11/05/2007

Deep Purple

Steel Smoke On The Water

Tra dieci, venti o trent’anni, i Rolling Stones non ci saranno più perché Mick Jagger o Keith Richards si saranno definitivamente ritirati o – facendo debiti scongiuri per loro – passati a miglior vita. È la natura delle cose, nessuno ci può fare niente. E cosa sarebbero i Rolling Stones senza Mick Jagger e Keith Richards? Cosa sarebbero oggi i Beatles con altri due musicisti al posto di John Lennon e di George Harrison?

Questa legge inesorabile ha sempre colpito nella storia del rock, perché in essa c’è una fortissima componente di divismo che non può prescindere dalla personalità dell’artista che dà l’afflato vitale all’opera della sua band. In molti gruppi di successo sono cambiati i musicisti ma non è mai venuto meno quel perno centrale intorno a cui ruota il concetto stesso di rock band: il leader carismatico, fondatore e creatore senza il quale la band non ha senso. In questi mesi abbiamo assistito alla triste parodia dei Queen di Brian May che a un tratto pensa di poter sostituire Freddie Mercury con Paul Rodgers ma con i risultati che tutti conosciamo in termini di credibilità.

Non c’è mai stato nessun gruppo rock di successo che abbia potuto fare disinvoltamente a meno del suo perno, del suo direttore d’orchestra, del suo creatore, senza andare incontro all’inevitabile e rapido declino, come quando i Doors credettero di poter andare avanti senza Jim Morrison.

Eppure, per i Deep Purple tutto ciò non vale.

Tra trentacinque anni parleremo ancora dei Deep Purple per il semplice motivo che ci suoneranno altri musicisti, ci saranno altri cantanti e nessuno noterà la differenza; a tutti sembrerà la cosa più normale del mondo. I Deep Purple, come detto, sono un’entità che vive di vita propria e che, anzi, sembra debba continuamente rinnovarsi per attingere nuova linfa vitale dai suoi membri, attirare al proprio culto nuove masse di fedeli e farsi beffe del tempo che passa. Passa per gli altri, per gli uomini mortali, non per la bestia chiamata Deep Purple.

——————————————————————————–

A come Album (nuovo)

C’è un nuovo album dei Deep Purple ma questa non è una novità. Oramai nessuno più chiede loro qualcosa che vada a incrementare il repertorio. Nei loro concerti, spesso non c’è neanche spazio per molti classici e non si vede come se ne possano aggiungere altri. La produzione discografica inedita degli ultimi quindici anni è passata quasi inosservata dal punto di vista qualitativo ma gli adepti del culto hanno comunque osservato l’obbligo collezionistico di acquistare l’album, per non perdersi nulla (vedere F come Feticismo). Rapture Of The Deep, il nuovo cd, seguirà lo stesso destino.

——————————————————————————–

B come Barocco

Barocchismo per le masse del Ventesimo secolo e oltre. Che a tutti sia data la scienza – o pillole di essa – della cui bellezza in precedenza solo gli iniziati potevano godere. Quello che fa vivere l’entità Deep Purple di una sua vita autonoma sono un pugno di brani che tutti conoscono e che, spesso, molti non sanno neanche di chi sono. E sono i brani su cui tutti – ma proprio tutti – i musicisti alle prime armi (e anche Pat Metheny o The Edge sono stati musicisti alle prime armi in un certo momento della loro vita) si sono cimentati. Nessuno può dire di aver imbracciato una chitarra e di non aver mai suonato in vita sua Smoke On The Water (vedi box a pagina 42) o Black Night.

Loro sono quelli che hanno insegnato a suonare a tutti i musicisti rock del mondo. Ecco perché i Deep Purple sono ancora tra noi, ancora sulla cresta dell’onda, perché nessuno ne può fare a meno. Non conta quale “Mark” (ovvero line-up, nella definizione che loro stessi hanno dato) si presenti davanti a noi. Quest’ultima dovrebbe essere l’ottava e basti considerare che dei membri originari della formazione è rimasto solo il batterista Ian Paice per rendersi conto che potrebbe esserci chiunque. Tale imprinting genetico esiste da sempre nel dna della band, nata come aggregazione di musicisti professionisti e session man negli anni 60 che avevano tante idee ma poco spazio dove esprimerle. Ritchie Blackmore e Jon Lord masticano pane e musica (soprattutto classica) sin dalla più tenera età e già nei primi anni 60 sono degli affermati turnisti. Eppure l’accademia di tutto ciò che hanno studiato gli va stretta, capiscono che è forma pura non in grado di rappresentare nulla tranne che sé stessa e men che mai gli anni rivoluzionari che stanno vivendo. È una musica che da tempo vive solo nei conservatori e nei teatri lirici e che non scende più nelle strade. E per i Deep Purple è arrivato il momento che l’Accademia torni a sporcarsi le mani.

