30/04/2008

AFTERHOURS

Favole macabre

Un album sulla quotidianità concepito proprio quando la loro fama varcava i confini nazionali. Con I milanesi ammazzano il sabato gli Afterhours tornano con un disco immediato e diretto come la vita di ogni giorno, che travalica il senso della metafora per offrire la poetica ora meravigliosa, ora squallida del reale. Milano è solamente lo sfondo in cui le fiabe domestiche si muovono tra sortilegi da lavatrice e incantesimi dove “gli orchi e le streghe sono soli, e si abbracciano alla paura”. Non è l’epica eroica a cavalcare i sentieri che portano verso una nuova libertà creativa, ma i rigagnoli nascosti nelle tracce di vita familiare, nel piccolo mondo domestico che ci circonda. Manuel Agnelli e compagni si rivolgono al minimale per trascenderlo, perché “dalla noia nascono fiori unici”.
Avete modificato il titolo del libro di Giorgio Scerbanenco I milanesi ammazzano al sabato in I milanesi ammazzano il sabato, che così assume il duplice significato di “ammazzare di sabato” e “ammazzare il tempo”. Qualche attinenza con il romanzo?
È un disco incentrato su una quotidianità molto concreta e poiché noi siamo di Milano il titolo calzava a pennello, anche se non è un disco su Milano e l’attinenza con il libro si limita a ciò. Milano è un luogo fisico dove si svolgono gli avvenimenti, è il contesto dove si svolgono storie quasi favolistiche sulla domesticità. I testi sono per gran parte autobiografici e la scrittura è più piana che in passato, con meno slogan e giochi di parole, dettata dall’urgenza comunicativa di raccontare storie nostre di ogni giorno, in cui ci si possa riconoscere al di là delle metafore. Il nostro tecnico, membro del progetto Calibro 35 dedito a rifare le colonne sonore dei film polizieschi degli anni 70, aveva scartato questo titolo. Scrivendolo casualmente ho messo “il” invece di “al”, il che mi ha ricondotto al duplice significato e un’idea di quotidianità per certi versi squallida e macabra che è diventata il tema principale dell’album. Anche concetti come “casa” e “famiglia” posseggono un lato oscuro.
La casa è vista come metafora del mondo oppure come luogo di rifugio?
La casa è una realtà privata ma fa sempre parte della mia vita. La domesticità mi protegge perché nella sua positività o negatività è molto reale, ed è questa la sua forza. Non è un’illusione che costruisci per difenderti, non è un incantesimo.
I Milanesi ammazzano al sabato è un po’ un ritorno a casa dopo le esperienze internazionali?
Ci teniamo molto alla peculiarità del nostro quotidiano, ma per noi l’estero resta un contraltare meraviglioso, un altro specchio. È difficile essere te stesso se la realtà che hai intorno è sempre quella e ti impedisce di spiccare il volo in modo totalmente libero.
Quando avete lavorato al disco visto che dall’uscita di Ballate siete stati continuamente impegnati?
Ci abbiamo lavorato circa un anno a blocchi, anche se le vere e proprie registrazioni si sono svolte tra agosto, novembre e dicembre, e a gennaio è stato effettuato il missaggio nello studio di Matthew Bellamy dei Muse a Como. Nella composizione dei pezzi ci siamo presi lo spazio per riflettere ciascuno per conto proprio invece di trovarci tutti insieme nella stessa stanza forzandoci a partorire qualcosa a tutti i costi. Quando ti trovi da solo a casa tua osi di più che quando sei davanti agli altri, e questo è un album che voleva nutrirsi della più totale libertà creativa. Aver suonato molto in giro per il mondo e con parecchi musicisti di alto livello ci ha stimolato e dato consapevolezza. Ballate era un disco di rock classico, mentre qui siamo tornati un po’ a giocare. È un album rock, ma ci sono anche parecchi spunti che non sono propriamente rock, determinati da una libertà, professionale e dalle pressioni, che non avevamo mai avuto prima. Il fatto di aver iniziato il disco in sordina mentre eravamo impegnati in altro e con una formazione nuova ci ha dato un’enorme leggerezza.
Come nascono le canzoni?
Ultimamente abbiamo imparato a lasciarci andare senza voler assumere per forza una direzione precisa, a vedere dove il brano ci porta anche se poi magari lo cestiniamo. Spesso l’idea nasce da uno spunto dato da uno strumento, da un riff e poi, a volte con mestiere, a volte casualmente e in modo un po’ magico, costruiamo i pezzi. Altre volte, tuttavia, ci limitiamo solamente a lasciar fluire la canzone per catturarne l’atmosfera originale. Non è importante dare ai brani sempre la stessa connotazione, ma saperne impreziosire di volta in volta il valore cambiando addirittura di registro. Quest’ultimo è un album schizofrenico, ma non è stato premeditato. È molto vario ma non c’è un solo pezzo che non è degli Afterhours. I dischi che mi piacciono, tipo il White Album dei Beatles, e alcuni lavori dei Pixies e dei dEUS sono tutti molto eterogenei.
