03/09/2007

Dave Grohl

Il McCartney del grunge

S’accarezza il pizzetto, inarca le gambe, strabuzza gli occhi. Quando Dave Grohl racconta un aneddoto, te lo racconta con tutto il corpo. È un vero spasso, ché scriverlo non è la stessa cosa, ché devi vedere le espressioni che fa, il lampo che ha negli occhi. Racconta, ad esempio, che nell’autunno del 2006 i Foo Fighters in formazione acustica hanno aperto una mezza dozzina di date di Bob Dylan. Pronuncia il nome di Dylan dopo aver lasciato una piccola pausa di suspense, e lo fa con ammirazione e stupore. “Dei presenti in sala un 10% saranno stati nostri fan, un altro 30% sapeva vagamente chi eravamo, tutti gli altri non avevano la più pallida idea di chi fossero i Foo Fighters. All’inizio ero intimidito: come ci avrebbero accolto? Ci avrebbero massacrati? Ero pronto al peggio. Ma alla fine del concerto erano tutti in piedi ad applaudire”. Ma Dylan, l’hai incontrato? “Senti qui. Un giorno nel backstage viene un tipo dell’organizzazione e mi fa: Bob ti vuole vedere, adesso. La prima cosa che ho pensato è stata: oh merda, che cosa ho fatto di male? Il tipo mi dice di seguirlo. Ci inoltriamo in un corridoio buio. Sono così teso che mi aspetto un agguato da un momento all’altro, pareva di stare in uno di quei film di gangster, presente? Entro e finalmente lo vedo: sta appoggiato al muro, pantaloni e camicia nera, un cappello da cowboy gli copre il viso. Sembra la morte in persona. Il triste mietitore. Per un attimo penso sul serio che sia giunta la mia ora. Mi rilasso quando mi fa: Dave, com’è quella canzone che fate? Everlong? Perché non m’insegni come si suona?”. E tu, l’hai fatto? “Scherzi? Gli ho detto: Bob, col repertorio che hai, che te ne fai di Everlong?”.

