30/06/2011

IRON AND WINE

Il mistero di Sam Beam

Il tempo non è clemente né ostile, ti piaceva dire. Ma mi chiedo oggi cosa dici e a chi». Sono parole semplici ed evocative, dolci e taglienti, quelle che Sam Beam canta in Tree By The River, uno dei brani più riusciti nel suo nuovo album Kiss Each Other Clean.
Il tempo è stato dalla sua parte in questi quattro anni, quelli trascorsi da quel piccolo gioiello che era stato The Shepherd’s Dog, prova della sua maturità di autore, in perfetto equilibrio tra il cantautorato di classica matrice folk e la sperimentazione, tra semplicità melodica e stratificazioni sonore, arrangiamenti ricercati e influenze più disparate. Oggi, a quasi dieci anni dal suo debutto (The Creek Drank The Cradle, 2002, interamente scritto, arrangiato e prodotto da Beam) il cantautore texano, meglio conosciuto con lo pseudonimo Iron And Wine, torna sulla scena con un quarto lavoro che conferma la validità della sua scrittura, ponendosi nello stesso tempo a un punto di svolta nel suo percorso artistico: il suo stile si evolve ulteriormente, pur rimanendo riconoscibile. Il timbro vellutato della voce del musicista, a cui ci siamo affezionati nel corso degli anni, culla ancora una volta verso nuove storie, in brani dalle atmosfere poetiche e surreali. L’elemento di maggior novità è la ricchezza della strumentazione utilizzata: emergono tastiere e sintetizzatori, che donano uno stampo più pop all’ambientazione generale dell’album. «Lavoro per non fare mai lo stesso disco due volte», ci spiega via e-mail tra una tappa e l’altra del suo recente tour europeo. «E incoraggio molto la creatività in studio. Cerchiamo sempre di spingerci in direzioni diverse. Nuove sonorità sono state aggiunte quasi regolarmente fin dall’inizio, è stata un’evoluzione naturale. Questa volta volevo molto più cantato e meno chitarre. I picchi e le valli che si incontrano mentre si ascolta il disco sono fonte di nuove sorprese ogni volta che lo si fa partire nel lettore».
Se alcuni possono rimanere spiazzati dalla dichiarazione rilasciata qualche tempo fa alla rivista Spin, dove Beam descriveva questo come un «album pop più focalizzato, simile a quella musica che passava alla radio nei primi anni 70», le parole con cui ci spiega il nuovo lavoro sono chiarificatrici. Se c’è una cosa che ha conquistato il pubblico nel corso del tempo, infatti, è sempre stata la sua distanza dal mondo della musica di facile ascolto: ma anche in questo caso il concetto di pop nella musica di Iron And Wine va contestualizzato. «Sono nato nel ’74 e ascoltavo quello che passava la radio», racconta Sam. «Non potevi sbagliare con Elton John, Fleetwood Mac e Stevie Wonder. Dove sono cresciuto era impossibile evitare la musica country, ma in famiglia amavamo anche la Motown. Diventando grande, ci sono stati lo skate punk e la musica degli anni 80, i Cure e i R.E.M. Quando penso ai dischi di quando ero piccolo, penso al divertimento. Volevo rendere quest’album divertente. Volevo che suonasse come i primi di Elton John, Joni Mitchell o Steely Dan, dove i suoni sono molto asciutti e se aggiungi un effetto o un riverbero si sente».
Il cambio di etichetta, dalla Sub Pop alla Warner (4AD al di fuori degli Stati Uniti), non ha influenzato le scelte stilistiche, come verrebbe da pensare. «Il disco è stato completamente autofinanziato e terminato ben prima del cambio di etichetta», conferma Beam, che non teme il giudizio del suo pubblico. «Le persone sanno capire la differenza tra chi fa musica per diventare famoso e chi la fa perché è la sua passione. Per quanto mi riguarda, sentivo che era il momento giusto per un cambiamento. Sembra un album “sovversivo” perché contiene molte sonorità allegre. Ma se scavi nei testi, potresti sorprenderti da cosa trovi. Si concentrano sulle complessità della vita e lasciano molto spazio all’interpretazione, certi argomenti si fanno strada fino all’ascoltatore sull’onda di musica gioiosa». E aggiunge: «Non mi piace fare musica triste. Mi piacciono le canzoni sulla vita, e dovrebbero essere divertenti, ma anche parlare di argomenti più seri, come Dio, il sesso, l’amore e la morte. Sono le verità che riguardano l’esistenza di tutti. Voglio scrivere qualcosa che sia poetico e vero, toccando argomenti di cui solitamente la gente non parla tutti i giorni. Mentre invecchiamo, io artista e gli ascoltatori, la fragilità e la complessità della vita diventano sempre più evidenti. Non c’è dubbio che ciò abbia portato a nuovi stati d’animo o argomenti nei testi, così come stimoli l’ascoltatore a trovare nuove interpretazioni».
