24/01/2018

Futuro Remoto – Ray Thomas rievoca la “rivoluzione” dei Moody Blues

Direttamente dagli archivi di Jam, l’intervista di Giulia Nuti a Ray Thomas dal n. 175 di Jam – Viaggio Nella Musica
Nel novembre 2010 veniva pubblicato il n. 175 di Jam – Viaggio Nella Musica. In questo numero, per la parte dei Rock Files, c’era anche un’intervista di Giulia Nuti a Ray Thomas, compianto fondatore, cantante e flautista dei Moody Blues scomparso lo scorso 4 gennaio. Dai trascorsi con Sonny Boy Williamson, all’eventuale destino del progressive senza il prezioso apporto dei Moody Blues, a molto altro ancora. Era il periodo in cui stava per essere pubblicato un box con gli album solisti di Ray Thomas.
 
 
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Futuro Remoto
Ray Thomas rievoca la “rivoluzione” dei Moody Blues
 
Flautista, cantante e autore, Ray Thomas ha legato indissolubilmente il suo nome ai Moody Blues, uno dei gruppi generalmente riconosciuti tra i fondatori della musica progressive. Il loro album Days Of Future Passed, del 1967, è una piccola pietra miliare. Anticipando di ben due anni l’esordio dei King Crimson, i Moody Blues regalarono composizioni rock dal grande impatto melodico accompagnate da elaborati arrangiamenti per orchestra sinfonica, che spesso prendevano il sopravvento con ampi ed evocativi passaggi strumentali. Tra queste è rimasta celebre Nights In White Satin, meglio conosciuta in Italia come Ho difeso il mio amore.
Thomas sta oggi per pubblicare un box che raccoglie i suoi album da solista, From Mighty Oaks del 1975 e Hopes, Wishes And Dreams del 1976. Un’occasione per ripercorrere le tappe di una storia di cui conserva vivi e dettagliati ricordi.
 
Partiamo dalle origini: prima di Days Of Future Passed voi venivate dal rhythm & blues, dalle sale da ballo. Cosa vi portò a passare da quella dimensione ai Moody Blues che conosciamo?
Cominciammo a scrivere le nostre canzoni e ci furono dei cambi di formazione. Io e il tastierista Mike Pinder suonavamo già insieme. Si aggiunsero Justin Hayward e John Lodge. Justin portò influenze diverse, più leggere e folk. Decidemmo che volevamo scrivere dei pezzi in cui si potesse suonare il mellotron, che Mike conosceva bene perché aveva lavorato all’azienda che lo produceva. Days Of Future Passed fu pensato per il palcoscenico. Il flauto stava benissimo sui suoni di archi e con il mellotron era come avere già un’orchestra a disposizione. Io fui il primo nella storia a usare i monitor dal vivo per sentirmi sul palco.
 
Anche le tue radici personali sono nel blues. Com’era per un ragazzo europeo all’epoca conoscere quel linguaggio?
Ho suonato con Sonny Boy Williamson, Memphis Slim, Chuck Berry. Era l’emozione che contava. Questi musicisti erano personaggi straordinari. Il più incredibile fu Sonny Boy Williamson. Eravamo stati scritturati per essere la sua backing band. Dovevamo fare una prova con lui al Marquee. Stavamo già suonando quando arrivò. Indossava una bombetta, un completo marrone e verde, aveva con sé un ombrello e una valigetta. Un perfetto gentleman inglese di città, se non fosse stato per il fatto che veniva dal Mississippi. Non ci guardò nemmeno, si sedette al tavolo, aprì la valigetta e tirò fuori una bottiglia di whisky, una scatoletta di carne, un bicchiere. Aprì la scatoletta, si versò un bicchiere pieno di whisky, tirò fuori la carne con un coltello a serramanico e si mise a mangiare. Non si voltò mai verso il palco, neanche una volta. Noi continuavamo a provare e lo guardavamo. Poi finì la carne, svuotò la bottiglia di whisky e rovesciò dalla valigetta 50 armoniche sul tavolo. Ne cercò una e poi la gettò nel bicchiere di whisky. Io pensai che fosse rovinata per sempre. Invece la tirò fuori e cominciò a sbatterla sul tavolo. Quindi salì sul palco, e senza guardare mai il gruppo andò da Mike Pinder. Gli suonò una nota, un do. Con un’armonica come quella che stava suonando, si può suonare in due, massimo tre tonalità.
Sonny Boy Williamson iniziò a suonare facendo delle lievi alterazioni su ogni nota. Poi chiese a Mike di indovinare la tonalità in cui stava suonando. Mike non riusciva a trovarla, perché Sonny suonava esattamente nell’intervallo tra i tasti bianchi e neri, con una precisione straordinaria. E allora disse a Mike: “Vedi, volevo semplicemente dimostrarti che se provi a rubarmi la scena e a suonare più veloce di me, io cambierò scala e non sarai più in grado di suonare niente. Il riflettore deve essere puntato su di me”. I nostri esordi sono pieni di queste ed altre storie.
 
Poi arrivò la fusione tra musica rock e musica classica. Nessuno lo aveva mai fatto con quella formula…
Siamo stati i primi. Era qualcosa che pensavamo potesse essere fatto, e provammo di avere ragione. È stata una scommessa. Con il mellotron potevamo utilizzare gli archi ed era ben più che avere una band di cinque elementi.
 
