04/02/2016

Suede

Tra il solito alternarsi di cavalcate rock e brani drammatici, la maturità arriva tramite gli incubi di mezza età
Se 23 anni fa il loro album di debutto fu visto dai critici come l’inizio di un rinascimento nel pop-rock britannico, i Suede del 2016 sono sicuramente una band molto diversa. Al di là delle vicissitudini personali e dei cambi di formazione, anche il suono del gruppo ha attraversato diversi cambiamenti per arrivare a questo settimo lavoro. Certamente i riferimenti principali restano l’indie rock dalle chitarre squillanti degli Smiths e la teatralità glam (specie nella voce) di Bowie, ma in questo album i Suede suonano soprattutto come loro stessi. Già a partire dall’evocativa When You Are Young che apre l’album con arrangiamenti orchestrali e quasi marziali e militareschi, ripresa anche verso la fine del lavoro col titolo leggermente diverso di When You Were Young. Le atmosfere riportano direttamente al tema centrale del disco e cioè a quei pensieri notturni frutto dell’insonnia in cui un Brett Anderson quasi cinquantenne comincia a temere di non aver dato il massimo nella vita, più che nella carriera. Pensieri che scorrono neri e torbidi, in una sorta di flusso continuo, sottolineato anche dal mix in cui diverse canzoni sfociano direttamente nella successiva.
E’ un Anderson molto diverso da quello che trattava di droga e sessualità in Suede (1993), scriveva lunghi testi in “stream-of-consciousness” sotto effetto di droghe allucinogene (Dog Man Star, 1994) o interpretava la rockstar edonistica glam per eccellenza in Coming Up (1996). I testi sono, se possibile, ancora più oscuri, sottolineati dal film diretto da Roger Sargent che accompagna l’album, in cui un uomo sul punto di annegare nelle acque di una spiaggia deserta di notte, ripercorre la sua intera vita.
I Suede fanno i Suede, come si diceva, specie con brani immediatamente classici come il singolo Outsiders, tutto chitarre roboanti e ritornello memorabile, con echi quasi alla Placebo. Oppure nell’euforica Like Kids, che riprende da dove il grande ritorno di Bloodsports (2013) aveva lasciato, ad esempio nel singolo It Starts And Ends With You, e risulta uno dei brani più orecchiabili dell’album. Influenze anche inaspettate (accenni di primi U2) impreziosiscono la bellissima No Tomorrow, incubo personale di Anderson sul non poter veder crescere i propri figli. Tema esplorato anche in What I’m Trying To Tell You, in cui si riferisce direttamente al figlio più giovane con una sorta di richiesta di assoluzione per tutti i suoi peccati, o nell’emozionante I Don’t How To Reach You, scritta dalla prospettiva di un padre che perde il controllo sui figli ormai cresciuti.
Come sempre, la band riesce ad accostare magistralmente i brani più orecchiabili e ottimisti a canzoni cariche di una drammatica teatralità. I momenti struggenti non mancano; come nella “Smithsiana” I Can’t Give Her What She Wants, che va a ripescare nelle tematiche torbide del suicidio e della depressione di vecchi classici (She’s Not Dead, Pantomime Horse) o il terrore di essere sospesi nel vuoto come in Tightrope. Oppure ancora, i lancinanti arpeggi di chitarra finali della ballata The Fur And The Feathers, la più vicina a certe atmosfere di Dog Man Star, con l’abile alternarsi di pianoforte e riff chitarristici.
Si tratta dell’opera finalmente matura di una band che 20 anni fa mostrava il lato più edonistico e sfrenatamente glam del britpop, mentre ora ha superato i mezzi passi falsi elettronici (Head Music) e acustici (A New Morning) del 1999-2002 e si prepara ad un futuro di accettazione degli anni che passano, restando sempre fedele alle proprie radici musicali.
 

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