sintesi che è un’arte a sé perché i videoclip sono un’arte a sé, non sono cinema, non sono musica, sono un linguaggio che adesso è un po’ tramortito come mondo; così come è un po’ tramortito il mondo della produzione e nessuno assume più un Rick Rubin, difficilmente uno può assumere un Corbijn per fare un video. Corbijn è un Depeche Mode dal punto di vista del suo modo di girare. Poi, se guardi anche le foto con cui ha curato certi artwork, non è mai stato banale dal punto di vista delle scelte grafiche, del modo in cui dà enfasi a certi aspetti… lui ha curato anche le proiezioni dietro alla band quando suona dal vivo ed è un altro aspetto importantissimo, soprattutto se sei in uno stadio e quindi hai bisogno di un supporto del genere per far sì che ti vedano anche quelli che sono meno vicini al palco. Lui riesce a fare anche questo e sono veramente molto affascinato da una figura come lui, perché è una di quelle figure intermediarie del mondo della musica di cui magari si parla meno, eppure lui e altri personaggi del genere hanno fatto tanto ed è difficile anche studiarli perché è difficile avere dei metri di paragone, fare degli esempi… è un’arte a sé.
Mentre si attende il film-concerto Depeche Mode: M che non ha ancora una data d’uscita, ma dovrebbe essere nelle sale entro la fine dell’anno, l’ultimo album di inediti ad oggi pubblicato dal gruppo è Memento Mori del 2023. Era anche un modo per salutare da parte dei Depeche Mode, purtroppo rimasti in due dopo la scomparsa di Andy Fletcher, o secondo te uscirà altro materiale inedito?
Memento Mori per me è stato un disco superiore a Spirit che forse tra i recenti è quello che mi è piaciuto di meno. Memento Mori è stato il loro crescere in maniera ulteriore rispetto alle esigenze del momento: Martin Gore e Dave Gahan per anni hanno comunque impiegato in maniera costruttiva Andy Fletcher come tramite, non essendo loro ben capaci di comunicare tra loro senza un intermediario. Scomparso all’improvviso Fletcher, hanno dovuto imparare a trovare una forma di comunicazione e non è stato facile, perché appunto il disco ha avuto comunque una gestazione abbastanza elaborata dal punto di vista dello storytelling, però alla fine sono riusciti a realizzarlo. Non credo che quello sia stato l’addio anche se da Sounds of the Universe in poi c’è sempre quella canzone finale nel disco in cui sembrano dire: “Nel caso succeda qualcosa di brutto a noi o nel caso litigassimo, una traccia d’addio l’abbiamo messa”. Secondo me ci sarà almeno un altro disco anche se io sogno e spero sempre in un tour d’addio diverso dagli altri, magari uno unplugged o uno con l’orchestra sinfonica, però loro si definiscono ancora una band elettronica, quindi questo sarà molto difficile, però un gruppo che ci tiene molto alle celebrazioni del passato nel presente difficilmente non farà un qualcosa di veramente conclusivo.
