30/10/2013

Father John Misty nella folle Babilonia

Sciamani canadesi, rapimenti misteriosi, funghi allucinogeni, romanzi psichedelici. Vi raccontiamo un viaggio ai confini della creatività. Un album che cammina sulla sottile linea di separazione tra sogno e incubo, paura e divertimento. Ecco la nuova vita di Josh Tillman

PROLOGO
UNO SCIAMANO A SEATTLE

Seattle, 2010. Uno strano tizio, appoggiato a un furgone bianco, fuma una sigaretta. Lunghi capelli castani, occhi cerulei, una folta barba… difficile dargli un’età, sembra un incrocio tra un giovane hippie e un vecchio sciamano. La sua camicia rosso fuoco attira gli sguardi incuriositi dei passanti e lui ricambia elargendo grandi sorrisi tra un anello di fumo e l’altro. Ha un’aria beata, imperturbabile… se li fissi troppo a lungo ti ci potresti anche perdere in quegli occhi. Sembra che stia aspettando qualcuno, e in effetti è proprio così… quello strano essere si è materializzato in città perché ha «una missione da compiere per conto delle Muse»: rapire Josh Tillman, il batterista dei Fleet Foxes.
Il ragazzo sembra uno arrivato, insomma è un ottimo musicista e la sua band è sulla bocca di tutti. In realtà «sta perdendo di vista il vero obiettivo e bisogna che qualcuno lo riporti sulla retta via». Il rapimento potrà sembrare una soluzione drastica, ma «conoscendo Josh è la cosa giusta da fare». La decisione ormai è presa, «non si discute il volere delle Muse».
Nel retro del furgone c’è una vecchia macchina da scrivere, una risma di carta e un sacchetto appallottolato con abbastanza funghi allucinogeni da stendere un cavallo.
«Lo stretto necessario per farsi un bel viaggetto», pensa Tillman una volta a bordo. Il suo perverso senso dell’umorismo non lo abbandona mai, e in questa situazione gli sarà di grande aiuto. Te lo dicono fin da bambino, non si accettano caramelle dagli sconosciuti. Eppure quando quel tipo gli si è parato davanti sfoggiando un sorriso ammaliante gli è venuto spontaneo seguirlo: «Ehi Josh, ti stavo aspettando. Forza monta, è ora di andare». Andare sì, ma dove? «La mia chitarra…», dice Tillman in un attimo di lucidità quando il furgone si mette in moto. «E se mi torna l’ispirazione?». Negli ultimi tempi ha perso ogni interesse per il songwriting… tutto ciò che scrive gli appare falso, privo di significato. Senza nemmeno rendersene conto ha imboccato il tunnel della depressione creativa e per quanto si sforzi non riesce più a trovare l’uscita. «Lì dietro c’è tutto ciò che ti serve», lo rassicura il misterioso compagno di viaggio. «Non stiamo andando a caccia di melodie, fratello. Qui si tratta di dilatare le pupille della vita, espandere le percezioni, sacrificare il passato facendolo esplodere sull’altare della creatività. Questo è un viaggio di sola andata… risaliremo il selvaggio flusso della coscienza fino alla fonte, e una volta là riceverai un nuovo battesimo artistico. Ci immergeremo nelle nebulose acque del destino e le nostre visioni si fonderanno fino a creare un’unica cangiante realtà. L’uomo si spoglierà di tutte le maschere, di tutte le paure; l’artista ritroverà la purezza dello stupore infantile e riceverà finalmente la chiave d’accesso all’autentica voce narrante. Allora la mia missione sarà compiuta, e tu, Joshua Tillman, rinascerai a nuova vita col nome di Father John Misty».

