01/07/2010

BLACK KEYS

Soul Brothers

C’è un deciso cambio di rotta nel nuovo album dei Black Keys. In un certo senso si tratta di una sfida che già a un primo ascolto sembra vinta: dopo quasi dieci anni di attività Dan Auerbach e Pat Carney dimostrano di non essersi lasciati rinchiudere nel cliché del power duo che iniziava a star loro stretto. Accomunati ai White Stripes per provenienza geografica, retroterra culturale e capacità di rielaborare in chiave moderna il blues lo-fi più sanguigno, con Brothers il duo di Akron, Ohio, vira decisamente verso uno stile rock-soul energico e intenso che privilegia però la forma-canzone al puro esercizio stilistico e ritmico. D’altronde il riuscito esordio solista di Auerbach (Keep It Hid) dello scorso anno aveva già anticipato questa evoluzione. L’esteso utilizzo di basso e tastiere aggiunge groove e variazioni che arricchiscono efficacemente il sound, mentre l’aggiunta di un pizzico di elettronica e forse anche l’influsso delle loro recenti collaborazioni con artisti rap e hip-hop contribuiscono a evitare la trappola della pura celebrazione vintage. In questo si sono fatti aiutare da Tchad Blake, che ha mixato il disco, autentico mago della consolle. Saranno i riff graffianti (Howlin’ For You, She’s Long Gone) e gli hook melodici (Tighten Up) che si imprimono in fretta in mente, oppure le intense e commoventi ballate (Too Afraid Too Love You, Ten Cent Pistol e These Days), ma questo disco fin dal primo ascolto suona già come un classico. Abbiamo parlato di questo ed altro ancora in una rilassata chiacchierata telefonica con Dan Auerbach.
Ti ho visto dal vivo l’anno scorso a Milano per il tour di Keep It Hid, e in questo nuovo disco mi sembra di ritrovare molto del feeling che permeava quel disco.
«Sì, è vero. E alcune di queste nuove canzoni le ho scritte quando ho composto quelle di Keep It Hid».
Perché avete scelto il titolo Brothers?
«Sai, a questo punto della nostra carriera, io e Pat ci sentiamo un po’ come fratelli. Negli ultimi dieci anni abbiamo passato più tempo insieme che con le nostre rispettive famiglie».
Quindi è inteso come una sorta di celebrazione del vostro sodalizio?
«Sì, siamo cresciuti insieme, abbiamo passato tutti i nostri vent’anni insieme, siamo andati in giro per il mondo vivendo esperienze significative ed esaltanti».
Sembra quasi che questo disco sia una svolta nella vostra carriera, una virata verso il soul. È una sensazione esatta?
«Beh, siamo sempre stati decisamente influenzati dal soul e dall’hip-hop. Una delle grandi differenze rispetto al passato è che quando abbiamo iniziato a registrare queste canzoni siamo partiti da basso e batteria, anziché chitarra e batteria. Basta un piccolo cambiamento perché l’atmosfera di un disco risulti diversa: partendo con basso e batteria ci siamo focalizzati maggiormente sul groove, cercando di trovare il passo giusto, che funzionasse bene, prima di andare avanti».
Che sensazione avete provato a registrare negli storici studi di Muscle Shoals?
«In effetti non sono più dei veri e propri studi di registrazione perché non sono rimasti molti equipaggiamenti. Ormai è una sorta di museo. Ci hanno permesso di utilizzarli e portare le nostre attrezzature».
La vostra scelta è stata dettata quindi più dalla magia di incidere in un posto dove sono nate delle canzoni storiche?
«Credo di sì… Sai, alla fine, io e Pat ci siamo resi conto che potremmo registrare un disco ovunque, davvero non importa il luogo. Ma è stato divertente poter andare a Muscle Shoals e sentire quel feeling».
Ho letto che nella produzione di questo album vi siete ispirati un po’ al modo di lavorare di Tchad Blake.
«No, non è proprio così. Per questo disco ci siamo ispirati molto al modo in cui si registravano i dischi alla metà degli anni 60. In modo scarno ed essenziale (stripped down, nelle sue parole, nda), tralasciando il superfluo per non perdere l’immediatezza e il calore del sound. Tchad è il tipo capace di prendere un suono vintage e farlo suonare moderno senza che risulti cheesy, capisci ciò che intendo? È un po’ come riuscire a tenere un piede nel passato e uno nel futuro. Ed è proprio quel tipo di approccio che abbiamo cercato di avere».
Mi viene in mente il suono del disco dei Latin Playboys, la band che i Lobos Hidalgo e Perez avevano formato con Mitchell Froom e Tchad Blake: suonava antico e nuovo allo stesso tempo.
