15/05/2007

Africa Unite

Il concerto del 6 febbraio ad Addis Abeba, in Etiopia, non rappresenta solo l’occasione per festeggiare il sessantesimo anniversario della nascita di Bob Marley, ma anche, nelle intenzioni degli organizzatori, una celebrazione dell’unione culturale, storica, musicale e spirituale tra Africa e Giamaica.

Ma qual è la storia che si cela dietro il legame tra Etiopia e Giamaica? Quale ruolo ha giocato l’attivista per il panafricanismo Marcus Garvey? Chi era veramente il messia nero dei rasta, Hailé Selassié? Il reggae ha attecchito anche nel continente nero?

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Tutto comincia da Adua

La chiave sta in un nome che, inclini alla rimozione, gli italiani nell’ultimo secolo hanno preferito ricordarsi il meno possibile: Adua.

Ad Adua il 1° marzo 1896 l’esercito etiopico dell’imperatore Menelik impartisce una severa lezione all’esercito italiano, riducendo a più miti consigli un Paese, il fanalino di coda del colonialismo europeo, boriosamente partito alla conquista dell’Etiopia. Se oggi le ceneri di Bob Marley hanno, almeno nelle intenzioni della vedova Rita, come loro meta l’Etiopia, in definitiva è per via di quella sconfitta subita più di cento anni fa dagli italiani. Perché se è vero che il rapporto del reggae con l’Etiopia, attraverso la mediazione del rastafarianesimo, ha come presupposto l’antichità dell’Etiopia come nazione autonoma, di cui si può trovare testimonianza fin dalla Bibbia, è vero anche che il mito dell’Etiopia, centrale per il rastafarianesimo, si regge sul fatto decisivo che quel Paese, grazie ad Adua, poteva degnamente rappresentare un’Africa che si difende e resiste, e che vince: un’Etiopia che grazie a quel successo militare si presentava al mondo come l’unica nazione del continente ad essere sfuggita alla colonizzazione. Certo, non proprio del tutto: quarant’anni dopo Adua, nel 1935, inizia la seconda aggressione italiana all’Etiopia e l’Italia ormai fascista si rifà della sconfitta: per avere la meglio questa volta non esita a barare, usando pesantemente i gas. L’Etiopia è piegata nel ’36, Badoglio entra ad Addis Abeba, e il 9 maggio Mussolini proclama l’Impero d’Etiopia con Vittorio Emanuele III imperatore. Ma scoppia la Seconda guerra mondiale e i britannici, che in Africa orientale hanno in breve il sopravvento sugli italiani, prendono il controllo dell’Etiopia. Il 5 maggio 1941 Hailé Selassié torna sul trono.

L’impero italiano d’Etiopia è durato meno di cinque anni: un tempo risibile rispetto ai millenni di esistenza dell’Etiopia come entità indipendente, ad una storia che si perde in un passato popolato da figure favolose come re Salomone e la regina di Saba, all’identità di un Paese che si è convertito al cristianesimo prima di Roma.

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L’avvento del re dei re

La valorizzazione dei riferimenti della Bibbia all’Etiopia si sviluppa all’interno della componente nera delle chiese cristiane negli Stati Uniti in piena epoca di schiavitù, già a partire dal Settecento. L’Etiopia che emerge dalla lettura della Bibbia è accolta come dimostrazione della transitorietà della sofferenza e della subordinazione dei neri nella società: essere sfruttati e oppressi non è un destino per gli africani e i popoli di origine africana, che dinnanzi a sé hanno la luminosa prospettiva della redenzione/liberazione. Così anche la vittoria ad Adua di un sovrano africano e cristiano come Menelik sarà più tardi letta alla luce del salmo 68, verso 31 (“Vengano i grandi dall’Egitto, l’Etiopia innalza le mani verso Dio”), come annuncio dell’imminente riscatto. Comincia a maturare l’idea che da quella terra, che porta il nome con cui gli europei hanno a lungo identificato l’intera Africa, arriverà un messia nero.

In Sudafrica nella seconda metà dell’Ottocento l’etiopianismo dà impulso alla organizzazione di centinaia di chiese cristiane nere separate da quelle bianche, come reazione alla complicità di cui si prende man mano coscienza della chiesa bianca con il colonialismo e il mantenimento dei neri in una condizione di soggezione: nasce l’Ethiopian Church Movement che adotta lo slogan “l’Africa agli Africani” e che in Sudafrica precede l’African National Congress nella lotta contro la supremazia bianca e l’apartheid. Dal Sudafrica l’etiopianismo si diffonde in altre parti del continente e agisce da collante fra neri dell’Africa e d’oltreatlantico: siamo ai primi passi delle idee panafricane, che ai primi del Novecento prendono piede in Giamaica e influenzano Marcus Garvey.