A proposito dei dEUS, come siete arrivati a collaborare con Stef Kamil Carlens, ora membro degli Zita Swoon?
Ci conoscemmo tramite John Parish che l’aveva coinvolto nel progetto Songs Without A Stranger, ma allora Stef era troppo impegnato con gli Zita Swoon per dedicarci tempo. Questa volta siamo andati a trovarlo a casa sua e gli abbiamo fatto sentire delle nostre registrazioni, e lui non ha voluto partecipare soltanto con un cameo, ma con dei giochi di voce pazzeschi, registrando anche sei, sette voci che alla fine abbiamo dovuto sfoltire. In effetti volevamo fare un disco molto vocale, ci sono quattro o cinque cantanti nella band.
Alcuni arrangiamenti sono molto orchestrali. Anche nel cd Le sessioni creative (uscito allegato al mensile XL, ndr) c’è un pezzo molto sinfonico.
Quello era un brano di musica contemporanea composto da Enrico Gabrielli con il quale aveva vinto un concorso al conservatorio. Una sera in auto me lo fece sentire, proprio quando io avevo in mente di mettere in È solo febbre un arrangiamento di archi. Abbiamo provato a sovrapporre i pezzi ed erano perfetti, esattamente nella stessa chiave. Poi ci abbiamo aggiunto le percussioni e altri effetti, e infine John Parish ha razionalizzato il tutto. Questa volta la voglia di sperimentare ci ha portato a non avere alcun tipo di preclusione.
Qual è il valore aggiunto di Parish?
Lui mette molto ordine, ha un gran talento nel riconoscere il potenziale del pezzo che ha davanti scindendo ciò che vale da ciò che crea mera confusione. È un professionista che taglia molto, per cui il suo valore aggiunto è quello della sottrazione. Inoltre è una persona gentile, lucida e alla fine ha sempre ragione.
C’è qualche altro produttore con il quale vorreste lavorare?
Come per le collaborazioni, non programmiamo mai nulla. Però potrebbe essere interessante violentarci, e magari avere Brian Eno che ci porta verso territori mai esplorati prima. Comunque anche in Italia ci sono professionisti molto bravi. Sono già  stato a New York a cantare in inglese metà dell’album e là mi hanno consigliato di mantenere la nostra regionalità, di fare diretti riferimenti ai milanesi e a Milano, per mantenere vivo il tratto distintivo e non confonderci nel mucchio dell’omologazione. Alcuni pezzi, per tale ragione, resteranno in italiano anche nella versione in inglese.
I connotati domestici dell’album ti hanno anche portato ad usare direttamente i nomi delle persone, ad esempio quello di tua figlia…
La maggior parte delle persone, non sapendo come si chiama mia figlia, non può associare quel nome a lei. La scelta è stata fatta per non annacquare la forza della realtà. Non puoi usare uno pseudonimo per chiamare qualcosa che ti tocca dentro, perché la sincerità nel nominarla è la manifestazione della sua potenza concreta.
Nelle liriche usi spesso il linguaggio della fiaba tipo “il sortilegio svanirà”, “tu e Emma il regno e io il vostro re”. È tua figlia che ti ha indotto in questo o usi il valore metaforico della fiaba per descrivere altre realtà?
Sicuramente mi ha influenzato l’aver letto ultimamente molti libri di fiabe. Preferisco quelle nordeuropee a quelle italiane perché sono concrete e non colme di doppi moralismi. La favola è una metafora che ti offre la possibilità di agganciarti al presente in modo crudo. Proprio perché è irreale ti permette di esagerare nelle situazioni diventando paradossalmente molto realista, perché poi la realtà è molto più esagerata di qualsiasi cosa. Personaggi come il re hanno quasi sempre un’accezione negativa, per esempio il re di Orchi e streghe sono soli è colui che stringe tutto a sé ma poi lo disprezza. Il re di I milanesi ammazzano il sabato è quello che vuole andarsene, scappare e ricostruirsi una vita da solo, ma poi torna a casa e dice: “Beccatevi questo re”. Il re di Tarantella all’inazione è una sorta di non-marito passivo. È sempre il gioco dei contrasti: niente più di un re dà l’idea di possedimenti, ricchezza, opulenza e, nel contempo, di squallore.
Quando il re è nudo secondo te?
Quando non ha il coraggio di mettersi a nudo. Più le persone sono sincere verso l’esterno, più riescono a mantenere un tratto molto intimo e privato che è insondabile.
Ma tu quando entri nel tuo regno chi sei? Ti porti dietro tutte le tue vesti?
