17/05/2013

Mark Lanegan & Duke Garwood

Il cantante americano incontra il poeta inglese della chitarra acustica folk-blues. Un disco al “ralenti”: pochi elementi, grande tensione

Nel valutare la sterminata discografia di Lanegan occorre non confondere i livelli di coinvolgimento. Ingaggiato come cantante o per un duetto, col solo timbro vocale riesce a cambiare volto a una canzone (o a un intero album, pensando ai Soulsavers). In una condivisione più alla pari, vedi alla voce Isobel Campbell, Greg Dulli, Screaming Trees, l’apporto si riflette con efficacia sulla struttura dei brani. Altra cosa è quando egli stesso va a cercarsi collaboratori sfidanti, qualcuno che lo conduca verso un nuovo concetto di songwriting. È capitato nei dischi solisti ed è ciò che qualifica questo progetto a due, che poggia su solide affinità artistiche e umane.

Il londinese Garwood, per Lanegan amico di stretta cerchia ma soprattutto artista tra i più ammirati in assoluto, è abile con la penna quanto con una moltitudine di strumenti (tra i più disparati ed esotici). Una perizia che qui esibisce per lo più negli originali arpeggi delle chitarre acustiche e in rapide pennellate di suoni di vario genere. Vero e proprio poeta del folk-blues più cupo, da cui riesce a ricavare percorsi inediti senza stravolgerne l’essenza, non ha però una voce alla stessa altezza. È proprio l’intesa fra i due a sopperire, generando un più ampio concetto di “voce”; qualcosa di profondo e originale che sembra giungere da un luogo sotterraneo in cui spettrali spiriti affini hanno cercato di forgiare una materia coriacea con soluzioni coraggiose, senza intaccarne l’identità.

Il contenuto musicale evoca il Delta rivisitato da Ry Cooder in Paris, Texas (Pentecostal) percorso successivamente anche da songwriter come William Elliott Whitmore e P.W. Long (la tremolante Sphinx è una nuova variazione sul tema). Gente che ha sfidato le vertigini del blues cercando di fissarne le movenze in un ralenti capace di creare tensione con scarni ma efficaci elementi (Thank You). Fiati di latitudini a sud (War Memorial) e tastiere siderali (Shade Of The Sun) variano i colori del tappeto strumentale su cui agisce la splendida voce di Lanegan, mai così trattenuta e nel contempo incisiva. La straniante batteria elettronica che sostiene l’interplay di strumenti e voci in Mescalito dopo qualche battito invadente già non la percepiamo più. La ritroviamo in Cold Molly, singolo sinuoso e intrigante che, posto verso la conclusione, funge da attimo di respiro in un disco che ci ha tenuto col fiato sospeso fino a quel momento.

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