Senza di voi probabilmente il progressive non sarebbe esistito?
In passato l’ho detto ma non lo ripeterei perché non sta a me dirlo. Comunque… la risposta è sì.
 
Quali furono le vostre influenze?
Ascoltavamo molto i Beatles, di cui eravamo amici prima che chiunque di noi diventasse famoso. John e George li conoscevamo bene fin da ragazzi. All’epoca tutti volevano sentire la musica degli altri, non c’era paura di confrontarsi e scambiarsi le idee. Un fotografo fece ai Beatles una foto, ma sbagliò, la foto venne allungata. E loro dissero: “Non preoccuparti, questa invece di buttarla la useremo per la copertina visto che vogliamo chiamare il prossimo disco Rubber Soul”. Così andavano le cose all’epoca. Quando fecero Sgt. Pepper penso di essere stato uno dei primi a sentirlo. Mi chiesero cosa ne pensassi, naturalmente dissi che era straordinario. E io feci lo stesso con loro con Days Of Future Passed.
 
Qual è stata la più complessa delle session che avete affrontato?
Quella di To Our Children’s Children. C’è stata una complessa evoluzione fino alla stesura definitiva dei brani come sono sul disco, come l’evoluzione dall’uomo delle caverne alla civiltà.
 
Tu suoni diversi strumenti, primo fra tutti il flauto. Senza soffermarti su un album specifico, quale fu il suo contributo personale al sound dei Moody Blues?
Suono anche l’armonica e tutti i tipi di flauto. In una traccia ho suonato anche l’oboe. Prima di pranzo in studio mi dissero: “Questa è la frase che dovresti suonare con l’oboe”, e mi lasciarono lì. Durante la pausa pranzo cercai di inventarmi come suonarlo semplicemente provandoci.
 
Alla fine il tuo però divenne un suono distinguibile. Ne eri consapevole?
Certo. Comunque una caratteristica del sound dei Moody Blues, oltre all’importanza del mellotron e ai nostri singoli contributi, fu che cantavamo in quattro. Il lusso di registrare su 24 o 48 piste arrivò solo molto dopo. All’inizio, con 4 piste, dovevamo stringerci attorno a un solo microfono e registrare parti che poi potessero essere riportate su una pista e armonizzate.
 
Come nacque in una band dalla carriera solida come la vostra l’esigenza di realizzare dei dischi solisti?
È stato deliberato. Ci conoscevamo così bene che alla fine ci stavamo annoiando, avevamo sempre le stesse esperienze giorno dopo giorno, non c’era più niente da dirsi. Allora decidemmo di seguire altre strade, lavorare con altri mucisisti. Ne avevamo bisogno per ricaricarci.
 
Dall’esterno però non sembrava, dopo il tour di Seventh Sojourn, che la band fosse in crisi…
Dovevamo difendere la nostra musica, sia nei confronti del pubblico che delle case discografiche. Lo abbiamo sempre fatto, fin dall’inizio. Quando uscì Days Of Future Passed ci dissero: “Non è musica classica, non è rock… secondo voi a chi la vendiamo?”
 
Avete trovato buoni aiuti da questo punto di vista da parte di manager e avvocati?
No, abbiamo sempre fatto tutto da soli.
All’inizio per un periodo avevamo Brian Epstein come manager, ma la cosa non funzionò. Lui era un vero gentleman. Quando si accorse che le cose non andavano bene, ci restituì il contratto.
 
Sta per uscire un box con i tuoi album solisti, mi racconti qualcosa in più?
Sì, il box verrà pubblicato dall’etichetta inglese Esoteric e conterrà i miei due album solisti, From Mighty Oaks e Hopes, Wishes And Dreams, con mix alternativi e un dvd di un singolo che non è poi mai diventato un singolo, High Above My Head, che io non ho mai visto dal momento in cui sono uscito dallo studio televisivo in cui è stato registrato fino a quando è stato ritirato fuori per il box. Era in ottime condizioni, mai stato proiettato. C’è anche un brano nuovo che si intitola The Trouble With Memories e un’intervista promozionale che venne realizzata all’epoca affinché fosse spedita alle radio, con una serie di domande rivolte a me da Pinder.
 
I Moody Blues continuano ancora oggi con Hayward, Lodge e Edge. Quali sono invece i tuoi progetti attuali?
Per me è difficile muovermi adesso e suonare dal vivo, ma mi piacerebbe tornare in studio, l’esperienza di questo brano nuovo nel box è stata positiva. Se lo sarà anche la risposta del pubblico, forse tornerò a incidere. Per quanto riguarda gli altri, invece, stanno bene insieme e si divertono a suonare, quindi sono felice per loro. Non ho assolutamente niente contro la loro attività. Se avessi ancora le energie per stare su un palco, li raggiungerei.
 
Oggi potrebbe esistere un gruppo come i Moody Blues?
Mi dispiace per i giovani, ma la risposta è no. Non c’è la gavetta che facevamo noi, suonare nei pub, nelle chiese, nei locali. Oggi ti fanno un contratto discografico, poi fai un disco o due e sei finito. Noi lavoravamo con dei musicisti, degli “uomini della musica”. Oggi si lavora con gli avvocati. Sono stato fortunato, probabilmente. Ma più si lavora duro, più la fortuna concede delle chance.
 

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