Ci sono cose professionali che ho imparato a non portarmi nella vita privata anche se non è semplice, perché l’impegno di ciò che faccio è totalizzante. Chi mi conosce nel privato fa fatica a captare parti di me che magari il pubblico dà per scontate, e viceversa.
Cosa intendi quando dici: “Dalla noia nascono fiori unici”?
Questa frase può apparire molto cattolica, nel senso che dalla sofferenza nasce la felicità. In realtà intendo dire che ci sono situazioni come quella familiare che possono essere molto pesanti, perché ti tolgono violentemente dal tuo mondo di prima, dalla concezione che avevi della tua poesia e delle tue cose. Se riesci a superare questo livello, ne scopri di solito un altro molto più profondo ed essenziale. È il pegno da pagare e non è detto che alla fine arrivi un premio, anzi, spesso non arriva.
Perché hai definito È solo febbre come il pezzo più oscuro del disco?
Perché è un pezzo sull’ossessione, quella generica e quella di piacere a tutti. Mi è stato ispirato dal film Amadeus, l’ultima frase è quella detta da Salieri in sanatorio, quando si rende conto di essere stato alla fine, malgrado tutti i suoi sforzi, un mediocre. Era un uomo ossessionato dalla celebrità e dalla creatività.
Quanto lo sei tu?
Molto dalla creatività, come tutti i musicisti. A volte è un demone, come quando affronto periodi negativi in cui non sono contento di ciò che faccio e non riesco a trovare nulla da dire, ma quando riesco a utilizzarla e a giocarci è una possibilità meravigliosa.
In Neppure carne da cannone per Dio parli di “musicisti mai fratelli” ma poi dici: “Nonostante questo siamo tutti ancora liberi”…
È un’invettiva atta a sdrammatizzare un certo tipo di ruolo, anche sociale. Alla fine ciò che mi importa è di essere in primis una persona fra le persone e un adulto.
Spesso la quotidianità pare essere quella del rapporto di coppia…
Il disco è cinematico, ci sono una serie di eventi e cambi di scena. C’è una presentazione delle situazioni nei primi brani, cui segue il loro sviluppo. Ci sono pezzi sulla non-situazione, come Dove si va da qui dove ci si domanda: siamo arrivati  fino a qui conquistando tutto ciò che dovevamo conquistare, e ora dove si va? In un rapporto affettivo anche profondo e importante arriva il momento in cui ci si siede, e in Tarantella all’inazione esso è rappresentato dal gioco di contrasti tra il ritmo efferato della tarantella e la stasi.
Amando i contrasti, porti volontariamente le situazioni agli estremi per capovolgerle nel loro contrario?
Gli estremi mi attraggano più per curiosità che per necessità vitale. In verità io sono una persona abitudinaria per necessità, perché amo giocare con gli estremi, per cui nel quotidiano ho bisogno di ordine.
Invece le situazioni sospese, che contengono in sé il germe della possibilità, ti attraggono?
Se non agisci nella vita, non accade mai nulla. In Tutto domani il personaggio rimanda sempre tutto a domani per rimanere potenzialmente qualsiasi cosa. Spesso si cade in questo tranello nelle relazioni umane, vivendo le amicizie e gli amori in modo idealizzato, così che quando passa la magia resta solo il senso dell’incompiuto. Io sono pragmatico e nei rapporti vado fino in fondo, anche se tutto diventa più volgare e squallido, perché terreno. Ma dalla noia, come ho detto, nascono fiori unici.
Eppure Riprendere Berlino dà l’idea dell’estraniazione, del perdersi e ritrovarsi.
È vero, e può riferirsi a un luogo fisico, della memoria, a una persona, o a un amore perso o ritrovato. Comunque è relativo: Giorgio, che ha madre tedesca, a Berlino si sente molto a casa.
In È dura essere Silvan affrontate il tema del mago che perde la capacità di farsi sparire e dunque rimane schiavo del suo personaggio?
Roberto Dellera l’ha incontrato a un festa e ha avuto questa sensazione.
Vi siete mai sentiti un po’ Silvan in questo senso?
L’esperienza all’estero ci ha resi più lucidi. Non soffriamo più di claustrofobia e abbiamo imparato a sorridere di come veniamo visti qui nel nostro ambiente. Una volta era un problema, perché era l’unico sbocco e punto di riferimento, per cui ci venivano i dubbi su ciò che eravamo e su cosa trasmettevamo.
In Orchi e streghe sono soli “i mostri sono soli e si abbracciano alla paura”…
Ciascuno di noi si abbraccia a qualcosa, e si diventa mostro solo perché ci si abbraccia alla cosa sbagliata, che in quel momento può apparire la soluzione al problema. Paura intesa come non coraggio di vivere, di far delle scelte, di sbagliare. È una ninna nanna reciproca, perché la bambina ti induce tranquillità ma nel contempo sei tu che la rassicuri dicendole che l’unica cosa da temere è la paura stessa.

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