30/03/2007

Dave Matthews

Lonely At The Top

Nonostante il consueto successo in termini di milioni di copie vendute l’ultimo disco della Dave Matthews Band, Everyday, è stato un certo shock per molti, soprattutto gli hardcore fans della DMB, che in America, sull’esempio dei leggendari Deadheads, già si chiamano Daveheads. Quelli che hanno seguito la band sin dall’inizio, che l’hanno lanciata al mega successo discografico quando accorrevano già a migliaia a ogni show del gruppo, quando ancora si produceva da solo i propri cd.

È uno shock, infatti, mettere sul cd player Everyday e sentire, invece delle classiche battute sincopate di chitarra acustica che sono diventate il trademark del gruppo (almeno fino a ieri), un tiratissimo riff di chitarra elettrica. Già, una chitarra elettrica suonata da Dave in persona, e i versi di quel primo brano (“L’ho fatto / Pensate che sono andato troppo lontano?”), I Did It, sembrano esprimere i dubbi dello stesso Matthews su quanto sta accadendo. Ma è così per tutto il disco, ed è ancor più significativo scorgere che nei crediti della produzione non c’è più il nome del partner di lungo tempo Steve Lillywhite, ma quello del campione del pop più trendy degli ultimi anni, quel Glen Ballard artefice del mega successo di Alanis Morissette.

Everyday è un disco che demolisce ogni aspettativa su quello che un album della DMB dovrebbe essere, perché, oltre alla chitarra elettrica, i classici innesti di sassofono e violini sono ridotti all’osso, mentre i groove che si dilatavano anche per sette minuti sono scomparsi del tutto in cambio di brani quasi pop-rock, essenziali nei loro quattro minuti al massimo di durata.

Sono passati alcuni mesi dall’uscita e solo adesso si riesce a mettere Everyday nella giusta prospettiva. Grazie, ad esempio, a una drammatica intervista uscita su Rolling Stone qualche tempo fa, intitolata significativamente “The Salvation of Dave Matthews”.

“Everyday ha salvato la mia vita”, è il succo di quanto dichiara Dave. Si parla di depressione, di problemi di alcolismo, tutte cose che la stragrande maggioranza degli ascoltatori non si sarebbe mai aspettata. Di una persona che, nonostante i guadagni miliardari che gli permetterebbero di ritirarsi a vita privata già adesso, nonostante una relazione affettiva che durava da nove anni (e conclusasi felicemente con il matrimonio, l’anno scorso), dice che si è sempre sentita maledettamente sola. Sofferente di quella malattia oscura che si infila strisciando silenziosa sotto pelle e che si chiama depressione. E che ha delle fondamenta, per quanto lo stesso Dave non se ne rendesse conto, in fatti drammatici come la perdita precoce del padre, e poi quella della sorella, che ha lasciato due bambini in tenera età senza entrambi i genitori. Tutte cose che, come in una seduta analitica, sono venute fuori mentre la DMB stava incidendo il nuovo disco.

È facile, in queste condizioni, avvicinarsi fin troppo al collo di una bottiglia. Non lo avremmo mai detto, ma quella specie di Forrest Gump dall’aria furbetta che conoscevamo, il padre putativo di una generazione di hippie hippie shaker che affollano i concerti della DMB, i figli dei figli dei fiori, è passato attraverso tutto questo, seri problemi di alcolismo compresi.

La lavorazione di Everyday era cominciata, come di solito, con Lillywhite dietro alla consolle, ed era proseguita per sei mesi con risultati scoraggianti. Tutte le nuove canzoni di Dave avevano un andamento lugubre, triste, pessimistico, chiara evidenza dei problemi che lo tormentavano. Si era arrivati al punto che i suoi amici, ad esempio il batterista Beauford, si rifiutavano di scendere in studio a lavorare con lui, vista l’atmosfera depressa che vi alloggiava. Ci voleva un cambiamento, e pure radicale.