Ecco quindi affiorare le molteplici immagini che cospargono il nuovo capitolo della storia Iron And Wine: «Ho visto peccatori fare musica / E ho sognato quel suono / Ho visto amanti da una finestra / Sussurrarsi: desiderami come il tempo / Ho visto la malattia, alberi da frutta in fiore / Ho visto sangue e un po’ di esso era mio / Ho visto bambini lungo un fiume / Ma le loro labbra erano ancora aride», nell’ammaliante Walking Far From Home. «Sembra che sia meglio fare quello che dicono / Queste scimmie dei quartieri alti che ti dicono di non perdere tempo / Il paradiso è un nome e il fiume è marrone / Di fango e pioggia e non si calma mai» (Monkeys Uptown). «Tutti abbiamo tradito gli amanti e ci siamo svegliati soli / E abbiamo applaudito il re anche se le nostre dita erano fredde / E io ho ancora una preghiera perché amo ciò che non riesco a controllare» (Rabbit Will Run).
Ogni brano racconta una storia, evoca un’atmosfera. È chiara la forte influenza che hanno sulla scrittura gli studi in arte e cinema: prendersi tutto il tempo che serve, pennellata su pennellata, inquadratura dopo inquadratura, parola dopo parola, incisione su sovraincisione, fino a creare una struttura complessa e allo stesso tempo semplice. Ed estremamente piacevole all’ascolto. «L’arte visiva e i film, specialmente il lavoro di Terrence Malick e John Cassavetes, offrono continuamente divertimento e ispirazione. Mi sono diplomato in pittura e cinematografia prima di concentrarmi sulla musica, utilizzo spesso tecniche e idee proprie dei mezzi visivi. Lascia un po’ di mistero allo “spettatore”».
Forse è questa la magia che riesce a creare Sam Beam nella sua musica: qualcosa di inspiegabile, di ineffabile, un ingrediente segreto che ci stuzzica l’appetito e che, in fin dei conti, sarebbe un peccato svelare. Lo stesso titolo del disco, tratto da un verso di una delle canzoni, è di difficile interpretazione: Kiss Each Other Clean suggerisce un’idea di pulizia e di rispettivo aiuto, ma capire a cosa fa veramente riferimento resta arduo. «Insinua che lo sporco è sbagliato e noi non siamo puliti. Le cose sono veramente messe male, stiamo davvero cercando di sistemarle? O stiamo pensando a divertirci ignorando i problemi? Tu cosa pensi che voglia dire?».
I compagni d’avventura di Sam Beam non sono un mistero: accanto al cantautore troviamo un nuovo gruppo di affiatati musicisti, alcuni sono membri dei Califone (Joe Adamick, Jim Becker e Ben Massarella), mentre Stuart Bogie (già col complesso afrobeat Antibalas) ha apportato nuove tinte di clarinetto e sassofono. «La maggior parte delle canzoni vengono presentate alla band in forma finita alla chitarra acustica o al piano. Poi il gruppo aggiunge i propri colori. Vengono provate molte opzioni e discusse molte idee. I musicisti in studio e quelli che mi seguono sul palco sono molto abili nell’espandere le canzoni, è molto eccitante per me. In questo tour ci sono dagli 8 agli 11 elementi (tra cui il tastierista Nick Luca e la cantautrice Rosie Thomas ai cori, nda). Lavorare con nuove persone è la chiave per spingere oltre la mia abilità».
Musicalmente colpiscono alcune suggestioni particolari, come le ritmiche africane e le chitarre acide di Rabbit Will Run, la struttura di Monkeys Uptown, il funk di Big Burned Hand, i cori di Glad Man Singing, mentre altri brani sono più assimilabili al cantautorato folk: Half Moon, Tree By The River, Godless Brother In Love. «Mi piacciono tutti i generi musicali», dice Beam. «Come il cibo, ci sono molte scelte, perché limitarsi a una sola? Sono stato onorato di dividere il palco con Oumou Sangaré a un festival qualche anno fa, la sua è stata un’esibizione incredibile».
Il disco è variegato e ricco di spunti: se ha una pecca, forse sta proprio in una certa mancanza di coesione tra i vari stati d’animo. Ma una traccia come quella che chiude la scaletta è emblematica di questa dualità, Your Fake Name Is Good Enough For Me. Ritmiche di derivazione afro, ottoni di matrice funk e un cantato scandito nella prima parte, a cui segue una lunga coda dove il coro si sviluppa in modo ripetitivo e compatto, avvolgente e ammaliante, e che come un mantra incanta e conquista: «Diventeremo il peccatore e il santo / La benda e la lama», ripete Sam instancabilmente. «Diventeremo la parola e il respiro / La carezza e il graffio / La gloria e la colpa / La ragione e il torto / Il sussurro e l’urlo / Il martello e l’unghia / La benedizione e l’imprecazione / Il sangue e l’osso / L’ora e il dopo / Di nuovo e di nuovo…».

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