27/03/2007

Jackson Browne

California State Of Mind

Quando entro nella saletta del Palace Hotel di Piazza Repubblica, a Milano, che la sua casa discografica ha riservato per gli incontri con la stampa, Jackson sta parlando al telefono con il comune amico Carlo Massarini. Ci salutiamo in modo caloroso.

Nonostante la giornata impegnativa (è arrivato in aereo il mattino e riparte nel tardo pomeriggio) lo trovo benissimo. Simpatico, cordiale e chiacchierone, Mr. Browne il 9 ottobre compirà 54 anni. Ma conserva (pur tra qualche ruga) quel viso da ragazzino che ne ha segnato positivamente l’esistenza. Ricordo quello che mi disse qualche anno fa quando, parlando proprio della sua immagine, mi fece notare che “tutti, indipendentemente dai nostri dati anagrafici, nella nostra testa pensiamo di aver sempre un’età compresa tra i 30 e i 35 anni”.

Quell’affermazione mi aveva colpito così come molte delle sue intuizioni o delle sue metafore. No way: Jackson è uno che con le parole ci sa fare: “Ha un senso del linguaggio squisitamente musicale”, ha scritto Dave Marsh, uno dei più stimati critici rock. “È il songwriter più delicato che abbia mai sentito”, mi aveva detto di lui David Crosby. “Jackson? Un vero amico e un compositore formidabile”, mi ha confessato una volta il suo partner artistico David Lindley.

Tutti parlano bene di Jackson. Anche quelli che, ogni tanto, hanno ironizzato sul suo (eccessivo) attivismo sociale o sul fatto che troppo spesso nelle sue canzoni ci fosse di mezzo la morte. Come il suo amico Warren Zevon che una volta (mentre stava male in aereo) pronunciò una frase che divenne, a suo modo, storica: “Mio Dio, non lasciare che io muoia e che Jackson scriva una canzone su di me”.

Oggi, secondo quello che riportano le cronache, il povero Zevon è messo davvero male (tumore al polmone): ma Jackson non ha intenzione di scrivere una canzone su di lui. Anzi, quasi si commuove quando mi dice: “Sono molto addolorato al pensiero di vederlo soffrire. ma confido sempre nei miracoli”.

La vita di Jackson Browne, è un fatto, ha dovuto spesso fare i conti con la morte (il suicidio della moglie e la scomparsa del suo “tutore artistico” Lowell George sono soltanto i lutti più famosi) e con diverse sventure sentimentali (come la feroce e dolorosissima rottura del rapporto sentimentale con l’attrice Darryl Hannah).

Eppure, come cantava nel suo comeback di inizio anni 90 lui è “alive”, vivo. Oggi più che mai. E pur conservando una casa in Spagna (a Barcellona), Jackson è felice di essere nuovamente tornato a vivere in modo stabile in California, la sua terra natia. Anche se ammette che “è stata una scelta forzata: volevo fare questo nuovo album. E non potevo registrarlo in Spagna”.

The Naked Ride Home è il tredicesimo disco ufficiale di una carriera nata, discograficamente, giusto trent’anni fa (1972) ma musicalmente datata 1967. Quello è infatti l’anno del suo primo disco (mai pubblicato) e del suo trasferimento a New York City per respirare l’aria del Greenwich Village. Lì prende lezioni di songwriting militando nella band di Tim Buckley ma finisce per innamorarsi della suadente Nico, irresistibile sirena bionda che ha stregato tutte le rockstar degli anni 60.

Ma la carriera e soprattutto la musica di Jackson Browne sono indissolubilmente legate alla California. Ancora oggi le sue canzoni evocano immagini e climi da Golden State e trasportano l’ascoltatore in quella che è stata, è e sarà la “terra promessa del rock’n’roll”.

“Capisco quello che dici. Ma per me la California non è mai stata una destinazione. È stato un punto di partenza. E un’innegabile fonte di ispirazione. Ricorro spesso a immagini come le freeway che sono tipiche del sud della California. Questo perché ho sempre scritto di cose personali e quindi mi risulta più semplice e spontaneo usare immagini a me famigliari”.