“Ritchie, Jon e Ian, al momento di formare la band, erano persone con un grosso bagaglio artistico. Erano maestri del loro strumento, dei grandi virtuosi e conoscevano benissimo la musica classica ma contemporaneamente erano personalità molto intense, che volevano esprimere una grande energia. Il nostro sound era una combinazione felice di semplicità e complessità ma forse era predominante il desiderio di fare canzoni semplici e intense, che piacevano a tutti noi mentre le provavamo” (Roger Glover).

Così nasce alla fine degli anni 60 una delle più ardite contaminazioni musicali di tutti i tempi, che all’epoca in pochi comprendono appieno. Nel 1969 la band pubblica quel Concert For Group And Orchestra che è stato il primo grande esperimento di fusione tra sonorità rock e sinfoniche. Il disco non viene capito, è un flop commerciale ma i suoi semi sono destinati a fiorire molti anni dopo, quando si capirà che la musica rock non è antitetica a quella classica ma, in certe sue forme, ne è la naturale prosecuzione, spesso evoluta.

——————————————————————————–

C come chitarra

L’edizione americana di Rolling Stone, lo scorso anno, ha messo Ritchie Blackmore al 55esimo posto nella classifica dei 100 migliori chitarristi di tutti i tempi, dietro Jack White (17esimo) e John Cipollina (32esimo) dei Quicksilver Messenger Service, ma anche gli stessi compilatori della classifica sanno che è una stupidaggine enorme. Da Blackmore hanno imparato tutti qualcosa e se di John Cipollina nessuno sa più nulla e di Jack White nessuna saprà più niente nel giro di quattro o cinque anni, Blackmore ha lasciato impronte di granito nella storia del rock, impronte che presto o tardi tutti debbono calcare.

——————————————————————————–

D come Duro (Il Rock) e P come Punk

Da sempre, Deep Purple è sinonimo di hard rock e la loro identificazione con il popolo del genere è totale. E questa è l’unica etichetta che va loro a genio: “È stata fondamentale perché tutto il movimento metal ha fatto sì che una nuova generazione di fan ci supportasse. Quello che ci abbiamo messo noi è stata la varietà degli ingredienti, non soffermandoci solo su certi aspetti della musica rock e continuando a comporre a largo raggio. Questo è stato il motivo per cui siamo sopravvissuti. La musica di una band è sempre l’espressione emotiva dei suoi componenti e quando registri un disco tutto questo viene fuori. Si può essere gentili o arrabbiati, avere swing, funk o essere su di giri per qualche motivo. È sempre quello che senti che verrà sul disco e la gente se ne accorgerà inevitabilmente”.

I Deep Purple sono sopravvissuti a sé stessi e con ogni probabilità continueranno a farlo. Insinuandosi nel vissuto quotidiano d’ogni musicista dilettante, si sono garantiti una longevità a prova di bomba e da almeno dieci anni sono passati alla cassa anche per la cambiale di credibilità che la critica aveva loro negato per tutti gli anni 70. Ai tempi le stroncature piovevano a grandine, accomunandoli in questo ad altre grandi vittime della critica britannica, gli Uriah Heep. Il tempo ha dato ragione a loro perché ha dimostrato che nulla oggi può chiamarsi più classic rock degli ex dinosauri del rock, i fossili sopravvissuti che già la rivoluzione del punk avrebbe dovuto spazzare via.

