22/09/2014

Interpol

Quinto album in studio per gli Interpol, a quattro anni di distanza dal precedente lavoro omonimo. Dopo la crisi creativa torna un po’ di ispirazione
Curiosa la scelta degli Interpol di intitolare il nuovo album El Pintor, ricavandolo dall’anagramma del loro nome. Fortunata anche la casualità per cui il titolo in spagnolo significhi “il pittore”.
Forse, tuttavia, si tratta di una decisione voluta, studiata e cercata per esprimere la volontà di imprimere col loro sound una nuova tela sonora da appendere al muro della loro storia discografica.
L’album precedente, l’omonimo Interpol (Matador Records, 2010), non aveva certo suscitato urla di gioia da parte di pubblico e critica, anche se il gruppo aveva goduto del beneficio del dubbio concessogli da ambo le parti, forse per meriti pregressi acquisiti col loro album d’esordio, quel Turn On The Bright Lights (Matador Records, 2002), considerato tra i dischi più importanti della nuova ondata indie rock dei primi anni duemila.
La formazione attualmente comprende Daniel Kessler (chitarra), Samuel Fogarino (batteria) e Paul Banks (voce, chitarra), quest’ultimo nelle vesti anche di bassista, dopo aver perso un pezzo per strada (il bassista Carlos Dengler, appunto) e avere inciso quest’album come trio.
 
Nonostante i soliti habitué della classificazione li abbiano spesso avvicinati per influenze e sonorità a gruppi come Television e Joy Division, gli Interpol hanno dimostrato di avere ben chiara la strada musicale che avrebbero percorso e di riuscire a distinguersi, forse non per originalità estrema, ma sicuramente per coerenza artistica.
E sebbene il precedente lavoro sia stato criticato in maniera negativa, va detto che El Pintor è decisamente più ispirato: l’album è stato scritto e prodotto dalla band e registrato a New York all’interno degli Electric Lady Studios – famosi studi creati da Jimi Hendrix – e agli Atomic Sound, con la supervisione di James Brown (Foo Fighters, Arctic Monkeys) nel ruolo di engineer, Alan Moulder (My Bloody Valentine, Nine Inch Nails) al missaggio e Greg Calbi alla masterizzazione. Al lavoro hanno partecipato ospiti come Brandon Curtis (The Secret Machines) alle tastiere, Roger Joseph Manning Jr. (Beck) alle tastiere in Tidal Wave e Rob Moose (Bon Iver) alla viola e al violino in Twice as Hard.
 
Che sia un buon lavoro è chiaro fin dalla prima canzone, All The Rage Back Home, pezzo di grande dinamica, che sembra abilmente plasmato per le radio. My Desire, con le sue chitarre potenti, quasi ossessive, ha un grande impatto; mentre in Same Town, New Story si fanno largo gli intrecci di tastiere che creano un tappeto sonoro di gran gusto.
Con My Blue Supreme, poi, gli Interpol dimostrano di aver saputo trovare nuove idee e variazioni sui temi nelle loro musiche, smentendo le malelingue. 
 
Il risultato è un ottimo disco, 10 tracce più due Bonus Track, per una durata di poco meno di 40 minuti, che non tradisce la certezza del marchio di fabbrica degli Interpol: è di grande impatto e, se anche non dovesse brillare per originalità e innovazione estreme, la band – a discapito di chi non li credeva più capaci – ha dimostrato di essere ancora in grado di creare interessanti trame nei brani, nonché degne della loro fama.
Paul Banks e soci sembrano divertirsi, divertendo anche il loro pubblico che sembra aver ben riposto la sua fiducia, concedendo loro tutti i benefici del caso. Sicuramente questa nuova linfa è stata favorita anche dal fatto che ognuno dei componenti ha avuto modo di dedicarsi a progetti solisti per tornare con nuovi stimoli trasmessi alla band e, di conseguenza, al pubblico.
 
 

 

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