Ecco allora che un disco come quello che poi è arrivato nei negozi ha un senso. Si capisce cosa ci sta dietro. Il cambiamento, infatti, è stato per Dave volare a Los Angeles e incontrarsi con Glen Ballard. Piaccia o meno, che sia un allontanamento (temporaneo?) dalle amate atmosfere di musica totale della DMB che tanto abbiamo apprezzato, si capisce però che un disco così doveva per forza arrivare. Perché è essenzialmente un disco solista di Dave Matthews, che in un momento particolare della sua vita ha avuto bisogno di analizzarsi, di scavarsi dentro, facendolo con la cosa che sa fare meglio, e cioè la musica. E per forza, adesso lo capiamo, doveva allontanarsi dalle abituali atmosfere musicali, dagli abituali collaboratori, come Steve Lillywhite. Per guardare in faccia il mostro che lo perseguitava e per sconfiggerlo. Per andare, soprattutto, avanti.

Il Dave che mi risponde al telefono, una sera dello scorso giugno, è un uomo, sembra, di nuovo in pace con se stesso. Disponibile, affabile, anche divertente, sembra proprio che abbia superato il momento buio. La sera del nostro primo appuntamento telefonico l’intervista viene rimandata all’ultimo momento. Motivo: Dave deve preparare un di-scorso di presentazione per l’introduzione di Willie Nelson alla Songwriters Hall Of Fame. “Sta anche cercando di imparare una canzone di Willie in tutta fretta!”, mi dice la simpatica addetta stampa della sua casa discografica da New York, “puoi essere così gentile di aspettare fino a domani?” Naturalmente, per Willie Nelson e Dave Matthews questo ed altro.

Il giorno dopo, puntualissimo, suona il telefono e dall’altra parte c’è un trafelato Dave che si scusa per un (immaginario) ritardo dovuto, dice lui, a questo maledetto traffico. Ma non è per nulla in ritardo.

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Allora, come è andata ieri sera con Willie Nelson?
Oh, Willie. Willie Nelson è un autentico eroe per me. Non sono il solo a vederlo così, naturalmente. È una persona squisita, davvero gentile. È stato un onore e un piacere introdurlo nella Songwriters Hall Of Fame, credo altresì sia stato un momento significativo considerando che razza di paese conservatore, dal punto di vista politico, sia l’America. È davvero una bella cosa avere una persona come Willie Nelson, una persona che cerca di destare l’attenzione degli altri verso i tanti problemi che ci circondano.

Qual è stata poi la canzone di Willie Nelson che hai eseguito durante la serata?
Ho suonato Funny How Time Slips Away, una splendida canzone.

Vorrei analizzare con te il cambiamento musicale che ha rappresentato Everyday nella musica della DMB. Innanzitutto la presenza di un nuovo produttore, dopo una partnership con Steve Lillywhite durata tutta la vostra carriera.
Per l’esattezza, prima di lavorare con Steve avevamo fatto due dischi autoprodotti (Remember Two Things e Recently, nda). Comunque, anche questa volta abbiamo fatto un disco con Steve, che credo sia altrettanto valido di quello che poi è stato pubblicato con la produzione di Glen Ballard. Il problema era che volevamo sfidare noi stessi, cominciavamo a sentirci un po’ troppo sicuri di noi, dell’ambiente in cui stavamo lavorando ormai da molti anni. A volte una situazione troppo confortevole diventa una specie di compromesso, e anche se forse è solo un atteggiamento, avevamo bisogno di nuove motivazioni. Lavorare con qualcun altro è stato molto divertente.
Credo che abbiamo lavorato con Steve Lillywhite più a lungo di quanto abbia mai fatto chiunque altro che ha lavorato con lui: abitualmente Steve non fa più di un paio di dischi, al massimo, con lo stesso artista. Con noi ne ha fatti tre, anzi, ne ha fatti quattro, perché esiste un disco completo prodotto da lui che non è stato pubblicato, ma esiste. In ogni caso siamo ancora ottimi amici.