“Quando è arrivato il punk sono accaduti molti cambiamenti. Noi ci eravamo già sciolti ma, paradossalmente, abbiamo venduto più dischi in quel periodo che in ogni altro. In pochissimo tempo era cambiato tutto: nei primi anni 70 la musica rock, anche se vendeva milioni di dischi, non era trasmessa per radio e tanto meno in televisione. Era musica da outsider. Poi, con l’avvento del punk, molti fan hanno cominciato ad auto organizzarsi. Sono nate le fanzine e le radio rock indipendenti e molte di queste si sono orientate sul rock più duro, sull’hard rock e l’heavy metal. Penso che molti siano rimasti sorpresi da questo. La libertà di scelta e la possibilità di fare da sé aveva svelato cose che nessuno si aspettava e tutte le regole del rock sono state riscritte. Quando ero in giro con la Gillan Band, leggevo Kerrang! e scoprivo che ero inserito nella New Wave Of British Heavy Metal! Saltavo dalla sedia! E quando c’era stata la Old Wave?! Mi sono perso qualcosa” (Ian Gillan).

——————————————————————————–

F come feticismo

Poche altre formazioni rock nella storia possono vantare un culto feticista come i Deep Purple. Già, perché i Deep Purple sono la band che ha pubblicato più live ufficiali che album in studio e continua a farlo. Per mettere ordine in tutto questo esiste la Deep Purple Appreciation Society che si occupa, tra l’altro, di valutare ogni uscita discografica del gruppo in giro per il mondo. Bootleg di ogni tipo, album stampati con copertine e titoli diversi, colori differenti e persino foto sbagliate o alterate. Dei Deep Purple si trova in giro di tutto, soprattutto riguardo alle produzioni degli anni 70, uscite in un bailamme di case discografiche e manager diversi di cui la band ha perso il controllo da un pezzo.

“Sappiamo che è uscito un nuovo dvd relativo a dei concerti del ’72 e ’73 ma lo disconosciamo. Non siamo noi a mettere sul mercato certe cose ma i nostri vecchi agenti che, purtroppo, hanno il potere di fare quello che vogliono con una parte del nostro catalogo. A volte trovo nei cd o dvd concerti che non ricordo nemmeno di aver fatto” (Ian Gillan).

Ma il discepolo dei Deep Purple sa che tutto è prezioso. Ogni concerto nasconde da qualche parte una gemma che non si ritrova in nessuna altra data e quindi le vuole avere tutte: “Per cercare di catalogare tutti i bootleg che sono usciti su di noi e il materiale pubblicato in tutto il mondo abbiamo dovuto assumere due persone a tempo pieno! E c’è gente che ogni tanto salta fuori con nostri dischi che ancora non abbiamo visto!” (Roger Glover).

——————————————————————————–

H come Heavy Metal

Ma i Deep Purple sono anche i santoni mitici, le divinità primigenie della folle stirpe del metal, nata dai loro insegnamenti e andata oltre ogni previsione dei maestri, in una continua sfida all’eccesso sonoro e concettuale. Scolpendo a caratteri cubitali i comandamenti della canzone hard rock, i Deep Purple ne hanno generato il flusso. Protagonisti di una rivoluzione della cui portata neanche loro sono perfettamente consapevoli, figli dei fiori attardati, hanno inconsciamente dato il via libera a tutti i fantasmi che il flower power teneva nascosti nell’armadio e che reclamavano un sound più forte e rabbioso, qualcosa che già nei primi anni 70 cominciava a chiamarsi heavy metal.

“Dicono che siamo i padri dell’heavy metal. Io preferisco pensare che ne siamo i nonni… A dire il vero, quando abbiamo iniziato, nessuno ci considerava heavy metal e forse la definizione non esisteva ancora. Ci hanno definito progressive rock oppure heavy rock ma ancora non eravamo inquadrati nel filone metal. Negli anni 70 abbiamo fatto una musica molto complessa, che comprendeva molti generi diversi; l’heavy metal è stata un’evoluzione di essa. Il metal ha preso una parte del nostro hard sound e l’ha sviluppata; la parte più estrema, ovvero le chitarre aggressive, le voci rabbiose, i testi violenti. In pratica, per noi non hanno mai usato l’espressione heavy metal. Scoprimmo di esserlo solo dopo…” (Roger Glover).

