30/11/2011

FOLCO ORSELLI

SEGRETO D’AUTORE

Duke Ellington diceva che esistono solo due generi musicali: la musica di qualità e quella scadente. Folco Orselli, cantautore milanese, vede la questione da una prospettiva diversa. Stufo di rispondere alla classica domanda «ma tu… che genere fai?», s’è inventato una formula originale. «Suono un genere… di conforto», dice con sorriso sardonico, «scrivo canzoni che trasmettono le stesse piacevoli, rassicuranti sensazioni che ricavi da un pezzo di cioccolato fondente, da una sigaretta dopo il caffè, da un cordiale sorseggiato quando fuori fa freddo, da una coperta calda, da un abbraccio affettuoso. Tutti generi di conforto, appunto».
Per questo, ha voluto titolare il suo nuovo album (il quarto di una discografia iniziata con La stirpe di Caino nel 1997) proprio così: Generi di conforto.
E ha deciso di farlo, come cantava Frank Sinatra, a modo suo.
A partire dalla produzione. Ha scelto i pezzi che voleva, creato una sua etichetta (Muso Duro), messo in piedi un team di lavoro con gente che crede al “progetto Folco”. Come Vincenzo Messina, tastierista e arrangiatore, con cui Orselli ha passato diverse giornate in un trullo pugliese. «Già, è tutto vero», mi racconta divertito, «ci siamo rifugiati in un trullo nei pressi di Martina Franca per realizzare un album in totale libertà creativa».
Lì, nel trullo, più che ascoltare musica, si è però parlato di… cinema. «Sì, perché io avevo in testa un disco di ballad arrangiate con una grande orchestra» spiega Folco «e mi piaceva l’idea di una musica con una visione cinematografica… Adoro le colonne sonore dei film di Sergio Leone, Charlie Chaplin, Alfred Hitchcock: l’uso degli archi, l’impatto emotivo che ti dà l’orchestra… ecco, ho pensato che questo fosse l’abito adatto per “vestire” le canzoni del disco».
Risultato centrato: con l’orchestra, i 10 brani di Generi di conforto assumono una forza emotiva e una suggestione tutta particolare. Dalla prima traccia, In caccia di te sino alla canzone conclusiva (Manila) Folco si muove a suo agio tra atmosfere blues e jazzy cantando le sue emozioni (In equilibrio, cadendo nel blues) o raccontando storie della Milano dei disadattati (La ballata di piazzale Maciachini, La ballata del Paolone). E se il primo pezzo consegna agli appassionati il Folco Orselli più classico (quello capace di metabolizzare e fondere la lezione del suo adorato Tom Waits con la canzone d’autore nostrana), il secondo regala momenti di struggente poesia. Qui Folco sembra non solo raccogliere l’eredità del Jannacci di Vincenzina e la fabbrica (come il grande Enzo anche lui è, per dirla con Arbore, «artista fuori ordinanza»). C’è qualcosa in più: la Milano dipinta da Orselli è lo specchio delle nostre coscienze. «Milano è una continua fonte di ispirazione», spiega, «le mie canzoni non potrebbero nascere da un’altra parte». Non a caso, nel 2007 Folco Orselli aveva pubblicato Milano Babilonia, un album formidabile di rock-blues con venature funk: un ritratto impietoso, ma realistico della capitale lombarda. Un disco che Orselli ha portato in giro sui palchi di mezza Italia e che gli ha dato modo di far conoscere la sua musica ma anche le sue abilità di performer. Già, perché Folco sul palco è davvero straordinario. Suona e canta benissimo ma soprattutto si presenta con forza e convinzione: un vero animale da palcoscenico, dote (in genere) rara nei cantautori. Anche perché Folco è cantautore anomalo. Il suo spirito, più che folk o blues, è da vero rocker. Provate ad ascoltarlo quando si cimenta (tra il serio e il faceto) in alcuni classici senza tempo: da The Needle And The Damage Done a Personal Jesus sino alle My Back Pages dylaniane.
La sua voce è capace di assumere colori diversi e intenzioni improbabili: dal suono cavernoso da bluesman navigato al tono cristallino del Neil Young d’annata (uno dei suoi idoli musicali) sino al timbro naturale che ascoltiamo nella suadente Dubbi o nel fascinoso side project Arm On Stage con cui Folco divide il palco insieme agli amici Stefano Piro, Claudio Domestico e Alessandro Sicardi.
«Il mio nome Folco deriva da folk, popolo… sono un uomo del popolo e mi piace l’idea che questo album sia una storia tra me e la gente», scherza. In realtà, è stato chiamato così da suo padre («che io» confessa «ho soprannominato “lo squalo bianco” perché somiglia al grande campione di golf Greg Norman, detto appunto The Great White Shark per la sua insaziabile fame di vittorie»). Si chiama Folco in onore di Folco Portinari, il padre della Beatrice dantesca, colei a cui (parole del “poeta”) «lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella».
Folco Orselli compie 40 anni proprio in questi giorni eppure continua ad essere uno dei tanti misteri della nostra cultura artistica. Anzi, uno dei segreti musicali meglio “custoditi”; un segreto, però, che sarebbe ora venisse scoperto. E non solo dai cultori e dagli appassionati che, per altro, lo conoscono e lo apprezzano da tempo. «Con Generi di conforto», chiosa infatti Folco, «ho la convinzione di potermi rivolgere a un pubblico più vasto».
È vero. E se lo meriterebbe proprio.

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