L’altra grande novità è il fatto che tu suoni prevalentemente la chitarra elettrica. Anni fa mi dicesti che non avresti mai preso in mano questo strumento perché ti piaceva troppo suonare acustico.
La Dave Matthews Band ha sempre avuto comunque un chitarrista elettrico, e cioè Tim (Reynolds, nda). Questa volta c’erano esigenze diverse, ma comunque tutt’oggi io preferisco sempre la chitarra acustica. Molte delle nuove canzoni, quando suoniamo dal vivo, le eseguo con la chitarra acustica. È successo che in studio ho voluto provare questo tipo di chitarra, la chitarra baritono, ed è quella che ho usato per registrare il disco. La chitarra baritono è piuttosto diversa da una normale chitarra elettrica con le sue accordature standard. Non ne avevo mai vista una in precedenza e me ne sono innamorato completamente. Ha qualche cosa in comune con la chitarra acustica, ma ha una risonanza più calda. Così ho cominciato, in studio, a comporre con questa chitarra. In seguito ne ho comprate un paio, ma se devo dirti la verità continuo a preferire quella acustica.

Si può dire che stiate ancora lavorando al vostro sound, che siate ancora in fase di ricerca.
Assolutamente sì. Spero davvero che non ci sentiremo mai ‘arrivati’. Il giorno che saremo atterrati, sarà il giorno in cui ci ritireremo.

Una delle caratteristiche della DMB è il vostro lavorare e comporre come un team. È stato così anche questa volta?
Lavorare come un team è una cosa cui teniamo molto e lo faremo ancora, senza ombra di dubbio, ma questa volta in particolare è stata una situazione molto diversa dal solito. Nessuno di noi sapeva cosa aspettarsi da Glen. Quando sono andato a Los Angeles, all’inizio, per incontrarlo, pensavo soltanto di dare con lui dei ritocchi, di terminare ciò che avevamo già fatto con Steve. Ma invece ben presto cominciammo a suonare, a comporre, a fare degli schizzi, ad arrangiare nuovamente i brani. Fu incredibile quanto velocemente scrivemmo, fu davvero un’esperienza splendida, per cui gran parte degli arrangiamenti è stata fatta da me e da Glen. Una esperienza diversa dal solito, quindi, ma poi arrivò il resto del gruppo, e il modo in cui loro, suonando, portarono vita ai nostri schizzi è stato formidabile. Sono certo che la prossima volta sarà diverso, anche perché il desiderio più grande che ho è quello di tenere il gruppo unito.

Mi piace molto Dreams Of Our Fathers, e mi incuriosisce il titolo: di cosa parla questa canzone?
Come società, o come individui, noi ereditiamo i pensieri, le opinioni, le abitudini e le credenze di chi ci ha preceduto. In America in modo particolare, ma credo in tutto il mondo, ci si sofferma su quanto si eredita e si ha paura dei cambiamenti. La canzone parla di questo e la sua conclusione dice che siamo intrappolati in quanto ci ha preceduto ma allo stesso tempo l’ultimo verso dice: “Ogni cosa che ci costituisce è meravigliosa”. Perché noi ereditiamo anche la curiosità, la gentilezza, l’amore.

C’è una canzone del nuovo disco di cui sei particolarmente soddisfatto?
Sono soddisfatto di tutto il disco, ma quando suoniamo dal vivo, siccome grazie a tutta la nostra esperienza abbiamo a disposizione diverse alternative sonore, siamo in grado di avere il sound di dieci gruppi diversi in un solo show, mi piace particolarmente When The Worlds Ends. Quella canzone mi piace tantissimo perché funziona incredibilmente dal vivo.

Siete sempre stati considerati uno dei gruppi di punta della cosiddetta scena delle jam band. Cosa ne pensi di questa scena, credi che sia ancora una scena vitale, in America?
Guarda, quella delle jam band è una categoria musicale in cui siamo stati infilati nostro malgrado. Ho sempre avuto dei problemi con le categorie musicali, le jam band sono una specie di religione, in America. La nostra unica religione è la musica stessa: questa è la mia band e facciamo quello che cazzo abbiamo voglia di fare. Credo di capire perché la gente ci abbia messo in quella categoria, probabilmente perché non siamo i tipi che fanno uno show di dieci canzoni e basta, e perché improvvisiamo, ma il fatto è che questa nostra attitudine viene dal jazz. Tutti noi, prima della DMB, suonavamo jazz. Suonare dal vivo per noi è essenziale, è ciò che ci piace fare, non siamo usciti da una scatola così come siamo oggi. È nato tutto suonando e suonando dal vivo per anni. Ci piace sfidare gli opposti della musica.