Nato nel 1887 (e morto nel ’40), Garvey avrebbe esercitato con le sue idee e animando la Universal Negro Improvement Association una profonda influenza sul movimento nero anche negli Stati Uniti, influenza che si sarebbe prolungata fino agli anni 60 delle battaglie per i diritti civili. La bandiera dell’Unia aveva come colori rosso, nero e verde (tre su quattro dei colori rasta: manca il giallo-oro), mentre l’inno dell’organizzazione recitava “Etiopia, tu, terra dei nostri padri”. Garvey, fatta la premessa che “dio non ha colore”, afferma che è “umano vedere le cose attraverso le proprie lenti”, e propone quindi di credere nel “dio d’Etiopia, l’eterno: dio padre, figlio, e spirito santo, l’unico dio di ogni tempo”. Quella di Garvey è una provocazione, un argomento propagandistico: ma quando Garvey, arrestato negli Stati Uniti nel ’23, viene tradotto in patria, dove riprende la sua attività agitatoria, le masse diseredate giamaicane prendono alla lettera la sua rappresentazione di Dio, e la interpretano come una profezia, che si salda con quella del messia nero destinato a liberare gli africani e i loro discendenti.

A favorire la personificazione di questo messia nero in un uomo in carne ed ossa contribuisce anche involontariamente lo stesso Garvey, che a Kingston allestisce un’opera teatrale che descrive l’ascesa al trono di un re africano. Di modo che quando nel 1930 le immagini dell’incoronazione di Hailé Selassié fanno il giro del mondo e suscitano scalpore, perché comunicano un’idea di sfarzo e di potenza, e perché il sovrano nero affascina per contrasto in un panorama di re bianchi, ecco che per molti, che vedono nel Negus il biblico “re dei re”, la profezia si è avverata.

Chi sale al trono è Ras Tafari Maconnen, nato nel 1892, figlio di Ras Maconnen che, cugino di Menelik, nel 1896 è generalissimo alla battaglia di Adua; abile stratega, è il maggiore responsabile della disfatta degli italiani. Ras Tafari è il più anziano nipote del re Sahela Selassié: incoronato come Negus Negusta, che significa appunto “re dei re”, assume il nome di Hailé Selassié I. Nelle riprese della cerimonia mostrate dai cinegiornali, i giamaicani poveri come tanti altri neri del pianeta, africani o di origine africana, vedono il bianco erede al trono d’Inghilterra che si inchina davanti al Negus: è la nascita del movimento rastafariano.

Il primo rastafari è Leonard Howell, che invita i giamaicani neri alla lealtà nei confronti dell’imperatore d’Etiopia invece che del re d’Inghilterra: processato dalle autorità, è condannato a un periodo di lavori forzati, ma le sue idee continuano a circolare. E quando in Uganda si verifica una rivolta anti-britannica, un giornale giamaicano scrive che alla guida degli insorti si è posto Hailé Selassié. Nella realtà proprio in quel momento, il ’35, il Negus si trova a dover fronteggiare l’invasione italiana. Le notizie della guerra sono seguite con partecipazione dai neri della Giamaica, così come anche dell’Africa e della diaspora: nel ’35 a Montego Bay si svolge anche una dimostrazione antifascista, e da diverse parti si chiede alle autorità inglesi di consentire l’arruolamento di volontari nell’esercito etiopico. Nel ’36 però Garvey si esprime già in termini fortemente critici nei confronti di Hailé Selassié, a cui rimprovera fra l’altro l’impreparazione militare e il disinteresse per le condizioni della massa povera degli etiopici. Ma intanto il mito di Hailé Selassié ha ormai messo radici fra i rasta, fra i quali comincia a circolare la credenza nella sua invincibilità. Un emissario dell’imperatore fonda a New York l’Ethiopian World Federation, che presenta Hailé Selassié come l’eletto di dio, con un organo di stampa diffuso anche in Giamaica, The Voice Of Ethiopia, da cui il movimento rasta e le sue neonate comunità traggono nutrimento: per esempio l’idea che i veri israeliti siano neri, e che Hailé Selassié, come dimostrato dal ritorno al potere con la sconfitta degli italiani, sia effettivamente il “Leone di Giuda conquistatore”: altro elemento (fra l’altro il Negus teneva leoni addomesticati a palazzo) che favorisce l’identificazione con Hailé Selassié, visto l’ampio utilizzo nella cultura rasta del richiamo al leone come simbolo di forza e intelligenza (i dreadlock, ispirati dalle acconciature dei combattenti anticoloniali kenioti conosciuti come Mau Mau, rinviano del resto alla criniera del leone).

