05/06/2007

Black Sabbath

Black Sabbath (Vertigo, 1970)

È sempre aperta la discussione su cosa sia l’heavy metal o meglio su quale sia la band che meglio ha interpretato questa definizione. Alcuni anni fa un sondaggio tra i musicisti ha dato le risposte più disparate: si passava dai Motorhead agli Iron Maiden, transitando tra Judas Priest, Led Zeppelin e Kiss. Il nome più citato e quindi in qualche modo vincitore è stato però quello dei Black Sabbath. E sinceramente come definire se non «metallo pesante» il rock viscerale dei Black Sabbath? Almeno dei primi Black Sabbath, quelli sulfurei e terrosi guidati dalla voce sgraziata dell’ex macellaio Ozzy Osbourne, che urlava sopra i riff sanguinolenti di Tony Iommi, sorta di messia nero dall’aspetto lugubre e dal ghigno nascosto sotto i baffi. Il tempo ha dimostrato che i Black Sabbath sono l’essenza del rock duro, quelli che più di tutti hanno influenzato orde di musicisti, quelli che si sono trovati addosso mille eredi, mille tributi, mille generi (diciamo per gradire doom, dark, stoner, black, thrash…). Un certo modo di intendere il rock, ovvero un suono sporco e impulsivo, fatto di riff figli di un’indole killer, ha fatto di Tony Iommi il signore nero della chitarra elettrica e di un sound coniato con una tecnica rozza e brutale, ma capace di far tremare i muri con un volume pazzesco e con un cataclisma di suoni, lontanissimo dalle fattezze eleganti di colleghi contemporanei come Uriah Heep e Deep Purple. Ma la cosa stupefacente è che i primi Black Sabbath raccoglievano successi e mietevano fan senza sosta, nonostante, ma forse proprio per questo, le accuse di satanismo e di incontri ravvicinati con dottrine poco raccomandabili.
Ma scopriamo come riescono i Black Sabbath a forzare il falso moralismo britannico e a portare la fertile, ma povera Vertigo, un’etichetta sempre attenta ai gruppi coraggiosi, tra le prime posizioni sia in Inghilterra che in America. Impresa ardua se pensiamo al tipo di proposta del quartetto. È il febbraio del 1970 quando le note occulte e funeree di Black Sabbath aprono il disco di esordio del gruppo omonimo. Una pioggia battente, tuoni in lontananza e una campana a morto che emana rintocchi inquietanti: in questo clima si innesta una breve sequenza di note sulfuree che danno corpo all’immagine terribile di copertina, dove una figura inquietante si aggira in un parco trascurato nei pressi di un laghetto a ridosso di una casa abbandonata. Tutto molto cupo e tutto in linea con le sonorità avvolgenti e spaventose che alimentano la canzone, un classico dei classici dell’heavy metal. L’atmosfera di tensione è ingigantita dalla voce rozza e senza grazia di Ozzy Osbourne, il perfetto anti-frontman dall’immagine rotonda e da cui le donne vorrebbero fuggire. Il pezzo è un vulcano pronto a deflagrare e infatti nota dopo nota giunge al culmine e il richiamo per l’antico rito del sabba nero sembra concretizzarsi davanti ai nostri occhi, mentre il basso accompagna il crescendo della chitarra che si lancia in un assolo lancinante pieno di echi ed effetti.
The Wizard si apre con un’armonica a bocca che poi duetta con una chitarra ipersatura, un’idea che dimostra come i Black Sabbath siano molto di più che solo volume ed energia; il riff spezzato che poi sviluppa la canzone è uno dei più copiati dell’intera storia del rock duro. L’inizio di Behind The Wall Of Sleep lascerebbe supporre un brano meno cacofonico e infatti la sua andatura cadenzata richiama l’ipnosi del sonno, ma la differenza i Black Sabbath la fanno sempre con il suono: non c’è traccia di grazia tra le pieghe della chitarra e la batteria sventaglia tutti i suoi piatti rumorosi, per evitare equivoci armonici. Il basso vivo e pulsante di Geezer Butler irrompe in apertura di N.I.B., per poi lasciare spazio alla chitarra che edifica un riff strutturato su due ottave diverse, permettendo ad Ozzy Osbourne di esprimersi con varietà di toni («Lucifero è il mio nome… ti prego, prendimi la mano», canta l’ex macellaio). Bellis-simo l’assolo centrale di chitarra, che proietta Tony Iommi nell’olimpo dei grandi «guitar heroes» del suo decennio.
L’ampiezza di temi, che fa di Black Sabbath un classico, è confermata anche nella rilettura di Evil Woman (Don’t Play Your Games With Me), in possesso di un ritornello gradevole, seppur scarno di arrangiamenti, nel tipico stile sabbathiano. In Sleeping Village ascoltiamo i Black Sabbath più sulfurei e psichedelici, che in oltre dieci minuti strapazzano il blues, possiedono ed esorcizzano il folk britannico e frantumano le regole dell’hard rock per edificare una canzone che sembra quasi un rito iniziatico, tale è la vastità di temi che si accavallano. Rito che sembra concretizzarsi nella parte centrale, con una parte atipica che odora di colonna sonora di film horror. Warning, un rock’n’roll acido e malato scritto dal famoso batterista Ansley Dumbar per il suo gruppo Retaliation, diventa il tassello conclusivo di un album di straordinaria intensità, che dopo tre decenni non sembra aver perso nulla del suo aspetto inquietante e anzi, nei suoi momenti più importanti e significativi, continua a stregare orde di fan di ogni generazione, influenzando migliaia di musicisti giovani e meno giovani, in ogni angolo del mondo.
Sin dal secondo album Paranoid per i Black Sabbath sarà leggenda. Una leggenda che non conoscerà pause e soste (come dimostrano capolavori come Master Of Reality, Vol. 4, Sabbath Bloody Sabbath), nonostante i tanti cambi di formazione, tra cui il chiacchierato ingresso del cantante Ronnie James Dio al posto di uno spento Ozzy Osbourne (che si rifarà con una strabiliante carriera solista) per due dischi notevoli come Heaven And Hell e Mob Rules. La voce di Tony Martin ingigantisce invece l’ottimo Headless Cross, mentre non saranno edificanti i ritorni di Ronnie Dio e quello recente di Ozzy Osbourne, strappato per un attimo alla sua improbabile carriera di attore televisivo nel «reality show» Gli Osbourne, dedicata alla sua famiglia, una trovata pubblicitaria dal forte profumo di dollari e nulla di più. Recentemente nella galassia Black Sabbath hanno fatto molto di meglio l’oscuro Geezer Butler con due lavori di metal moderno e futurista e Tony Iommi con un album in cui si è circondato di giovani musicisti di successo, che sono accorsi in massa per tributare la giusta riverenza al re e per dimostrare a tutti che i Black Sabbath non sono stati solo i primi a suonare l’heavy metal, ma di fatto sono ancora oggi i migliori. Non tanto per la qualità delle loro recente produzione, ma perché il vecchio materiale suona ancora terribilmente attuale.