Siamo all’Odeon di Amsterdam, un locale alla moda affacciato sul canale Singel. Per lanciare il nuovo album Echoes, Silence, Patience And Grace i Foo Fighters hanno scelto la sala nel piano interrato, che dal 1838 ospita performance musicali e teatrali. Entrano i quattro musicisti e Dave attacca a parlare: “Ero in aeroporto e m’immaginavo le vostre domande: Dave, qual è il punto di vista giusto da cui vedere il disco, qual è la storia che c’è dietro? La verità è che non ne ho idea. Vi posso dire che dopo il tour di In Your Honor l’idea era prendersi un anno di vacanza. Beh, era un’idea orribile. Allora abbiamo chiamato Gil Norton, che aveva prodotto The Colour And The Shape, e abbiamo registrato questo disco in modo piuttosto veloce. Voglio dire, questa volta l’abbiamo dovuto incidere una sola volta…”. La battuta non passa: non tutti sanno o ricordano le disavventure dei Foos che in studio sono loro malgrado abituati a fare e disfare gli album.
Echoes, Silence, Patience And Grace, continua Grohl, rappresenta l’identità della band Foos dopo 13 anni di vita, dopo il tour acustico, dopo i festival. “In pratica, ci possiamo permettere di fare quel che vogliamo, di incidere la musica che ci passa per la testa. Non avevamo idee preconcette, ci premeva semplicemente selezionare le canzoni migliori, indipendentemente dal fatto che siano suonate con la chitarra elettrica, il pianoforte o la fisarmonica. E dopo che hai suonato davanti a 50 mila persone, sai riconoscere i pezzi che funzionano”. Interviene il batterista Taylor Hawkins: “Le canzoni migliori: questo è il punto di vista del disco”.
Fine della storia. La band si dilegua e i giornalisti ascoltano l’album che non sarà pubblicato prima del 21 settembre. Annunciato come un lavoro talmente eclettico da mettere insieme NoMeansNo e Steely Dan – una definizione tanto colorita quanto fantasiosa – è la logica continuazione del precedente In Your Honor. Il secondo dischetto dell’album di due anni fa e il tour acustico del 2006 non erano evidentemente un capriccio: i Foo Fighters hanno ampliato la loro tavolozza di colori e stanno imparando a mischiare in modo organico i ganci elettrici e le carezze acustiche, il rock di derivazione hardcore e quello kitsch anni 70 (vedi recensione a pagina 85). Concluso l’ascolto, i quattro Foo Fighters tornano e si mischiano ai giornalisti. Finisce che Dave resta a chiacchierare a ruota libera fino all’una di notte. Riceve pacche sulla spalla, scambia una parola con tutti, si mette in posa per le fotografie di rito. È di una disponibilità straordinaria, la sua vitalità è contagiosa, merita il nomignolo di “nicest guy in rock”. Dice che proprio in questi giorni stanno architettando il prossimo tour: “Dovrà tenere conto anche delle canzoni più soft. Non sappiamo se faremo come i Led Zeppelin, che si sedevano e suonavano un intermezzo acustico, se alterneremo le parti, quanti musicisti ci saranno sul palco”. Gli chiedono di Home, la ballata che chiude l’album e che esprime in modo inaspettatamente tenero la nostalgia di casa. “Da quando sono diventato padre” dice riferendosi alla piccola Violet Maye nata nell’aprile 2006 “sono cambiate molte cose. Ora restare lontano da casa è sempre più difficile. Ho cercato di condensare i miei sentimenti in quella canzone. È talmente personale che pensavo di non includerla nel disco. Anche prima, mentre l’ascoltavate voi giornalisti, ero al piano di sopra e mi sentivo a disagio. Ma in fin dei conti, mi sono detto, non è anche questo il motivo per il quale uno fa musica, non è per condividere dei sentimenti?”. Confessa: “Mi sono iscritto a un sito che settimanalmente ti manda una mail aggiornandoti sulla crescita del tuo bimbo. Beh, un giorno Violet comincia a reagire alla musica, metto su un disco degli Zombies e lei balla. Pochi giorni dopo accendo il computer e mi arriva una mail dal sito: questa è la settimana in cui vostra figlia inizierà a reagire agli stimoli musicali. Ma ci credi?”.
Ci credo e credo che Dave abbia preso molto seriamente l’impegno di padre. A 38 anni, sembra dotato dell’equilibrio necessario per conciliare la vita da rocker e quella del padre di famiglia. È in un momento cruciale della sua carriera, quello in cui all’esuberanza giovanile deve sostituirsi qualcosa. La musica di Echoes, Silence, Patience And Grace riflette le pulsioni dell’uomo e porta i Foo Fighters su un terreno più “adulto” senza per questo snaturarne l’essenza di gruppo rock votato al divertimento, teso fin dalla nascita a dimostrare che si possono mettere insieme senza farsi troppi problemi i Black Flag e Steve Miller.
Dave si accende anche quando parla dei suoi idoli. I Foos hanno aperto per i Police a Los Angeles: com’è Stewart Copeland visto da un altro batterista? “È lo Stewart di sempre: suona troppo e troppo veloce. Sono pochi i batteristi che riconosci dal sound e lui è uno di essi: è un segno di grandezza”. Due sigari e cinque birre dopo, si finisce inevitabilmente per parlare dei Led Zeppelin. In fin dei conti Grohl è uno che ha sulla pelle uno, due, forse tre tatuaggi di John Bonham. “Quando ero ragazzo non credevo in Dio. La mia religione erano i Led Zeppelin. Non esagero. Comunque, c’è un negozio in Giappone che vende solo ed esclusivamente bootleg degli Zeppelin. Il tizio che lo gestisce me ne ha spedito uno della seconda metà degli anni 70 in cui facevano veramente schifo. È la prerogativa delle grandi band: quando va tutto bene fanno un grande concerto, ma se va male allora le cose vanno veramente a rotoli. Ecco, ascoltare i miei idoli assoluti, le mie divinità suonare così, verificare la fallibilità di questi mostri, capire insomma che erano anche loro umani me li ha fatti sentire ancora più vicini”. Dice di sapere “da fonte certa” che la reunion ci sarà. “Sogno sempre di incidere un album con me alla batteria, Josh Homme alla chitarra e John Paul Jones al basso”. Ma a Jones, che conosce perché ha collaborato a In Your Honor, gliel’ha proposto? “Oh no” risponde che pare un bimbo che ha espresso un desiderio troppo grande.