EPILOGO
HOLLYWOOD-BABILONIA

Laurel Canyon, aprile 2012. Nessuno saprà mai cos’è successo durante quel viaggio. Sappiamo solo che si è concluso (almeno per il momento) a Laurel Canyon e che da qualche parte, lungo il cammino, Josh deve aver ritrovato l’ispirazione, perché Fear Fun è l’album più maturo, onesto e disinibito che abbia mai realizzato. Sappiamo che dietro c’è lo zampino di Phil Ek e di Jonathan Wilson, ormai diventato una sorta di nume tutelare della creatività analogica losangelina. Il resto, però, è avvolto nel mistero. Chi è «lo sciamano canadese» immortalato in I’m Writing A Novel? Esiste davvero o è solo una proiezione della mente di Tillman? Non è bizzarro che un viaggio alla ricerca della purezza creativa si concluda a pochi passi dal Sunset Strip, nella folle Hollywood cantata in Funtimes In Babylon? A cosa serviva la macchina da scrivere? E i funghi allucinogeni? Ma soprattutto, chi è Father John Misty?
L’unico che può fare chiarezza è il diretto interessato. Ecco perché abbiamo fatto un blitz telefonico nella casa di Josh Tillman a Laurel Canyon. Lo abbiamo tirato giù dal letto alle 10.30 del mattino, e approfittando del fattore sorpresa lo abbiamo “torchiato” per un’ora nel tentativo di dare risposta ai nostri interrogativi. Lui ci ha accolto con un sorriso, e dopo aver sciacquato gli eccessi della notte con un bicchier d’acqua si è dimostrato molto collaborativo. Sembrava quasi che ci stesse aspettando…

Josh, partiamo dalla fine… dei Fleet Foxes. Perché hai lasciato la band all’inizio del 2012?

«Quando fai ciò che ami, dai tutto te stesso e ti sembra di avere a disposizione una riserva infinita di energia. Da un punto di vista più pragmatico, però, ho capito di aver bisogno di più tempo da dedicare al nuovo album e alla realizzazione di progetti bizzarri come il video di Nancy From Now On. Far parte dei Fleet Foxes assorbe molto tempo ed energie, quindi alla fine ho dovuto fare una scelta e ho deciso di assecondare la mia natura».

L’esperienza Fleet Foxes ha influenzato in qualche misura il tuo songwriting?

«La verità è che non ero realmente coinvolto nel processo creativo, ero un semplice batterista… per questo ho deciso di concentrarmi sui miei progetti. Tutto ciò che faccio, però, influenza la mia musica, che si tratti di far parte dei Fleet Foxes o di lavorare come muratore».

La gestazione di Fear Fun è iniziata a Seattle e si è conclusa a Laurel Canyon. Nel mezzo c’è stato un viaggio in furgone con una discreta scorta di funghi allucinogeni… Ci racconti cosa è successo?

«Ok… [ride]. Ho dovuto guardare in faccia la realtà. Il mio più grande sogno, da ragazzino, era far parte di una band, guadagnarmi da vivere con la musica. Quando ho raggiunto quell’obiettivo, però, mi sono reso conto di essere ancora terribilmente insoddisfatto. È stato traumatico… mi sono detto: “Merda, se nemmeno questo mi rende felice cos’altro può esserci per me là fuori?!”. Ho avuto una specie di crisi esistenziale, un periodo di profonda infelicità alla fine del quale ho avuto un’illuminazione: “Se non ne vengo a capo” ho pensato “perderò il controllo della mia vita”. Così mi sono auto-rapito. Ho preso l’indispensabile e mi sono messo in viaggio senza una meta. È stata una liberazione, sfociata in un bizzarro, selvaggio flusso creativo che ho incanalato in un romanzo. Stavo finalmente scoprendo la mia vera voce narrante. Ho cominciato a chiedermi perché la mia musica non rispecchiasse alcuni aspetti fondamentali della mia personalità, come il senso dell’umorismo o il sarcasmo pungente… tutte cose che invece stavano venendo alla luce nel processo di scrittura del romanzo. È stato confortante e al tempo stesso elettrizzante realizzare che c’erano ancora molte cose da scoprire a livello creativo».