Dischi nella medesima vena artistica

Saint Vitus / Saint Vitus (Sst, 1984)
Fedeli osservanti del verbo sabbathiano, gli americani Saint Vitus sono i principali esponenti del doom metal degli anni Ottanta, tanto da dare vita negli anni, probabilmente inconsciamente, a un vero e proprio ritorno del genere, che poi sfocerà nello stoner. Devoti al riff tombale e pronti ad impennate ritmiche violente e terribili, l’heavy metal dei Saint Vitus è cupo e affascinante come sapeva essere quello dei primi Black Sabbath. Ed è proprio per questo che ne sono innamorati tutti i fan del metal libero e selvaggio, dove l’unica regola è quella di abbandonare la melodia. Non dei semplici imitatori, ma realmente un grande gruppo.

Trouble / Psalm 9 (Metal Blade, 1984)
L’esordio dei chicaghesi Trouble irrompe sulla scena nel pieno della prima età aurea del metal, recupera il feeling dei Seventies, ma aggiornandone le sonorità. I riff sono poderosi, ma non mancano eleganti spunti melodici. Parte dei testi verte su tematiche religiose, sempre però da un punto di vista da cristiano credente, tanto che vennero presto intruppati nella schiera del cosiddetto «white metal».

Pentagram / Pentagram (Pentagram, 1985)
Attivi, sotto altri connotati, sin dai primi anni Settanta, i Pentagram meritano il titolo di «Black Sabbath dei poveri», ma solo per lo scarso successo, non certo per l’attitudine e la qualità dei loro dischi, assolutamente impeccabili per forma e idee che alimentano un doom metal cadaverico, coniato su riff agghiaccianti, ritmiche impastate e cavalcate psichedeliche. Proprio come documenta questo straordinario manifesto doom, debutto registrato dopo anni di concerti in giro per l’America. Se oggi il doom metal è un genere in voga lo dobbiamo anche al cantante Bobby Liebling, che ha sempre creduto in questo tipo di suono anche quando tutti lo davano per spacciato, ergendosi a paladino del dark rock, mantenendo in vita la sua band, arrivando indenne e puro fino ad oggi, producendo ottimi dischi, come dimostrano le ultime due recenti opere Review Your Choices e Sub-Basement.

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