Davanti all’hotel Grand Amsterdam staziona una comitiva di turisti giapponesi. Non sono qui per i Foo Fighters, ma per fotografare la facciata cinquecentesca, sede un tempo d’un convento. Io invece sono qui per un incontro coi Foos dopo l’ascolto e la chiacchierata di ieri. Mi toccano il batterista Taylor Hawkins e il bassista Nate Mendel. Il primo è un po’ l’alter ego di Dave, nonché suo amico fraterno (oltre ad essere dal 2006 fautore di un progetto solista, vedi il cd Taylor Hawkins & The Coattail Riders, non ancora uscito in Italia); il secondo è entrato nel gruppo prima dell’incisione del secondo album The Colour And The Shape di dieci anni fa. Sono di ottimo umore e inframmezzano le risposte con battute e risate. L’impressione, dico loro, è che Echoes, Silence, Patience And Grace mette assieme le due anime – quella elettrica e quella acustica – che In Your Honor separava nettamente. “L’idea era proprio questa” commenta Taylor. “Nel disco precedente le canzoni dure erano tutte su un dischetto e quelle acustiche su un altro. Qui i due aspetti sono intrecciati. Ovviamente non siamo la prima band a farlo: gli Zeppelin l’hanno fatto molti anni fa, e come loro i Beatles, i Queen e centinaia d’altri gruppi. Ma per noi la cosa è nuova ed eccitante. È una boccata d’ossigeno suonare pezzi nuovi come Come Alive, Let It Die o persino Erase/Replace, tutte canzoni basate sull’intreccio di due diverse dinamiche: acustico/elettrico, soffice/duro, luce/ombra. In questo momento nella storia del gruppo trovo che la cosa più divertente sia suonare proprio questi pezzi: ogni volta che ne attacchiamo uno è come iniziare un viaggio.
Nate: È come se fin dall’inizio nascesse una tensione speciale…
Taylor: È una questione di dinamica e di vibrazioni. È divertente. Ed è una sfida nuova.
Echoes è prodotto da Gil Norton. In quale misura un produttore influisce sul sound dei Foos?
Taylor: Gil è un vero produttore. Nick Raskulinecz è un grande fonico, ma ha sostanzialmente co-prodotto In Your Honor. E anche Adam Kasper, nonostante le intenzioni e le idee di partenza, non ha prodotto One By One. Dave l’ha fatto. Gil, invece, ci ha messo del suo. Ci sono stati degli scontri con Dave? Sì. Dave era abituato in pratica a co-produrre i dischi e si è trovato di fronte un’altra persona con idee forti. Credo che gli abbia fatto bene, anche se so che è stato duro. Per noialtri invece è stato meglio sentirsi dire che cosa fare da una persona esterna piuttosto che da un amico, che incidentalmente è anche il tuo capo.
E dove si sente, Gil?
Taylor: Nel fatto che il disco è più levigato degli ultimi due. Non so se levigato è la parola giusta, ha una connotazione negativa. Diciamo che ha un suono più pulito. È merito anche di Adrian Bushby: il fonico migliore con cui abbiamo lavorato.
Nate: Aggiungerei che c’è una maggiore attenzione ai dettagli.
Taylor: Un po’ come The Colour And The Shape. Che infatti era prodotto da Gil.
In che misura i Foo Fighters sono migliorati negli ultimi anni?
Taylor: Siamo migliorati dal vivo. Il sound è più coeso, ci ascoltiamo di più. L’essenza di una band sono le esibizioni, no?
Taylor, durante il tour cantavi un pezzo: era spaventoso farlo davanti a decine di migliaia di persone?
Taylor: No, perché lo facevo verso la fine dello show, quando ci si aspetta solo di divertirsi. Io cantavo e Dave si sedeva alla batteria: sorvoliamo sul fatto che quella doveva essere una canzone alla Eagles e lui la suonava come una dei Metallica (ridacchia, nda).
Come sono i rapporti tra di voi?
Taylor: Non c’è frizione. Se qualcuno discute, siamo io e Dave. Ma so chi è il leader della band. È uno dei miei migliori amici, io sono stato il testimone delle sue nozze e lui delle mie. Sono il fratello minore che Dave non ha mai avuto.
Nel nuovo cd ci sono tracce del classico sound californiano…
Taylor: Sì c’è un che di californiano. Un che di solare. Un che di Laurel Canyon.
Nate: Un che di cocainomane.
Taylor: Nasi imbiancati di coca. Peaceful easy feelings… (risate, nda).
Dietro a Ballad Of The Beaconsfield Miners c’è una storia vera: i minatori intrappolati che chiedono un iPod con la musica dei Foo Fighters. Ci sono altre storie interessanti dietro le canzoni di Echoes?
Nate: Quanto vorrei che ce ne fossero altre…
Taylor: Il tuo lavoro sarebbe più facile…
Beh, c’è Cheer Up, Boys…
Taylor: Dave l’ha scritta dopo avere visto su MTV queste nuove band americane, quelle che chiamano emo, con tutti quei ragazzi dai capelli corvini e con l’eyeliner che al posto di cantare piagnucolano (li imita: straziante, nda). Ma non è un affondo cattivo, è un po’ come prendersela con i primini a scuola.

