31/10/2013

Dirty Projectors

Parti vocali fulminanti. Strumentazione essenziale. Testi generazionali. Ma soprattutto, grandi canzoni. Sono i nuovi Projectors: il carattere sperimentale lascia spazio a una scrittura più diretta

È la più cupa delle profezie. Le fiamme divampano, il buio s’insinua come un mostro immateriale, il silenzio zittisce la musica. È l’inizio del nuovo, sorprendente disco dei Dirty Projectors. Nei successivi 40 minuti si disseminano altre immagini d’angoscia, dubbio, morte. Forse perché l’album è stato composto in un eremo nei boschi a nord di New York, d’inverno, in una solitudine desolante. Forse perché il mondo, là fuori, si sta sgretolando e gli artisti – i grandi artisti – trasformano in suono il tempo in cui vivono. Fatto sta che Swing Lo Magellan ha un’anima dark, riscattata da una serie di magnifiche ballate che non t’aspetti da un gruppo il cui nome è il più delle volte associato all’aggettivo «sperimentale».

Non che il disco racconti una storia con un inizio o una fine. Non è un concept come il vecchio Getty Address o il recente Mount Wittenberg Orca, strabiliante opera ecologista spartita con Björk. Questa volta Dave Longstreth, padre padrone della formazione di Brooklyn, ha lasciato che le canzoni parlassero da sé, ognuna con una voce distinta, con la sua singolarità. Si è arreso ad esse. E alla fine, ascoltando le dodici che ha selezionato per il disco, è emerso un percorso sghembo, ma coerente. Un disco generazionale, per certi versi. Una serie di domande senza risposta sulla vita e la morte, l’arte e l’ambiente, l’amore e il dissenso, la società e il senso di responsabilità. La storia è implicita. La storia è l’arte che prende vita sotto i nostri occhi, mentre la bellezza di queste canzoni si rivela e ci salva. È musica che sveglia il tempo.

Più prosaicamente, Swing Lo Magellan è un album facile per chi segue da anni i Dirty Projectors, il più facile del loro catalogo, ma dannatamente difficile per chi non ha dimestichezza col loro sound. Il modo di cantare istintivo e apparentemente non coltivato di Longstreth, il suono scarno basato sulla triangolazione chitarra-basso-batteria che fa a meno degli schemi ritmici e dei classici riff del rock, le parti vocali che si muovono con libertà in intervalli molto ampi, l’uso di timbri peculiari che rifuggono il facile effetto rendono ostica la musica.

Chissà che Swing Lo Magellan non cambi le cose. Fino a ieri i Projectors erano un gruppo da ammirare. Oggi è altrettanto facile amarli. Longstreth ha messo da parte progetti concettuali e tecniche compositive per trasmettere emozioni in modo diretto. I cori di Amber Coffman e Haley Dekle che schizzano su e giù per il pentagramma (la terza vocalist Angel Deradoorian è in pausa del gruppo), i cori che appaiono e scompaiono come flash, il carattere giocosamente pop delle musiche di About To Die o The Socialites, l’alternanza fra voce maschile e femminili, le linee di chitarra leggere di Just From Chevron, il break di musica classica di Dance For You, i timbri manipolati dell’attacco di See What She Seeing sono i Dirty Projectors come li conosciamo. Ma il gusto melodico pieno, tondo e appagante, l’atmosfera tesa e drammatica del singolo Gun Has No Trigger, il carattere agrodolce della ballata folk che dà il titolo al lavoro, la folgorante semplicità della pianistica Impregnable Question sono i Dirty Projectors più ammalianti ed emozionanti di sempre, senza cedimenti alla banalità o al già sentito. Dall’acclamato Bitte Orca il disco eredita il gusto corale, ma non i colori sgargianti; da Mount Wittenberg Orca prende il tratto sonoro essenziale che oggi più che mai dà l’idea di trovarsi di fronte non solo a una creatura di un compositore cervellotico, ma a una band convenuta in una stanza a suonare.

Si diceva che Swing Lo Magellan è anche un disco su questi tempi difficili. Inizia con le cupe vampe di Offspring Are Blank, le visioni orrorifiche di About To Die e la metafora armata di Gun Has No Trigger, però finisce con Irresponsible Tune, un «motivo irresponsabile» per voce e chitarra acustica. Con una semplicità disarmante, e accompagnato da un lieve coro maschile, Longstreth canta il potere della musica di opporsi a un mondo in cui «la violenza possiede la verità». Di questi tempi cantare una canzone con dentro tanta vita in così poche parole è da irresponsabili. Ma finché ci saranno gruppi come i Dirty Projectors, il silenzio non inghiottirà la musica.

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