03/07/2018

Rolling Blackouts Coastal Fever

Il debutto della band australiana è uno straordinario mix di chitarre jangle pop, indie rock e spirito indipendente anni ’80
Fin dalle note iniziali della prima traccia An Air Conditioned Man si viene accolti da un sound perfetto, fatto di intrecci di almeno tre chitarre, due voci che talvolta si accavallano e un impeccabile senso della melodia. È solo l’album di debutto per gli australiani Rolling Blackouts Coastal Fever, ma mostrano subito di avere le idee molto chiare.
La band è nata a Melbourne nel 2013, formata dal cantante-chitarrista Fran Keaney, i chitarristi Tom Russo e Joe White, Joe Russo al basso e il batterista Marcel Tussie. Keaney, Tom Russo e White sono anche i principali autori dei brani, in cui si trovano spesso e volentieri a dialogare tra loro anche vocalmente. Il suono, soprattutto nelle armonie tra le chitarre e la perfetta sezione ritmica, è invece merito di una fantastica intesa tra tutto il gruppo.
 
I Rolling Blackouts Coastal Fever provengono dalla stessa scena locale di Courtney Barnett, pur mostrando uno stile abbastanza differente che li ha portati a ricevere l’attenzione dell’etichetta Sub Pop grazie all’EP di debutto Talk Tight (2016). Proprio per la Sub Pop hanno pubblicato un ulteriore EP lo scorso anno, dal titolo The French Press. L’album di debutto è, però, un grande passo avanti rispetto al promettente jangle-pop degli esordi, come testimonia il terzetto di canzoni iniziali tra cui l’esplosiva Talking Straight e la melodica Mainland (oltre alla già citata An Air Conditioned Man).
L’orizzonte di riferimento del gruppo sembra essere quello degli anni ’80, ma al contrario di molti revival avvenuti recentemente non intende rifarsi al mainstream di quel periodo, quanto piuttosto all’indie rock di gruppi come The Go-Betweens, Orange Juice, The Triffids e gruppi neozelandesi come The Chills, Bats e The Clean. Alcuni brani pescano ancora più nel passato e alle ritmiche tipiche di Velvet Underground o Television.
 
A colpire sono la freschezza e la facilità della band nello sfornare brani immediatamente riconoscibili e memorizzabili, con una certa urgenza quasi punk, specie per la loro brevità (solo tre pezzi su dieci superano i quattro minuti). Il gruppo sa alzare il tiro quando vuole (Bellarine), mostrarsi più intimista e riflessivo (Cappuccino City), dare sfogo alle chitarre (Exclusive Grave) o al romanticismo (How Long?). Nelle splendide Time In Common e Sister’s Jeans si possono sentire echi di un altro grande album di debutto: Murmur che lanciò i R.E.M. nel 1983.
L’abbondanza di idee, le chitarre sempre squillanti, i ritmi incalzanti e i testi spesso indecifrabili sono gli ingredienti di questo ottimo debutto, che non inventa niente di nuovo ma è ugualmente senza tempo. Potrebbe essere uscito per qualche etichetta indipendente negli anni ’80, così come nei giorni nostri: resta solo da vedere cosa ci riserverà il gruppo in futuro.
 

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