Eppure è da loro che vengono moltissimi dei dettami del metal moderno, anche nelle sue espressioni odierne più estreme. La chitarra grassa e la voce urlata e lancinante, per non parlare del neo barocchismo e dell’ardito utilizzo della musica classica come ingrediente aggiuntivo del rock più selvaggio, senza complessi d’inferiorità e sudditanza di alcun genere.

“Ovviamente, ci rendevamo conto che stavamo facendo una musica nuova, ma per noi era naturale suonare in quel modo. Ci accorgevamo che aveva una forte componente di rottura e che dava fastidio a un po’ di gente nel momento in cui accendevamo la radio e ascoltavamo i preamboli del dj di turno prima di mandare un nostro pezzo. A volte mi sembrava che qualcuno stesse annunciando una notizia di cronaca nera o una sciagura nazionale: ‘EhI, mettete a dormire i bambini che tra poco trasmettiamo un pezzo dei Deep Purple'” (Roger Glover).

——————————————————————————–

I come Improvvisazione

“L’improvvisazione, ciò che non ti aspetti, è anche un modo di dare il meglio ogni sera. I fan vedono un concerto dei Deep Purple all’anno ma noi siamo costretti a vedere e ascoltare questa band per cento volte all’anno (ride, nda)… Cambiare tutto all’ultimo momento, improvvisare e magari anche sbagliare è un modo per tenere sempre la tensione alta, anche oggi, per non cadere nel rischio della routine, nella paura di offrire uno spettacolo scontato, prevedibile” (Ian Gillan).

In effetti, è difficile trovare un gruppo più “totale” dei Deep Purple, più capace di loro di assimilare e sminuzzare spunti diversissimi (blues, classica, funk) e amalgamarli nel proprio stile senza pagare dazio a nessuno di questi, senza farsene dominare. Ritchie Blackmore e Jon Lord hanno indossato per anni i panni dei dotti sapienti della musica che si ritrovano in un fetido bar e lo trasformano nel conservatorio migliore del mondo. Questa è una delle chiavi per capire l’importanza dei Deep Purple: la loro assoluta devozione al culto della musica rock e l’intendere l’arte “colta” come solo una parte necessaria a costruire il grande edificio del rock duro.

La loro leggendaria capacità di reinventare e suonare in maniera ogni volta diversa i propri semplici inni da concerto ha generato sin dagli anni 70 la caccia alle variazioni sul tema che regolarmente i membri della band proponevano nei loro show. E questo dà la misura di un’altra caratteristica che ha contribuito in maniera decisiva a edificare l’idea Deep Purple. I brani, per quanto compatti e tagliati con l’accetta (come la stessa Smoke On The Water o Space Truckin’), non devono essere considerati altro che canovacci su cui improvvisare anche per tempi dilatatissimi. Una commedia dell’arte in chiave esclusivamente sonora che, però, non si è mai persa nel concetto d’improvvisazione jazz, pur traendone ispirazione. Nei Deep Purple le improvvisazioni sono sempre state appannaggio esclusivo di chitarra e tastiera, mentre la sezione ritmica macina indifferente ritmi ossessivi che stendono un tappeto rosso su cui i fraseggi blues e barocchi di Blackmore e Lord (ma lo stesso fanno oggi Steve Morse e Don Airey) si possono impennare senza paura di cadere nel vuoto.

“Credo che ancora oggi sia questo il mio ruolo, quello del bassista. Non sono un musicista competitivo che suona per essere migliore degli altri. Quando Steve si aggregò alla band, con lui misi le cose in chiaro. Nei Dixie Dregs era abituato ad avere a fianco Dave LaRue, che è un bassista fenomenale. Io gli dissi: ‘Guarda che non sono Dave LaRue! Non ti aspettare da me le stesse cose’. Lui mi rispose che non voleva assolutamente altro che io suonassi alla mia maniera. Cerco di fare tutto nel modo più semplice possibile e non solo nella musica ma anche nella mia vita di tutti i giorni. La semplicità è forza” (Roger Glover).

È stabilita definitivamente, così, una gerarchia degli strumenti che si proietta in tutto il rock. Ma è un modo straordinario per rendere unico ogni concerto e alimentare il mercato di ciò che si deve passare di mano, suggerire al fratello minore, tramandare ai posteri.