Declinata durante la Seconda guerra mondiale, l’influenza dell’Ewf riprende a espandersi negli anni 50, contribuendo alla diffusione fra i rasta dell’idea del ritorno in Africa, che si intreccia con la contemporanea offerta da parte di Hailé Selassié di ettari di terra a Shashamane, nella provincia di Shoa, ai neri della diaspora nelle Americhe che vogliono tornare in Africa. Una visione più critica della figura di Hailé Selassié non manca tuttavia neppure all’interno del movimento rasta: per esempio per merito di una figura di intellettuale e militante come Walter Rodney, che apprezzando il rastafarianesimo come espressione di una coscienza di razza, cerca però negli anni 60 di liberarlo dei suoi aspetti mistici e mitologici.

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Rasta e Reggae

Portandosi dietro queste implicazioni discutibili, il riferimento all’Africa, all’Etiopia e ad Hailé Selassié trova dagli anni 60 una ulteriore, prepotente amplificazione nel reggae, che il movimento rasta utilizza come veicolo per la diffusione della propria cultura. È il colpo di stato che alla metà degli anni 60 depone Hailé Selassié che costringe il reggae, o almeno i suoi artisti più consapevoli, a fare un po’ più precisamente i conti con quello che il “re dei re” è stato nella realtà. La presa del potere da parte dei militari scoperchia almeno la pentola, mostrando che l’Etiopia non è esattamente un paradiso, e facendo capire che, come aveva lucidamente colto Garvey, il benessere della grande massa dei suoi sudditi era l’ultima delle preoccupazioni di Ras Tafari. La fine dell’impero rivela anche la condizione contraddittoria (di privilegio e di rapporto con una monarchia tirannica) del pugno di rasta che si sono insediati a Shashamane. Marley aggiusta il tiro attestandosi sul ruolo di Selassié come protagonista della lotta contro il colonialismo, ruolo che al Negus era stato riconosciuto anche da Rodney.

Nella sua visita in Etiopia nel ’78 Marley ha poi modo di rendersi conto della distanza che separa il sogno del ritorno in Etiopia dalla sua effettiva realizzazione. Anche lo storico rapporto del reggae con un’Africa ben concreta, quella dei movimenti di liberazione anticoloniale, molti dei quali erano stati costretti ad imboccare e percorrere la strada della lotta armata, viene poi sancito dalla partecipazione di Marley, nell’aprile dell’80, ad Harare al concerto di celebrazione dell’indipendenza dell’ex Rhodesia, il nuovo Zimbabwe.

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Ritorno in Africa

Se l’idea rasta del ritorno in Africa è risultata fatalmente romantica, e con poche eccezioni i rasta sono rimasti dov’erano, qualcosa però è effettivamente tornato e ha trovato larga accoglienza: il reggae. La diffusione del reggae nel continente nero è stata certamente favorita dai riferimenti all’Africa presenti nella cultura rasta che lo ha permeato, ma è difficile considerare questa la ragione fondamentale del suo radicamento. In effetti, il reggae non è la prima e non è stata l’ultima musica che l’Africa ha contribuito in maniera determinante a generare sull’altra sponda dell’Atlantico ad essere protagonista di un grande rimbalzo nel continente nero. Prima c’è stato il jazz, popolarissimo in Sudafrica fino agli anni 60. Poi la musica afrocubana, che è stata ascoltata e imitata a partire dagli anni intorno alla Seconda guerra mondiale, con un’infatuazione particolarmente forte (e con conseguenze enormi sull’evoluzione delle musiche moderne locali) in Senegal e in Congo-Zaire. Poi c’è stato il reggae, di cui si è precocemente appropriata e in cui si è distinta soprattutto la Costa d’Avorio. E dopo il reggae è arrivato il rap che, irradiatosi dalla Costa d’Avorio e dal Senegal, negli ultimi anni è dilagato in tutto il continente. Ma anche il soul e il rhythm’n’blues si sono difesi bene, per esempio nel Mali e proprio in Etiopia.

In effetti fra tanti stimoli musicali che l’hanno toccata, nel secolo scorso l’Africa ha mostrato di saper scegliere con grande capacità di selezione, aprendo la porta a musiche in cui riconosceva una forte, familiare, impronta africana. Guarda caso il rock, malgrado la sua massiccia esposizione, in Africa non ha sfondato.

