27/03/2007

Beth Orton

Love Letters From Verona

“Perché ho scelto Verona per le interviste? Perché è fucking beautiful!”
Beth Orton sarà anche l’angelo della musica d’autore, ma il suo linguaggio è più vicino a quello di Keith Richards dei tempi migliori. Le “four letter words” le escono di continuo di bocca, ma chi se ne frega: per incontrarla ci siamo docilmente sottoposti a una trasferta fino alla città di Giulietta e Romeo, che Beth ha scelto per incontrare i giornalisti di tutta Europa in occasione della presentazione del suo nuovo disco, Daybreaker. E proprio nei giorni della canicola più feroce, quando tutta Italia sta agonizzando sotto temperature da deserto del Sahara. Quando esco per una mezz’oretta dall’albergo dove la cantautrice alloggia, giusto per andare a vedere il balcone di Giulietta, torno indietro strizzando la t-shirt inzuppata di sudore. Ma quando entro nella piccola suite dove lei incontra, uno per volta, i giornalisti, è come se si spalancasse una finestra sulla più fresca delle isole hawaiane: Beth è uno splendore nella sua bellezza e nella sua dolce semplicità, due occhi meravigliosi che sprigionano felicità a tutte le latitudini. Per una ragazza che ha perso entrambi i genitori per una malattia che ha colpito (si spera non con lo stesso esito) anche lei, Beth Orton è un esempio vivente di come si possa affrontare serenamente la vita anche nelle condizioni più difficili. “Che cosa sono i rimpianti? / Sono solo lezioni che ancora non abbiamo imparato / Come cercare di catturare la neve con la lingua / Non si può appiccicare una farfalla con uno spillo”, cantava Beth in Sweetest Decline, ed è probabilmente questa la chiave per accettare anche il dolore più grande e vivere in pace.
Forse è la musica che le dà tanta forza. “Sono una persona fortunata”, dice spesso. “Ho conosciuto William Orbit per caso, una sera in discoteca. Quando Dr. John si trovava a registrare nello studio accanto al mio, è venuto spontaneamente da me chiedendomi se mi faceva piacere se suonava il pianoforte in una delle mie canzoni. E Ben Harper, Ryan Adams, Emmylou Harris. wow!”
Già: chi non vorrebbe passare almeno un’oretta accanto a questo angelo travestito da cantautrice? C’è la fila per incidere con lei, come oggi c’è la fila di giornalisti alla porta della sua camera. E quando i colleghi escono dalla sua stanza sembra che siano usciti da un incontro con qualche guaritore spirituale, un prete o un guru, che ha svelato loro il segreto della felicità terrena: tutti, uomini e donne, hanno stampato sul volto un sorriso fanciullesco e sembrano camminare su una nuvoletta.
Sebbene Daybreaker non sia affascinante quanto Central Reservation, contiene sufficienti momenti per trovare quel senso di universalità spirituale che la musica di Beth Orton, nei momenti migliori, è capace di regalare: “Daybreaker”, dice lei stessa, “è il sole che sorge, l’inizio di un nuovo giorno e il suono di un disco che sta girando mentre irrompe l’alba”.
Central Reservation aveva la forza di quei classici della musica come se ne ascolta uno ogni vent’anni, e onestamente non si poteva pensare che Beth riuscisse a replicare se stessa in egual misura così presto, ma va bene lo stesso, perché la cantautrice inglese sta ancora “chiamando gli angeli sulla terra” con le sue canzoni, e se questa volta c’è qualche angelo in meno, l’importante è che quell’angelo che risponde al nome di Beth Orton stia ancora facendo dei dischi. Continueremo a seguirla nel suo cammino, su questo non c’è dubbio.

Dicono che le tue canzoni siano tristi. Jeff Tweedy, un altro accusato di scrivere solo cose tristi, mi diceva che è proprio quel tipo di canzoni a renderlo felice. E a te?
Anche! Non ho mai capito che cazzo vuol dire “essere felice”, come se essere felici volesse dire dimenticarsi della vita vera, non essere in contatto con se stessi fino in fondo. Mi urta questa ossessione del dover dimostrarsi felici e contenti a tutti i costi. Non esiste proprio. L’essere umano è qualcosa di così complesso e multidimensionale, pieno di emozioni e di desideri. E io mi sento così: piena di emozioni e cerco di comunicarle tutte. In una parola: mi piace essere viva!