——————————————————————————–

N come “Non Suoneremo Mai Questi Brani!”

È vero che dall’altra parte del tavolo ci sono Ian Gillan e Roger Glover ma, dato che i Deep Purple sono un’idea e non una band, coi due si può parlare anche dei Deep Purple senza di loro.

Il trattamento che la stampa riserva a David Coverdale al suo esordio, un commesso in un negozio di biancheria intima dello Yorkshire senza esperienza di canto professionale, è da linciaggio in pubblico, ma proprio in questo ci sarà la dimostrazione che nei Deep Purple tutti sono utili e nessuno è indispensabile. La coppia Coverdale-Hughes conquista il suo posto nella storia con una naturalezza sorprendente, chiudendo in un angolo i propri predecessori e scrivendo pezzi che sono tra i pilastri del rock duro, come la leggendaria fuga hard-baroccca di Burn, il lancinante blues di Mistreated e il tonante cadenzato di Stormbringer, brani che mettono sempre in imbarazzo Gillan e Glover quando gli arriva la fatidica domanda: perché non li eseguite mai dal vivo?

“È esclusivamente una scelta personale. Non sono brani della nostra era, anche se sappiamo che c’è molta gente che li vorrebbe ascoltare dal vivo. Però non avrebbe senso. Suonarli e cantarli come fanno David Coverdale e Glenn Hughes ci renderebbe una cover band e non è certo quello che siamo o vogliamo essere. D’altro canto, però, è vero che sono pezzi dei Deep Purple al 100% e che rappresentano la band come quelli che abbiamo scritto noi. Bisognerebbe organizzare un concerto in cui sul palco ci fossero tutti gli ex membri del gruppo, ma avremmo bisogno di prenderne uno molto largo a causa dell’affollamento” (Roger Glover). “Non abbiamo mai programmato uno show in base a ciò che il pubblico si aspettava o voleva che suonassimo. Abbiamo sempre inserito i brani in scaletta seguendo il nostro istinto, ciò che sentivamo dentro e che ci faceva stare bene. Quando ero nei Black Sabbath cantavo, dal vivo, canzoni di Ozzy come War Pigs o Iron Man ma… non andava bene. Non c’era nulla da fare, non funzionava. Abbiamo voci diverse e io non avrei mai potuto essere Ozzy, né Ozzy essere me. Quelle canzoni doveva cantarle lui, mentre io devo cantare Smoke On The Water o Speed King. E lo stesso vale per i testi.

Ti confesso che a volte in studio abbiamo provato a fare Burn ma, anche in questo caso, non andava bene. Non so cantare come Coverdale, mi dispiace. Né m’interessa imparare” (Ian Gillan).

——————————————————————————–

R come Rissa

I Deep Purple hanno battuto ogni record per la loro turbolenza interna e sono diventati il simbolo della formazione rock gossip, che lava i propri panni sporchi in piazza e che fa dei contrasti tra i propri membri un’altra componente dello spettacolo. Ritchie Blackmore, Ian Gillan, David Coverdale, Glenn Hughes e Roger Glover in periodi differenti riempiono le pagine delle riviste specializzate con gli attacchi dell’uno nei confronti dell’altro. Il regno si scinde e si scompone ma da esso nascono creature di altrettanto successo come i Rainbow di Ritchie Blackmore e i Whitesnake di David Coverdale, a ulteriore dimostrazione che i Deep Purple non sono un gruppo ma un concetto, per cui mutando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia.

E la rissa continua non coinvolge solo i Deep Purple ma anche tutti gli altri musicisti che transitano nei Whitesnake o nei Rainbow, che dei Deep Purple ne assimilano lo spirito e l’intolleranza, come se l’eterno conflitto di personalità fosse l’unica strada per raggiungere le massime vette dell’hard rock.