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Il fenomeno Alpha Blondy

L’Africa ha ricambiato le attenzioni del reggae per il continente nero producendo alcuni interpreti di tutto rispetto. Uno dei pionieri del reggae africano, l’ivoriano Alpha Blondy, può essere considerato uno dei più rinomati esponenti della musica di origine giamaicana a livello internazionale.

Artista autenticamente popolare, Blondy fonda il suo indubbio carisma su diversi elementi. La sua musica rivela un’immedesimazione nel reggae estremamente naturale, senza sforzo, e d’altra parte una pronuncia e una souplesse estremamente africana e originale. Come cantante, Alpha ha un affascinante timbro vocale chiaro e un modo di porgere inconfondibili, che ne fanno non solo un artista assolutamente non imitativo rispetto ai modelli giamaicani, ma anche uno dei protagonisti della musica africana, al di là delle distinzioni di genere, più forti e coinvolgenti.

Mescolando riferimenti all’Islam, al cristianesimo e all’ebraismo (Blondy è convinto che i dioula, la sua etnia, non siano altro che ebrei neri, originari della Giudea: anche per questo Gerusalemme gli è tanto cara) Alpha ha elaborato una ‘ideologia’ (riversata nei primi album, con alcuni hit che lo hanno rapidamente fatto amare), certamente non del tutto lineare e coerente, non priva di ambiguità, ma tutt’altro che sprovvista di una sua logica. A Blondy furono rimproverate le manifestazioni di riverenza contenute nelle sue canzoni nei confronti di Houphouet-Boigny, padre-padrone della Costa d’Avorio indipendente: ma Alpha ha difeso la sua valorizzazione di Boigny sostenendo che in lui vedeva una garanzia dell’unità della Costa d’Avorio, e che temeva che con la sua morte il Paese esplodesse nei conflitti interetnici. Purtroppo il rastafoulosophe, come è stato a suo tempo soprannominato con un gioco di parole in francese (pazzo-filosofo-rasta) per le sue apparentemente strampalate teorie e anche per alcuni comportamenti non proprio regolari (compresi tentativi di suicidio), vedeva lontano e lucidamente, se si deve giudicare dalla deriva della Costa d’Avorio, preda di tensioni etniche e xenofobe, che abbiamo sotto gli occhi. Il suo reggae visionario e impegnato, nel solco della lezione di Marley, nella produzione più recente si è riempito di contenuti politici sempre più chiari e netti, di prese di posizione scomode (sulla democrazia in Africa, il neocolonialismo e la presenza militare francese, il pericolo di conflitti etnici, la globalizzazione e il pensiero unico, le persecuzioni e gli omicidi di giornalisti) e che, per un musicista che vive in Africa, e nello specifico nella Costa d’Avorio, rivelano un coraggio fuori del comune. Negli ultimi anni Alpha è stato in prima fila nella mobilitazione dei musicisti ivoriani che hanno cercato di fare argine contro la degenerazione in senso xenofobo del Paese.

Rappresentante di una generazione più giovane (classe ’66), sulle scene già dai primi anni 80, Ismael Isaac è stato il più popolare esponente del reggae ivoriano dopo Alpha Blondy, del quale gli fanno difetto però il temperamento vocale e la personalità. Figura di notevole spessore è invece Tiken Jah Fakoly, che nella scia di Alpha Blondy considera il reggae uno strumento di denuncia. Ormai star di prima grandezza, Fakoly nel ’96 aveva ottenuto successo con Mangercratie, polemica proposta di un’alternativa alle varie ‘crazie’ utilizzate come paravento per una politica ridotta ad affarismo. Come Alpha Blondy, anche Fakoly è stato giustamente ossessionato dal pericolo del conflitto interetnico in Costa d’Avorio e dall’irresponsabilità di chi soffia sul fuoco della xenofobia per mantenere il potere, e si è speso per cercare di contrastarla.

Tra i Paesi che si sono fatti onore nel campo del reggae non si può trascurare il Sudafrica. Oggi quarantenne, Lucky Dube è uno degli artisti tra i più popolari del Sudafrica e colonna del reggae del continente nero. A Dube, che si è mostrato sensibile in particolare al modello di Peter Tosh, manca quel briciolo di follia, quel carisma che innalzano un Alpha Blondy a una grandezza che non rimane confinata all’interno di un genere, ma come interprete di reggae Dube merita la solida reputazione di cui gode anche a livello internazionale.

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Il caso del Senegal

Se in Africa il reggae ha attecchito maggiormente altrove, per esempio in Costa d’Avorio e in Sudafrica, in Senegal il rastafarianesimo ha trovato però un terreno particolarmente fertile in un fenomeno squisitamente locale, quello del movimento baye-fall.