Quanto ci hai messo a registrare il nuovo disco? Ti sei trovata più a tuo agio, in studio, questa volta?
Oh, circa otto mesi, anche se il lavoro complessivo è durato più o meno un anno. Non sono una persona che si pone il problema di come registrare, dal punto di vista tecnico, un disco. Per me è semplicemente: divertiti oppure interrompi. Però devo ammettere che per i miei dischi precedenti avevo sofferto di una certa mancanza di confidenza con il processo di registrazione, non mi fidavo del mio istinto. Daybreaker, per me, è stato una sorta di esperimento nei confronti della mia capacità di fidarmi di me stessa e dei miei istinti. Ho cercato di essere il più semplice possibile, ho voluto lavorare con gli stessi musicisti che mi accompagnano abitualmente dal vivo. Ad esempio per Thinkin’ About Tomorrow è cominciato tutto con dei riff di chitarra di Ted (Barnes, chitarrista della band di Beth, nda) e io che improvvisavo una melodia. Ma questa è stata solo una delle strade: da un punto di vista c’era gran libertà, da un altro avevo il controllo totale.

Quando uscì Central Reservation in tutto il mondo ci fu una gara a scrivere che questo era uno dei più bei dischi mai pubblicati in anni e anni, cosa che ho fatto anch’io. Come convivi con queste aspettative? Troppa pressione?
Ti dico la verità: non leggo mai le recensioni dei miei dischi. Ma. wow. è la prima volta che sento dire questo dei miei dischi e sono davvero. lusingata. Ma certo, in questo lavoro c’è un sacco di pressione, sento le aspettative che ci possono essere per il mio prossimo disco. Sarà meglio del precedente? Sarà peggio? Io scrivo canzoni comunque, e quando è il momento di pubblicare un disco cerco di mettere insieme quello che ho di pronto, senza cercare di essere vittima della pressione.

Ti capita mai di riascoltare Central Reservation o Trailer Park, i tuoi vecchi dischi?
No, non ascolto mai quello che ho inciso. Daybreaker è già un disco vecchio per me e ancora non è stato pubblicato. Magari quando sarò vecchia mi metterò lì a risentire tutti i miei album. Ma adesso mi sto già muovendo verso qualcosa d’altro.

In passato hai lavorato con Ben Harper e Dr. John, adesso con Ryan Adams, Johnny Marr e Emmylou Harris. Come nascono collaborazioni così prestigiose?
Per Daybreaker non volevo nessun tipo di ospite. Volevo solo la mia band. Ci tenevo a una situazione familiare. Ma sai, una cosa porta a un’altra. Con Ryan Adams è successo che mi ero innamorata pazzamente del suo Heart-breaker, un disco che mi ha commosso e ispirato tantissimo.

Conoscevi il suo vecchio gruppo, i Whiskeytown?
Sì, ma non sapevo che Ryan Adams era nei Whiskeytown! Ecco qua che bell’ignorante che sono.

Come vi siete conosciuti, allora?
Heartbreaker mi era piaciuto così tanto che ho fatto qualcosa che non avevo mai fatto prima e che odio fare: il mio management si è messo in contatto con il suo. Ad esempio: con Ben Harper avevamo fatto insieme qualche data e così decidemmo di incidere qualcosa insieme. Oppure Emmylou Harris: la conobbi a Nashville, durante il Lilith Fair Tour a cui prendevo parte. Venne a presentarsi spontaneamente, fu davvero carina, così le regalai un braccialetto pensando che non ci saremmo mai più incontrate. Poi, quattro anni dopo, l’ho incontrata a un concerto: lei aveva ancora il mio braccialetto! Non potevo crederci. Allora le feci sentire God Song, perché sapevo che lei aveva apprezzato Sugar Boy, una canzone del mio primo disco, e pensavo potesse apprezzare anche questa. Mentre lei si esibiva, quella sera, continuavo a chiedermi: “Cazzo, avrò il coraggio di chiederle di inciderla con me? Mi dirà di sì? Oh, non ce la farò mai a chiederglielo.”. Ero troppo intimorita, così le scrissi una lettera e la diedi a John Prine che era lì anche lui quella sera, chiedendole se voleva duettare con me. Qualche tempo dopo mi chiamò, dicendomi che era disposta a incidere con me. Fantastico, amo Emmylou!

Torniamo a Ryan Adams. La sua canzone che hai inciso è stata scritta apposta per te o cosa?
Ryan, ok. Venne in studio, eravamo d’accordo che avrebbe duettato con me e basta, in un pezzo (Concrete Sky, nda). Ma poi una mattina alle sette, stavo andando a dormire, arriva e mi fa: “Ehi, ehi, ho una canzone per te, devi cantarla, devi registrarla!”. La ascoltai e urlai: “Cazzo! È bellissima, certo che la registro!” (si tratta di This One’s Gonna Bruise, nda). La provammo un paio di volte, andai in studio e la registrai in una sola take.