“Ritchie Blackmore è uno stronzo che mi ha rubato soldi per anni e continua a farlo” dichiara Ronnie James Dio. “È stato per questo motivo che non sono entrato nei Deep Purple quando me lo ha chiesto. Con i Rainbow mi è bastata, ma adesso che lui è fuori accetterei volentieri se i ragazzi me lo proponessero”. Tutti contro tutti, con Ritchie Blackmore grande regista della guerra di logoramento dei nervi. Personaggio odiato e amato in ugual misura, persino dai fan di più stretta osservanza, Blackmore è giudicato (dal punto di vista personale) un insopportabile, arrogante presuntuoso. Ma è probabilmente l’unica icona del rock, insieme a Roger Waters, a potersi permettere atteggiamenti offensivi e insultanti uscendone sempre indenne. Forse perché la sua musica viene ritenuta il diretto risultato del carattere insopportabile e strafottente, perché viene percepito che “se non fosse così, certi capolavori non sarebbero stati mai stati scritti”. Del resto, Roger Waters avrebbe mai composto The Wall se non fosse stato un paranoico depressivo, maniaco e persecutorio nei confronti di tutto e tutti? No, non l’avrebbe fatto. È questo è il prezzo da pagare.

——————————————————————————–

S come Steve Morse

Dati alla mano il chitarrista più longevo nella storia del gruppo è lui, Steve Morse. Il primo cambio di chitarrista dei Deep Purple rappresenta uno degli squarci più intensi e tristi nella storia del rock. Avviene nel momento in cui un imprevedibile e infastidito Blackmore sbatte la porta nel 1975 e lascia il posto all’immenso, ma fragile, talento di Tommy Bolin. Quella svolta avviene quando i Deep Purple sono ancora una “normale” rock band di successo planetario e la trasformazione in entità ectoplasmica sonora non è ancora completa. Bolin getta nello scompiglio gli hardcore fan del gruppo con la sua verve funky e il suo amore per il soul e il jazz, aiutato in questo dall’anima gemella musicale Glenn Hughes. Ma non viene capito. Solo negli ultimi anni un disco come Come Taste The Band è stato rivalutato e lo si è giudicato con più obiettività, come un altro grande capitolo nell’idea Deep Purple, nel concetto di una musica globale, legata saldamente ai binari del rock che ingloba tutto e rigenera ogni spunto con i propri vocaboli. Bolin provò ad aggiungerne di nuovi ma il “Deep Purple world” ancora non era pronto. Anche perché Bolin era un artista sensibile, con notevoli esigenze espressive e ogni critica lo feriva profondamente.

Oggi Steve Morse fa molte cose che Bolin avrebbe voluto fare nei Deep Purple e lo stesso Morse non nasconde di ispirarsi, in ugual misura, a lui come a Blackmore, quasi avessero condiviso lo stesso numero di album e la stessa popolarità nella band. Ma Steve Morse è un razionale professionista, il chitarrista perfetto che sa equilibrare sentimento, tecnica e feeling. Educato alla scuola delle jam band (Dixie Dregs in testa) e capace di incantare il pubblico con il suo sorriso accoppiato all’incredibile spinta vitale sonora che dà alla band, è lui ora la nuova (ma per quanto?) immagine della formazione. Anzi, dell’idea. “Steve è ormai una colonna della squadra, anzi è il capitano. È un grandissimo musicista che si esercita ancora oggi per sei ore al giorno mentre io non mi alleno sul basso dal 1978! È incredibilmente coinvolto in ogni cosa che fa, s’impossessa e interiorizza ogni singola nota della sua e della nostra musica e la esprime non solo suonando ma anche con il volto, con tutto il corpo. Ha delle radici molto forti e un grande senso della sua identità per cui riesce a suonare esattamente come se stesse parlando. Quando sale sul palco dimentica ogni problema ed è come se la musica lo rapisse e lo portasse in un’altra dimensione” (Roger Glover).

Certo, quando si è trattato di scegliere un nuovo chitarrista, i Deep Purple hanno fatto in modo di trovarne uno che non fosse solo bravo ma anche telegenico e che avesse l’appeal giusto per fare contenti tutti: amanti della tecnica strumentale, giovani fan innamorati del prog metal dei Dream Theater e ragazzine innamorate dell’atletico aspetto fisico di Morse e della sua selvaggia chioma bionda. Difficile farlo ammettere a Ian Gillan, però: “È un musicista da sempre molto rispettato, ma credo che il pubblico più giovane si sia avvicinato negli anni 90 ai Deep Purple grazie alla nuova energia che lui ha portato nel gruppo. Quest’energia ci ha consentito di fare esibizioni live di grande valore e questa è la forma di pubblicità migliore per ogni rock band”.