«Sì, lo conosco bene e mi affascinava moltissimo il suono di quel disco. Credo che sia davvero stupefacente come Tchad riesca a far risultare un suono antico e nuovo allo stesso tempo. Ed è proprio per questo che abbiamo voluto che mixasse il disco: volevamo qualcuno che sapesse apprezzare il modo “classico” in cui lo avevamo registrato senza però che alla fine lo riducesse a un pezzo da museo».
Quali sono le fonti d’ispirazione del tuo songwriting?
«Non saprei risponderti con precisione. Scrivo moltissimo, ogni giorno. A volte di esperienze personali, a volte cerco solo di raccontare una storia. Non ci sono regole».
E posso chiederti qual è il chitarrista che più ti ha ispirato?
«Senza dubbio Junior Kimbrough. Era il mio preferito quando ho iniziato a suonare la chitarra. Il suo modo di suonare era unico. Le prime volte che l’ho visto mi mandava fuori di testa… E poi non saprei dirti altri nomi: ce ne sono talmente tanti…».
Posso chiedervi se non siete stanchi del continuo paragone che viene fatto con i White Stripes?
«No, non importa… Credo che siamo due band molto diverse che sono uscite nello stesso momento e avevano dei punti in comune. Il fatto che ambedue siamo un duo chitarra e batteria influisce molto nel fare questo accostamento, ma in effetti non credo che siamo poi così simili. L’unica cosa che odio dei White Stripes (fa una pausa ad effetto, nda)… è il modo in cui Jack White suona quella fantastica Airline J. B. Hutto. Perché adoro quelle chitarre ma credo che non riuscirei a suonarle… (scoppia in una fragorosa risata, nda)».
Parliamo di chitarre e amplificatori. Anche tu come Jack White sembri nutrire un’autentica passione per alcuni strumenti economici degli anni 50 e 60, spesso suonati da bluesman bravi ma squattrinati che non potevano permettersi di meglio. Ho visto che usi regolarmente una Harmony H-78 e, visto che ci siamo, ti confesso che ho fatto di tutto per riuscire ad intervistarti poiché ho scoperto su YouTube che utilizzi anche il mio ampli preferito, un vecchio e poco celebrato Ampeg Gemini I.
«(Ride, nda) Ho usato quell’ampli sin dal nostro primo disco. Ha qualcosa di magico. E poi il riverbero è di una bellezza stupefacente. Adoro gli Ampeg. Sono ampli piuttosto bizzarri: venivano progettati per essere suonati anche con la fisarmonica ma hanno una grande personalità. Riguardo alla Harmony H-78, che comunque era una delle chitarre più pregiate della loro produzione, mi piace molto il suono che hanno quei fantastici pick up De Armond. E poi, tutti suonano Gibson e Fender. A me piaceva cercare un suono che fosse davvero mio».
Hai una vera passione per le chitarre degli anni 60?
«Sì. Mi piacciono molto anche le chitarre italiane di quel periodo, in particolare le Wandré (per averne un’idea si può consultare il sito www.fetishguitars.com, nda). E poi amo le vecchie tastiere Farfisa; ne ho una che porto sempre nella sua custodia a valigia. Questo disco è infarcito di quel suono, e anche il mio disco solista».
C’è una canzone specifica in questo nuovo disco di cui sei particolarmente fiero?
«Una che amo moltissimo è Too Afraid To Love You. L’ho scritta all’harpsicord, era la prima volta che registravamo con questo strumento, e ci siamo divertiti un sacco. E qual è la tua canzone preferita, invece?».
A me piace molto Ten Cent Pistol.
«Quella è l’unica canzone che abbiamo iniziato con chitarra e batteria, anziché basso e batteria. E trovo che Pat vi abbia fatto un bellissimo lavoro ritmico».
Ci sono molti accordi in minore in questo disco.
«Già… Keep It Sad… (ride: è un gioco di parole con il titolo del suo precedente disco solista Keep It Hid, nda)».
La vostra musica è stata descritta con una miriade di termini, blues-rock, punk blues, heavy blues, heavy soul… Hai una tua personale definizione?
«No. Non so. Non credo che sia possibile ricondurre tutto a un solo termine. Preferisco concentrarmi sulla musica e lasciare agli altri le definizioni».
Verrete in Europa la prossima estate per promuovere il disco?
«Nei prossimi giorni partiremo per Londra e Parigi per promozione, poi verremo sicuramente in Italia, ma non so con esattezza quando. Mi vengono gli attacchi di panico quando guardo lo schedule di quest’anno…»
Un’ultima domanda: c’è una canzone in particolare che avresti voluto scrivere?
«Questa è difficile… Che ne pensi di I’m Your Puppet (di Dan Penn, nda)? È una canzone sorprendente: può essere una grande canzone soul, rock and roll, oppure pop. Basta cambiare l’arrangiamento ma rimane sempre un capolavoro».

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!