In pratica ti sei accorto che il tuo songwriting non era sincero?

«Non è che i lavori precedenti non fossero sinceri… diciamo che a 23 anni ero onesto e al tempo stesso confuso come qualunque altro ragazzo della mia età. A un certo punto, però, ho avuto la sensazione di viaggiare con il pilota automatico inserito. Proseguendo su quella strada, la mia musica sarebbe diventata disonesta. Crescendo ho sentito la necessita di scavare più a fondo, e da un paio d’anni a questa parte ho iniziato a esplorare nuovi aspetti della mia personalità: è tutto parte del processo, cinque anni fa non sarei stato in grado di concepire Fear Fun. Le opere realmente ispirate nascono da un qualche tipo di esplosione… qualcosa deve morire affinché si verifichi un evento creativo spettacolare. Così ho raccolto il frutto del mio lavoro degli ultimi dieci anni e l’ho fatto esplodere, l’ho immolato sull’altare della creatività. Se non l’avessi fatto la mia vena creativa si sarebbe estinta».

Qual è lo scopo del tuo songwriting?

«Gli obiettivi migliori sono quelli in costante evoluzione. La mia vita si basa su una serie di prospettive in divenire, fondate sulle esperienze personali e sulle informazioni che raccolgo lungo il cammino. Il songwriting è uno strumento, e sono giunto alla conclusione che fa semplicemente parte della mia natura. Molta gente tira in ballo Dio, l’amore, ecc… sono tentativi di spiegare questo bisogno impellente».

E cosa mi dici del romanzo?

«Scoprirete molto presto cosa ne sarà del romanzo… per il momento mi avvalgo della facoltà di non rispondere [ride]».

C’è un legame con i testi delle canzoni?

«Grazie al romanzo ho scoperto il mio lato divertente e satirico, che nelle canzoni avevo sempre inconsciamente nascosto. Il processo di scrittura ha portato alla luce una nuova voce narrante, la reale espressione di me in quanto essere umano, e una volta partorito questo assurdo romanzo satirico ho capito come metterla in musica. Prima avevo la sensazione che il mio songwriting si fosse trasformato in un triste cartone animato. Se non fossi il peggior critico di me stesso non combinerei niente di buono. Ci sono pochissime persone là fuori disposte a dirti la verità… la maggior parte si preoccupa solo di non ferirti, quindi devi seguire il tuo istinto ed essere pronto ad accollarti dei rischi. Confesso che ero molto nervoso all’idea di far uscire questo album. Circa sei mesi fa mi sono detto: “Cosa diavolo sto facendo?! La gente penserà che è ridicolo”. Poi ho pensato: “È possibile, però a me piace…”».

Le session si sono tenute a partire dal febbraio 2011 al Five Star Studio di Jonathan Wilson, a Los Angeles. Qualche mese fa, nel corso di una lunga chiacchierata, Jonathan mi ha detto che il suo buon amico Josh è senza dubbio uno dei giovani artisti che contribuiscono a preservare lo spirito di Laurel Canyon. Che ne pensi?

«Mmm… non riesco a concepire la mia vita e la mia musica come un’estensione di qualcosa di preesistente. Credo che Jonathan si riferisca all’aspetto più materiale, artigianale della creazione musicale. Se mi parli di Laurel Canyon io penso a Houdini, al jazz, all’epoca d’oro del cinema… Il Canyon è sempre stato un posto molto particolare. Negli anni ’60 era uno strano covo di hippie, ma è stata solo una fase. Oggi lo vedo come un luogo in cui può succedere qualunque cosa. Nell’aria si percepisce ancora questa strana elettricità, è qualcosa che va aldilà della musica, di Joni Mitchell o di qualunque altro artista che ci ha vissuto. Personalmente non mi piace la musica concepita come tributo al sound della California o chissà che altro. Preferisco assorbire gli stimoli, rielaborarli e trasformarli in qualcosa che sia il più possibile originale».