“La cosa più singolare” aggiunge Glover “è che con Steve abbiamo riacquistato quella libertà che in passato avevamo perso. È strano a dirsi ma è capitato che tutti noi, dalla reunion del 1984 in poi, abbiamo perso un briciolo di libertà alla volta. Era come se Ritchie ci stesse spegnendo lentamente, privandoci della possibilità di scelta. Non te ne accorgi subito e quando lo sai è troppo tardi. Per me l’ingresso di Steve nella band è stato un punto di svolta nella mia carriera di bassista ma tutti noi, da quel momento, abbiamo suonato meglio che in ogni altra occasione in passato. Eravamo veramente in un periodo in cui abbiamo rischiato il declino e non solo per motivi commerciali. Quello che ci mancava era la voglia di andare avanti e la sicurezza in noi stessi, sicurezza che Ritchie aveva demolito giorno dopo giorno. Con Steve abbiamo riscoperto l’entusiasmo di suonare dal vivo, di sentirci uniti, ancora una band vera”.

——————————————————————————–

T come Team

Ian Gillan paragona i Deep Purple a una squadra di calcio e avere di fronte lui e Roger Glover dà l’effetto di una conferenza stampa in cui si presenta il capitano di turno, per dire ciò che la società vuole e che non si sa se l’anno prossimo giocherà ancora con la stessa maglia o in un altro club: “I Deep Purple sono e restano una band ma la band è sempre stato qualcosa di più della semplice somma delle individualità. È una specie di simbolo che rappresenta una concezione di musica pura, un pensiero cui, automaticamente, tutti i musicisti che sono stati nella band si sono adeguati. Entrando in questo gruppo o anche solo suonando come ospite ti senti parte di esso. Paragono spesso i Deep Purple a una squadra di calcio: ci sono giocatori che vanno e che vengono, che hanno diversi management e che a volte si trovano bene tra loro e a volte litigano, ma quello che non manca mai è l’orgoglio di giocare per questa squadra, di indossare la maglia dei Deep Purple e di dare il proprio meglio. Orgoglio a volte è una brutta parola perché sottintende ottusità ma non nel caso dei Deep Purple, perché il nostro pubblico ci spinge sempre a dare il meglio di noi stessi”.

I capitani vanno e vengono, come tutti gli altri giocatori, ma la squadra resta, i volti non contano. Ma chi arriva respira la storia del club e se ne fa carico, fino a identificarsi con essa e a farla propria, insegnando anche ai nuovi arrivati cosa significhi indossare quella maglia. “L’ogoglio del team non è mai venuto meno, almeno non se ci sono stato io nella band. Se è successo, è capitato chiaramente quando non c’eravamo né io né Roger in quanto non avremmo permesso che nel gruppo ci fosse un session man disinteressato allo stile, alla storia e alla musica dei Deep Purple. Non siamo responsabili dei periodi in cui non ci siamo stati” (Ian Gillan).

——————————————————————————–

V come Versi

Con i Deep Purple si parla di musica rock e raramente gli argomenti esulano da questo. Band tetragona senza cedimenti alla politica o al cerebralismo, da sempre rappresentano il rock che va direttamente allo stomaco e che colpisce duro. Forse con loro, molto più che con Frank Zappa e David Bowie, si è realizzato il sogno di Burroghs del cut-up, ovvero sistemare parole a caso all’interno di un testo e fare finta che abbiano un senso logico, oppure trovarcelo a posteriori. I Deep Purple sono andati oltre, perché il testo di una canzone serve solo ad evocare suggestioni potenti come il sound che lo sorregge e, quindi, non è necessario raccontare una storia ma solo l’inizio, o una scena nel mezzo, dando l’idea di cosa si vorrebbe esprimere ma niente più. Gli stessi Gillan e Glover spesso ridono del non senso insito in Black Night: “Ancora oggi non so cosa canto… Però la musica è grandiosa. Dovrebbe parlare della sensazione di sentirsi perso nella nebbia ma credo di esser stato un po’ ubriaco quando l’ho scritta. anzi, molto ubriaco” (Ian Gillan).

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!