Mi viene in mente lo splendido disco dal vivo che avete pubblicato un paio di anni fa, Listener Supported. C’è una grande versione del classico Long Black Veil con un arrangiamento davvero particolare. Come è nata quella versione?
È nata in modo piuttosto simile a quello che uso per comporre, provando una serie di progressioni con la chitarra. Mi piace molto la versione di Johnny (Cash, nda) ma ha uno stile troppo unico, lo stile di Johnny Cash che non potevo riprendere, sarei sembrato stupido. Così sono partito dal suo tipico ritmo, ‘dunga-dunga-dunga-dunga’ (canticchia il classico ritmo alla Cash, nda), l’ho estrapolato, ho eseguito una sequenza in progressione, con un po’ di attitudine africana e un po’ di New Orleans.

A proposito di Sud Africa, il paese in cui sei nato, ti sei mai esibito in patria?
Ho suonato con alcuni musicisti, in situazioni particolari, in piccoli club, ma mai con la DMB. Spero che riusciremo ad andarci un giorno. Per adesso quando vado in Africa ci vado per scomparire. Non voglio diventare troppo famoso anche lì.

E a proposito di essere famosi, come concili la tua vita privata e il rapporto con le migliaia di tuoi fan?
Siamo tutte persone che vivono al di fuori dei grandi centri della musica, nessuno vive a Los Angeles, per intenderci, e questa è già una cosa che aiuta parecchio. Personalmente non ho la tendenza a frequentare persone famose o conosciute, preferisco frequentare ambienti ‘normali’. Siamo dei tipi piuttosto invisibili (ridacchia, nda). Generalmente, quando qualcuno ci incontra, ci saluta, magari si gira e mormora: “Dove è che ho già visto quel tipo? Ha una faccia conosciuta”. Se andassi in giro con cinque gorilla vestiti di nero, magari direbbero: “Ehi, quello è Dave Matthews!”. In America la gente generalmente si ignora, per cui anche questo aiuta. Poi vado in giro con una station wagon, non uso le limousine.

Hai collaborato con musicisti davvero prestigiosi, come Carlos Santana e i Rolling Stones. Che ricordo ne hai?
Innanzitutto ho il ricordo di persone gentili e affettuose. Quando mi sono esibito con gli Stones, comunque, ero spaventato a morte. Con Carlos invece ci frequentiamo da diverso tempo, per cui lavorare con lui è stato semplice e rilassante. Capita spesso che ci ritroviamo a suonare, non solo nei rispettivi dischi, anche recentemente a San Francisco è salito sul palco con noi. Anche Emmylou Harris è una vecchia amica, anche se incidere con lei è stato incredibile, tanto è una cantante meravigliosa. Ho avuto l’occasione di suonare anche con Neil Young, abbiamo fatto alcuni show insieme recentemente, e una sera abbiamo fatto insieme Cortez The Killer. Amico, quello rimarrà come un monumento per il resto della mia vita.

Cosa ne pensi di band come i Jupiter Coyote o i Leftover Salmon, che secondo me si ispirano parecchio al vostro sound? Li conosci?
Si ispirano a noi? Credo sia cool! Sì, conosco quei gruppi, non molto, ma li conosco abbastanza. Posso solo essere felice se ci sono gruppi che in qualche modo si ispirano a noi, spero soltanto che quando questi gruppi riempiranno gli stadi lascino un po’ di spazio anche per noi (ridacchia divertito, nda).

Ci sarà la possibilità di vedervi dal vivo presto, in Italia?
Ne stavamo discutendo poco tempo fa, forse in novembre dovremmo fare un tour europeo. In tal caso l’Italia non mancherà di sicuro. Tutte le volte che siamo venuti in Europa, specialmente in Italia, abbiamo trovato un pubblico strepitoso, uno dei più caldi e affettuosi in assoluto.

Già, magari in Italia non avete un seguito numeroso come negli Stati Uniti, ma chi vi ascolta ama davvero la musica della DMB.
E noi siamo pronti a venire e a dare il nostro massimo in Italia, puoi giurarci.

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