Tredici album in trent’anni sono pochi. È un appunto che gli è stato fatto spesso. “Lo so”, ammette con sincerità. “Un po’ è dovuto al fatto che io presto molta attenzione alle mie canzoni. A volte ci sto dietro in modo persino eccessivo e impiego anni per finirle. Ma, se vuoi, anche perché in fin dei conti sono un po’ pigro. C’è stato un momento in cui avevo pensato di finire questo disco. È stato circa un anno fa: ma poi mi sono reso conto che mancavano due brani. Che forse sono quelli più importanti”.

Nello stesso hotel, quel giorno, c’è anche James Taylor, a Milano per suonare al Teatro Smeraldo (vedi spazio Concerti su questo numero). I due si incontrano amichevolmente. “L’avessi saputo prima”, confida Jackson, “mi sarei fermato e avremmo magari fatto un duetto insieme. È sempre bello vedere James”.

E a proposito di vecchi amici, gli dico che sta per uscire il terzo volume di Will The Circle Be Unbroken e che, per l’ennesima volta, non compare nella lista degli ospiti. Già, proprio lui che della Nitty Gritty Dirt Band era stato, a suo tempo, uno dei fondatori. “Mi verrebbe da dirti che è stata ancora una volta colpa loro”, scherza, “ma devo confessare che sono stato invitato a Nashville e i miei tempi non coincidevano con le esigenze dei Nitty Gritters. Avremmo dovuto cantare un pezzo insieme io, Willie (Nelson) e (Tom) Petty: ci eravamo incontrati a Los Angeles e ci eravamo già messi d’accordo. Sarà per la prossima volta”.

Intanto, proprio con Tom Petty, Jackson sta girando gli States. E (con o senza Tom) ha promesso di venire in Italia: “La prossima primavera”.

Ma che fine ha fatto il disco dal vivo che ci aveva promesso? Quello, tutto acustico, in duo con David Lindley? “Prima poi uscirà, credimi. Ogni mio album richiede un lungo processo intellettuale. Non voglio metterla giù dura e prendere una scusa per giustificarmi. So che ho fatto pochi dischi rispetto ai tanti anni di carriera. ma come spiegavo anche prima, le mie composizioni hanno spesso una genesi lunga. Magari un pezzo nasce in modo casuale, mentre sto provando o in altre situazioni. Poi, per essere completato o semplicemente per essere da me accettato passano anche degli anni. Quando scrivo una canzone non sento urgenze particolari. Anche perché quella della scrittura è la parte più interessante. Fa parte della ricerca, della scoperta. E quindi vorrei che durasse il più a lungo possibile”.

In questo disco ci sono quattro brani a sua firma. Gli altri sei sono accreditati come testi a Jackson e come musica a tutta la band. “Sì, quest’album è frutto di un lavoro di gruppo. E quindi aver riconosciuto ai miei collaboratori il copyright è stato un gesto per sottolineare il ruolo, determinante, che hanno avuto in questa produzione. Non è cambiato il mio modo di scrivere canzoni: solo che in questa circostanza molto del lavoro di messa a punto, rifinitura e arrangiamento è avvenuto in studio insieme ai miei musicisti”.

Nel nuovo album non ci sono riferimenti precisi ai fatti del 11 settembre (“Avrei trovato riduttivo scrivere una canzone su quella tragedia immane”) e solo un brano (Casino Nation) ha un testo esplicitamente politico. “Ma credo che altre canzoni sfiorino il tema sociale e politico. O, comunque, trovo che esso sia sempre presente nella mia musica, anche se spesso tra le righe. Casino Nation contiene frasi forti di denuncia contro i mali della società americana. Mi sono impegnato per tanto tempo a favore di cause sociali e umanitarie. Oggi non saprei dirti quale sia la più importante o la più urgente. Se trovassi una persona giusta, un politico che potesse davvero dare garanzie di cambiamento, probabilmente lo appoggerei. Ma stiamo vivendo un periodo così buio, pieno di tragedie disgustose e con così tante cose che non vanno che, forse, varrebbe la pena concentrarsi sui bambini. E quindi sarei pronto ad aiutare una scuola in cui si possano insegnare valori diversi da quelli che attualmente regolano il mondo”.