“I Beatles, capisci?!”. Dave Grohl racconta con gli occhi ancora pieni di meraviglia la visita agli studi di Abbey Road. “Ho messo le mani sul piano col quale è stata suonata A Day In The Life e quello su cui fecero Lady Madonna! Eravamo lì per incidere una nostra versione di Band On The Run degli Wings per uno speciale della BBC. Mi dicono: guarda che Paul McCartney è a due isolati da qui. Hai presente il punto in cui la canzone prende un’altra direzione? Ecco, ci stavamo incasinando con quella sezione, facevamo schifo, quando appare McCartney”. Fa la faccia dello scolaretto beccato impreparato dal professore. “Ehm ehm Paul, non tenere conto di quel che hai sentito…”.
È curioso che i Foos abbiano inciso proprio Band On The Run e proprio adesso. Alcune canzoni di Echoes, Silence, Patience And Grace hanno infatti una struttura composita, con cambi d’atmosfera, ritmo e strumentazione, un po’ come il pezzo di Macca del 1973. Taylor mi dà ragione. “Non farò nomi, ma Roger Taylor dei Queen mi ha detto che il nuovo dei Foo Fighters ha un che di meccartiano, per così dire. Soprattutto nel modo in cui Dave usa la voce e in certe scelte melodiche”. Statues, poi, sembra uscita direttamente da Abbey Road o da un disco con gli Wings…“Se solo l’arrangiamento fosse un po’ più inglese, potresti immaginarla cantata da Paul”.
Taylor si mette poi a imitare in modo spassoso la mimica e la pronuncia di McCartney. Io e Nate ridiamo di gusto. “Paul è un grande! Ad Abbey Road ha stretto mani, preso in braccio la bimba di Dave (lo imita di nuovo in una posa un po’ affettata, nda). Davvero, ha un cuore grande così. Sa come trattare con la gente. Riesci a immaginare anche solo lontanamente che cazzo vuol dire essere Paul McCartney? Dave dice che è come essere Babbo Natale tutti i santi giorni dell’anno. È vero: la gente lo guarda come se gli passasse sotto il naso Babbo Natale”. Nate: “Ho un grande rispetto per lui. Non era mica obbligato a venire in studio. Sapeva che per noi avrebbe significato molto una sua visita, ed è passato”. Taylor: “Non era lì per altre ragioni: è venuto per noi. Aggiungici che non credo sapesse esattamente chi sono i Foo Fighters. Una volta su un volo una hostess mi disse di avere servito Paul McCartney. E com’è?, le ho chiesto. E lei: è una persona dolcissima, ha speso 20 secondi con ogni singolo passeggero che lo avvicinava”.
E Dave è un po’ come Macca, da questo punto di vista. “Assolutamente sì” dice Taylor. “Ho sempre pensato a Dave come al Paul McCartney del grunge. Kurt era più un Lennon. Voglio dire: metà delle canzoni di In Utero avrebbero potuto stare su Plastic Ono Band. Magari non sono fatti miei che non ho conosciuto Kurt, ma ho sempre visto lui e Dave come dei Lennon e McCartney. Se solo Dave avesse scritto metà delle canzoni del gruppo, i Nirvana sarebbero stati ancora più famosi. Sarebbero stati grandi come i Beatles”.

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