Ormai sono due anni che vivi nel Canyon. Come mai hai scelto di fermarti lì? Mi pare tutta un’altra storia rispetto a Seattle…

«Il fatto è che non mi sono trasferito direttamente da Seattle a Los Angeles. Sono partito con l’intenzione di diventare un homeless. Dopo un paio di mesi che girovagavo sono finito a casa di un amico a Big Sur e lui mi ha chiesto se stessi cercando un posto in cui sistemarmi. “Mmm… credo di sì”. E lui: “C’è questo mio amico, Derek, che ha una casa a Laurel Canyon e ha una stanza libera…”. Mi sono detto: “Laurel Canyon… è circa un’ora di strada fuori Los Angeles. Perché no?”. In realtà stavo pensando a Topanga Canyon… Ad ogni modo, un paio di settimane dopo ero di nuovo in viaggio. A un certo punto, stavo seguendo le indicazioni del navigatore e non riuscivo a credere ai miei occhi: “Oh cazzo, sono finito nella fottutissima Hollywood! Che diavolo ci faccio qui?!”. Per fortuna sono dotato di un perverso senso dell’umorismo… Insomma, trasferirsi da Seattle a Hollywood è un bel salto, però mi sono detto: “Fanculo, tanto ormai sono senza vergogna…”. Il fatto è che non voglio una vita confortevole, capisci, è come far parte di una band di successo: alla fine rischi di crogiolarti nel benessere, nell’appagamento, nella stabilità… queste cose sono veleno per me. Preferisco situazioni surreali del tipo: “Bene, vediamo un po’ come me la cavo in questo nuovo, strano ambiente”».

Come hai conosciuto Jonathan?

«Dunque, lui ha pubblicato un annuncio sul giornale perché cercava un folksinger… [ride]. No, scherzo, ci siamo incontrati tramite amici in comune e siamo subito andati d’accordo. Ho cominciato a passare un sacco di tempo a casa sua e a un certo punto gli ho detto: “Ehi, dovremmo fare un disco, non credi?”».

In che misura ha contributo a forgiare il sound di Fear Fun?

«I demo che avevo realizzato da solo erano abbastanza definiti e avevo già le idee chiare sugli arrangiamenti. Jonathan, innanzitutto, ha reso le session molto divertenti. In secondo luogo, essendo lui stesso un songwriter, ha dimostrato un profondo rispetto per la mia visione artistica. Molti musicisti, quando collaborano con lui, gli danno carta bianca… vogliono che si occupi di tutto e confezioni un prodotto di qualità. Per me invece è il contrario… tendo a suonare praticamente tutti gli strumenti e chi lavora con me deve letteralmente strapparmeli di mano. Con Jonathan, però, è stato diverso. Gli è piaciuto molto ciò che stavo scrivendo e l’approccio musicale che avevo scelto… volevo registrare un album di pop americano. Era molto coinvolto nel progetto ma al tempo stesso per niente pressante. Mi lasciava spazio: a volte scompariva per un giorno intero e al suo ritorno, se mi trovava a un punto morto, era sempre in grado di offrirmi una nuova prospettiva. Si è creato un ottimo rapporto d’amicizia tra noi».

Alle session hanno preso parte anche diversi musicisti dell’area di Los Angeles. C’è stato qualcuno il cui contributo si è rivelato particolarmente prezioso?

«Il primo esempio che mi viene in mente è la parte di piano in Nancy From Now On. Quando Keith Green è venuto in studio gli ho detto: “Voglio che sia intrisa di glamour e disperazione, devi suonare come Liberace sul letto di morte”. Sono solito usare queste strambe espressioni per spiegare ai musicisti cosa voglio… Comunque sia, Keith mi ha capito al volo: ha preso la linea melodica e l’ha letteralmente fatta a pezzi. Il risultato è stupefacente. In questo momento della mia vita sono entusiasta di vivere a Los Angeles, qui ci sono musicisti fantastici».

