25/05/2010

BAND OF HORSES

INFINITE ARMS (COLUMBIA / SONY)

Eccolo, il nuovo suono americano. I paesaggi di lassù, la natura immensa e onnipresente che ti ricorda a ogni passo quanto sei piccolo e quanto sei vivo, certi squarci di bellezza s’infiltrano nella musica dei gruppi rock dell’ultima generazione – il caso più clamoroso è quello dei Fleet Foxes che vengono dal Nordovest come Band Of Horses – fino a spingere idealmente la musica fuori dalle metropoli, verso i grandi spazi aperti. È come se la musica rock chitarristica, dopo aver fatto un bagno di birra scadente nel buio di un qualche locale, avesse ritrovato un’anima che vibra in armonia con la potenza serena e misteriosa della natura. L’istinto ribelle è rimpiazzato da un anelito di pacificazione. I timbri sonori graffianti si fanno eterei. Il senso di sfida virile fa posto a una dolce fragilità. È pur sempre classic rock. O meglio, è nuovo classic rock: prende i tratti dei classici e li rimette in gioco per un pubblico giovane che non ha mai pensato di ascoltare musica country-rock o West Coast e ora se la ritrova rimestata in un suono forse démodé, ma sgravato da quel senso di consunzione che trasuda dai dischi di certi americani rimasti imprigionati nel passato. Infinite Arms è così: un vecchio disco nuovo. Un senso di malinconico appagamento, come di tormento pacifico, informa l’album, il terzo dei Band Of Horses, forse quello decisivo. «In un certo senso» ha detto il cantante Ben Bridwell «è come se fosse il nostro esordio». La crescita dai tempi di Everyhting All The Time, anno 2006, è notevole. Ma pure il passo in avanti da Cease To Begin di tre anni fa è evidente, specie in termini di efficacia delle composizioni e di architetture vocali. A quanto dicono loro, alla fine dell’ultimo tour Bridwell, il tastierista Ryan Monroe, il nuovo chitarrista Tyler Ramsey, il batterista Creighton Barrett e il bassista Bill Reynolds si sono riscoperti band coesa e affiatata, collettivo in grado di parlare attraverso varie voci, non solo metaforicamente. Prodotto dal gruppo con Phil Ek e mixato da Dave Sardy, Infinite Arms pare riflettere lo spirito dei luoghi in cui è stato inciso: le Blue Ridge Mountains, le Hollywood Hills, il deserto californiano del Mojave, il Pacific Northwest dov’è nato il quintetto, la South Carolina dove s’è trasferito. Grandi spazi, paesaggi in cui perdersi, orizzonti da contemplare sono il sottotesto di un disco fatto di canzoni più che di suoni, di belle melodie più che di performance strumentali. Ecco, le canzoni: Band Of Horses non ne hanno mai messe tante buone una in fila all’altra. Rispetto ai due precedenti dischi i suoni sono più morbidi, rotondi, concilianti: Band Of Horses mettono in scena un gioco di seduzione sottile che potrebbe piacere tanto agli amanti dei Built To Spill, tanto a quelli di Neil Young, il cui stile è più volte richiamato. Anche quando i timbri chitarristici sono quelli slabbrati del southern rock, il disco non assume il carattere sanguigno tipico di quella musica, né offre performance brucianti di passione – un limite per chi dalla musica pretende esperienze viscerali. È vero che i testi non sono da songwriter di serie A e che manca una personalità musicale unica, un modo di suonare che è del quintetto e solo suo, ma la carenza è ampiamente controbilanciata dalla bellezza cristallina delle canzoni. La semplicità di fondo qui non rappresenta un limite. Al break strumentale di Laredo bastano poche note di chitarra elettrica, nulla di elaborato o difficile. Non si sente la mancanza di una spinta strumentale più articolata: le canzoni bastano a se stesse. A Blue Beard sono sufficienti poche note arpeggiate di chitarra elettrica e svolazzi vocali per sedurre, a Infinite Arms un senso di sospensione irreale. Gli intrecci elettro-acustici hanno il carattere sognante e spaesante di una scena al ralenti, come in un vecchio disco dei Grant Lee Buffalo. Le armonie vocali e la voce raddoppiata oppure caricata di riverbero sono diventate quasi un marchio distintivo, nobilitano le esecuzioni, le rendono più vivaci e danno slancio alle interpretazioni: aggiungono gusto a un disco malinconico, ma di una malinconia confortante. Bridwell ha un timbro piuttosto alto. La sua voce non ha il carattere incorporeo di quella di Jim James dei My Morning Jacket, ma entrambe possiedono una qualità rara: riescono a portare in una dimensione “altra” musiche altrimenti ovvie. Bridwell non ti aggredisce con brutalità, né cerca di accattivarsi la tua simpatia con un tono confessionale: ti rende partecipe della sua vulnerabilità. Ti fa osservare il “panorama” attraverso i suoi occhi. E quando canta nel registro più alto, come in alcuni passaggi di On My Way Back Home, dà la sensazione che le canzoni si vaporizzino, diventando come immateriali. Il lavoro segna un ulteriore avvicinamento al rock classico che sfocia in momenti come il ponte di Blue Beard o il ritornello di For Annabelle in cui pare di sentire gli Eagles, mentre l’amore per il country-rock è lampante nella magnifica Older: gruppi ben più dotati l’avrebbero resa elaborata e carica, loro mantengono sobrietà e freschezza, probabile retaggio “indie”, come se questa musica fosse nata ieri. Che siano un semplice accompagnamento con una chitarra elettrica o un crescendo su un tappeto d’organo, che si tratti di suoni d’ambiente che avvolgono il canto o di armonie a più voci pennellate con gusto, Infinite Arms è un disco di piccole vertigini, come quelle create dal cielo stellato fotografato da Christopher Wilson per la copertina.
Attualmente in tour coi Pearl Jam, sul sito ufficiale bandofhorses.com gli americani vendono (solo per gli Stati Uniti) il disco in edizione deluxe: cd, vinile da 180 grammi, dvd con video abbinati a ogni canzone in surround 5.1, un codice per la versione digitale, un libro fotografico di 100 pagine di Wilson. I suoi scatti, ora di paesaggi naturali maestosi oppure malinconici, ora di angoli di città inattesi e spogli come in un quadro di Hopper, sono un commento visivo perfetto alla poetica del disco. Ecco, Infinite Arms è un album di panorami musicali americani. Ma non crediate che la band stia aggrappata alle radici come certi rocker che considerano la musica un terreno ereditato da preservare inalterato. Qui gli scenari sono come tramutati, trasformati, trasfigurati. Sono risognati.

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