I baye-fall rappresentano una branca molto particolare all’interno della confraternita specificamente senegalese dei murid, la più influente del Paese. Il muridismo è nato nella seconda metà dell’Ottocento dalla predicazione di Amadou Bamba, il fondatore della città santa di Touba, che si rifaceva alla tradizione sufi. Oltre che nell’inclinazione mistica, il muridismo ha i suoi cardini nell’assoluta devozione e sottomissione degli aderenti all’autorità del marabout, e nella centralità del lavoro nella filosofia della confraternita. Discepolo prediletto di Bamba, Ibra Fall, portato all’azione, diede un rilevante impulso allo sviluppo della confraternita: rispettoso dei dettami dell’Islam ma anche tollerante, Bamba ne apprezzò la dedizione al lavoro tanto da esentarlo dalla preghiera e dal digiuno. Una licenza che favorì l’assorbimento tra i seguaci di Fall anche di convertiti all’Islam il cui stile di vita si presentava non in linea con le regole della religione: per esempio i guerrieri tyeddo, noti oltre che per la loro fierezza anche per il debole per il vino di palma.

L’assimilazione dei tyeddo contribuì così a dare al movimento baye-fall (“baye” in wolof significa “padre”) il suo carattere militante da un lato e irregolare dall’altro (con punte persino eretiche). I baye-fall spesso indossano abiti arlecchineschi fatti cucendo in un patchwork pezzi di stoffa di diversi colori, e portano capelli lunghi, incolti e intrecciati, come manifestazione esteriore di rifiuto della vanità e dello spreco. Il loro aspetto e la pratica non ortodossa dell’Islam hanno attratto sui baye-fall molte simpatie nel mondo giovanile. Quando i baye-fall videro i primi rasta, trovarono nel loro abbigliamento eccentrico e nelle loro acconciature qualcosa di familiare: i dreadlock dei rasta per esempio li riconducevano ad un’idea di Africa delle radici a cui erano sensibili. L’uso della marijuana (pur proibito nella città di Touba e comunque illegale in Senegal) non era poi affatto una novità per i baye-fall, alcuni dei quali lo farebbero addirittura risalire ad Ibra Fall. Inoltre, nel solco della tradizione sufi, per i baye-fall la musica riveste una grande importanza, tanto da non riconoscerne il monopolio, come invece nella tradizione, ad una casta particolare.

L’esistenza del movimento baye-fall ha così favorito una vasta diffusione del rastafarianesimo e del reggae, portando ad una larga sovrapposizione e ibridazione dei due fenomeni: in Senegal un rasta è molto spesso anche un baye-fall.

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E in Etiopia?

In una grande città come Addis Abeba non mancano certo locali specializzati nel reggae. Tuttavia il reggae non ha conosciuto in Etiopia una significativa fioritura. Ma bisogna tenere conto che gli anni in cui questo avrebbe potuto avvenire sarebbero stati gli anni in cui, con la presa del potere da parte della giunta militare del Derg, alla metà dei 70 l’Etiopia entrava nel tunnel della dittatura: e anche del coprifuoco, che, sistematicamente mantenuto per i quasi vent’anni della dittatura, avrebbe tagliato le gambe all’attività musicale.

Con il regime dispotico di Menghistu l’Etiopia, dopo qualche speranza iniziale, finiva per trovarsi in una situazione nel suo insieme non migliore di quella vissuta sotto Hailé Selassié: non si dimentichi che a tanti altri drammi si aggiungeva anche la sanguinosa guerra con l’Eritrea che reclamava l’indipendenza. La musica moderna etiopica, che tra anni 60 e primi 70 aveva goduto, con una straordinaria e spregiudicata effervescenza artistica (qualificandosi come uno dei più notevoli filoni di musica africana moderna), di un clima di relativa apertura culturale e di costume consentito dall’ultimo Selassié, non si è tuttora molto ripresa dai due decenni di dittatura. Oggi la musica etiopica stenta ancora a recuperare livelli paragonabili a quelli toccati negli anni d’oro, prima che con Menghistu calasse il sipario.

In una produzione in generale piuttosto modesta, non è infrequente sentire, nel repertorio dei giovani interpreti, brani di impronta reggae, che per lo più mostrano però un’adesione piuttosto superficiale al genere: ricorrere al reggae sembra soprattutto un modo per proporre musica gradevole e riempire un vuoto di creazione originale. Ceneri, in un altro senso, di Marley.

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