È un po’ come avere a disposizione nuovi strumenti per il tuo songwriting…

«Esatto, è liberatorio scrivere canzoni sapendo che troverai di certo i musicisti perfetti per realizzarle».

Che mi dici invece di Phil Ek?

«In maggio ha ascoltato il rough mix e si è offerto di mixare l’album… non riuscivo a crederci. Ci siamo conosciuti quando ha collaborato con i Fleet Foxes, ma ho sempre pensato di non essere abbastanza bravo per lavorare con lui. Adoro Phil, e mi onora che abbia creduto in questo progetto».

Il comunicato stampa dice che Fear Fun contiene una grande varietà di influenze musicali, da Waylon Jennings a Harry Nilsson, passando per Arthur Russell, All Things Must Pass di George Harrison e Physical Graffiti dei Led Zeppelin. Ascoltavi qualcosa in particolare durante la fase di registrazione?

«Ascoltavo spesso Waylon Jennings… lui usa sempre gli stessi tre accordi, eppure ogni canzone è una perfetta fusione di melodia e testo. Questo è il genere di songwriting che adoro, sembra quasi un numero di magia, semplice ma incredibilmente efficace, evocativo. Come diavolo fa usando solo il Sol, il Re e il Do?! Oggigiorno la musica è affetta da una specie di ricercatezza cronica che francamente non riesco a concepire. Preferisco relazionarmi con gli esseri umani. Uno dei concetti che ho cercato di esprimere nell’album, però, è che a un certo punto devi uccidere i tuoi idoli. Io leggo e ascolto musica come tutti, ma tendo a mantenere un certo distacco, anche quando mi trovo al cospetto di un’opera che mi tocca profondamente. Non voglio inginocchiarmi davanti a un altare, né paragonare il mio lavoro a quello di qualcun altro. Sento il bisogno di mantenere un certo livello di oggettività».

A proposito del nome Father John Misty hai detto: «Bisogna avere un nome. Il mio non l’ho mai potuto scegliere». In Everyman Needs A Companion, invece, canti: «Non mi è mai piaciuto il nome Joshua / Mi sono stancato di J». Molta gente considera il proprio nome un tatuaggio indelebile: te lo impongono quando vieni al mondo e devi tenerlo per il resto della vita. Tu però non sembri pensarla così…

«Esatto. Ognuno di noi, nel corso della vita, è impegnato in un atto creativo. Mi riferisco alla costruzione dell’identità. In un certo senso è come avere un compagno di viaggio, una versione migliore di te stesso capace di confortarti lungo il cammino. Quando ho scritto Everyman Needs A Companion mi stavo interrogando sulla distanza tra il vero me stesso e quello che invece si lascia definire dalle mie paure. Un modo per sconfiggere le paure è affrontare i propri tabù, e tra questi c’è il nome, inteso appunto come identità. Il messaggio che volevo trasmettere è molto semplice: “Non sono un nome o un’idea, sono un fottuto essere umano”».

Che relazione c’è tra Josh e Father John Misty?

«Father John Misty è solo un nome che Josh trova divertente. Il fulcro di Fear Fun è costituito da una sola persona, cioè me. Comunque tu lo voglia chiamare, si tratta sempre di me. Alla base del progetto c’è una curiosa rivelazione: è possibile pubblicare album a proprio nome per dieci anni senza dire una sola dannata cosa di sé. È molto facile diventare degli alter ego di se stessi… è ciò che ho fatto io con J Tillman».

A proposito di identità, quando hai capito che saresti diventato un songwriter?

«A 15 o 16 anni ho iniziato a scrivere brevi racconti e poesie… riempivo interi quaderni. Suonavo la batteria già da un paio d’anni ma ho capito abbastanza in fretta che il mio vero interesse era la scrittura. Sono sempre stato uno scrittore, è da lì che nasce il mio songwriting».

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