Ho sentito la cover di Brown Sugar che tu e Ryan avete fatto per la rivista Uncut. Devo dire che è alquanto. scioccante. Di chi è stata l’idea di quell’arrangiamento così particolare?
È stata una sua idea, naturalmente! E chi altri poteva fare Brown Sugar in quel modo? Si è messo al pianoforte, continuava a dire: “Wow, è una figata, canta canta” e io dicevo: “Non posso cantare questa roba qui!”. E lui: “Certo che puoi! Canta!”. Insomma.

E Johnny Marr?
Ero a Los Angeles, l’ultima data del Lilith Tour. Ero andata a cenare nella tenda dei musicisti, stavo parlando con un mio amico, l’ingegnere del suono di Beck, quando attaccai bottone con un altro tizio. Andammo avanti per venti minuti e finalmente gli chiesi che cosa facesse nella vita. “Sono un chitarrista”, mi rispose, “forse hai sentito parlare del gruppo in cui suonavo, gli Smiths.” ‘”Cazzo!”, urlai, “sei Johnny Marr!!” Era nel mio stesso albergo, venne un paio di sere a suonare nella mia camera portandosi una bottiglia di vino. Avevo un paio di canzoni su cui stavo lavorando, come Concrete Sky che a lui piacque molto e che volle aiutarmi a completare.

La mia canzone favorita di Daybreaker, per adesso, è Carmella.
Wow. Pensa che è una vecchia canzone che per un motivo o un altro non era mai finita in nessun disco. Ryan ha avuto modo di ascoltarla e mi ha consigliato di inciderla, una volta per tutte.

Ho letto che hai detto che God Song deriva dal vecchio traditonal Frankie & Johnny. Cosa significa, per te, folk music?
Mi piace, mi piacciono le storie che vi vengono raccontate, fanno parte di una interazione sociale che oggi non esiste più, quella tradizione che forse esiste ancora in paesi come l’Italia o la Spagna: gente che parla, che racconta pettegolezzi, si tramanda episodi di vita, insomma sono canzoni che facevano parte di un tessuto popolare forte, di una comunità. Amo questa tradizione musicale: ad esempio quando si scriveva una canzone su di un fatto e qualcun altro ne scriveva un’altra in risposta alla precedente. Così God Song, nel mio piccolo, è la risposta a Frankie & Johnny.

Hai mai pensato di incidere un disco di vecchie folk song?
Piuttosto un disco di new folk songs.

Dove prendi l’ispirazione per le tue canzoni?
Mi ispiro ai rapporti interpersonali e ai viaggi che faccio. Ad esempio Paris Train, ispirata da un viaggio in treno a Parigi. Cerco di costruire delle storie, dei piccoli film, delle sceneggiature. Non sono una gran lettrice di libri, vado a momenti, ma mi piace la struttura narrativa.

Ma quanto c’è di autobiografico nelle tue canzoni? Non ti capita mai di sentire che stai dando via troppo di te stessa a degli sconosciuti?
Non credo che stia dando via troppo di me stessa nelle mie canzoni, forse succedeva nei miei primi due album e nei miei primi tour. A volte mi è successo di guardare il pubblico e di domandarmi che stavo facendo, soprattutto quando questi parlano e non prestano attenzione. Ma quello che sto cercando di fare adesso è di raccontare delle storie, non necessariamente a proposito di me stessa. Mi piace definirmi una cantastorie.

Cosa ne pensi della scena elettronica attuale? È ancora qualcosa di interessante?
Oh sì, assolutamente. Andrew Weatherhall (il produttore di Screamadelica dei Primal Scream, nda) è tornato di nuovo alla sua forma migliore, e poi c’è questa scena folk electronica norvegese e svedese che è fantastica.
Voglio dire: non mi interessa quella merda techno, quello stupido rumore per rincoglionirsi, ma c’è molta musica elettronica di livello eccezionale.

Voi donne state salvando la musica: tutti i dischi più belli sono opera di donne…
Essere una donna vuol dire essere ancora giudicata… Le donne stanno ancora vivendo un
grande momento di emancipazione, non è passato così tanto tempo da quando non avevamo praticamente alcun diritto, e forse è per questo che ci sono così tanti bei dischi di donne oggigiorno. Ci stiamo ancora sfogando.

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