Intanto Jackson continua a trasmettere emozioni attraverso le sue canzoni. Che parlano, come sempre, di esperienze vere: “Sì, anche The Naked Ride Home”, dice sorridendo, “racconta un fatto che è realmente avvenuto. Ho cambiato leggermente alcuni particolari per rendere la storia più interessante. Ma scusa, vuoi dirmi che qui in Italia fare sesso in automobile non è un’attività comune? No, non ho paura nel rivelare, attraverso le mie canzoni, lati veri della mia personalità, episodi di vita o cose che mi sono realmente successe. È sempre una questione di prospettiva, per chi racconta i fatti e per chi li ascolta. Ecco perché non temo di mostrarmi al pubblico. So che ad altri autori la cosa non garba: tu accennavi prima che Joni Mitchell lo ha fatto in passato ma sostiene che è troppo doloroso. Joni ha sempre ragione: lei è un genio”.

Non solo Joni Mitchell: tutta una generazione di songwriter nata tra la fine degli anni 60 e la prima metà dei 70 ha scritto pagine indimenticabili della musica del Novecento: “Abbiamo avuto la fortuna di vivere in un momento straordinario, probabilmente irripetibile, dove creatività artistica, innovazioni culturali, nuovi stili di vita e di pensiero, rivoluzioni sociali e industriali andavano di pari passo trasformando il mondo. Ma non sono d’accordo su quelli che dicono che sia tutto finito. Neanche dal punto di vista musicale: hai ascoltato l’ultimo disco di Bob Dylan? Come si può dire che è tutto finito?”.

Certo, personaggi come Bob Dylan, James Taylor, Joni Mitchell, Paul Simon, David Crosby (giusto per citare i primi di una lunga lista di poeti rock) non debbono temere competizione alcuna. Se non con loro stessi e con il loro ingombrante e (forse) impareggiabile passato. Per questo chiedo a Jackson se l’importanza e la bellezza di album epocali come For Everyman, Late For The Sky o Runnin’ On Empty non costituiscano motivo d’orgoglio ma al tempo stesso una sfida invincibile. “Ti ringrazio per i complimenti. Tu hai citato Late For The Sky: so che molti miei fan vorrebbero che io facessi sempre e solo dischi come quello. Ma non è possibile. Non amo riascoltare le mie canzoni, non so perché. Preferisco concentrarmi sul presente. Però ogni tanto è successo. Come quando pochi anni fa la casa discografica mi ha chiesto di selezionare i pezzi per il mio greatest hits: sceglievo sempre quelli sbagliati. Ci sono sempre brani che all’autore suggeriscono cose che il pubblico non percepisce. La verità è che pensando alle vecchie canzoni ti accorgi anche di quanti cambiamenti ci sono stati. E non sempre, a distanza di tempo, condividi quello che sei stato”.

Ai miei occhi, e sono abbastanza certo a quelli dei suoi fan più affezionati, Jackson Browne appare sempre allo stesso modo.

È vero. Oggi la California del sud non è più il luogo del “peaceful easy feeling” cantato dai suoi amici Eagles; e anche la filosofia del “take it easy”, che lui stesso ha contribuito a far diventare un inno, suona datata. Eppure la sua sensibilità artistica, la sua scrittura delicata e armoniosa, i suoi testi introspettivi ma puntualissimi restano freschi, evocativi ed emozionanti come trent’anni fa.

E continuano a suggerire paesaggi sonori immaginari in cui tutti noi appassionati vorremmo stabilirci. Per sempre.

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