15/05/2007

John Mellencamp

Trouble No More – Columbia/Sony

Che sia un cultore delle “radici americane” non è un mistero. Basta ascoltare uno qualsiasi dei suoi venti album; grazie ai quali ha venduto (in quasi trent’anni di carriera) più di 40 milioni di copie ottenendo ben undici Grammy. Eppure, di recente, John Mellencamp ha voluto scavare ancor più in profondità. E così, ha iniziato un’accurata ricerca negli amatissimi territori blues, folk e country che per anni hanno nutrito la sua vena artistica.

“Credevo di conoscere molto delle tradizioni musicali degli Usa”, ha affermato, “ma ho scoperto autentiche miniere d’oro”.

Spinto da questa particolare curiosità culturale e artistica, John ha cominciato ad ascoltare migliaia di brani della tradizione nordamericana (bianca e nera): dai blues del Delta di Robert Johnson e Son House ai classici della musica per string band (Diamond Joe), da vecchi pezzi di Woody Guthrie (Johnny Hart) a chicche dimenticate come Joliet Bound di Memphis Minnie.

Nel suo viaggio etnomusicologico, John ha coinvolto tutti i suoi abituali compagni di lavoro. A cominciare dal chitarrista Andy York che, come racconta Mellencamp nel suo sito ufficiale (www.mellencamp.com) “si è ritirato per sei mesi a studiare lo stile di Robert Johnson e degli altri maestri del Country Blues”.

Proprio un brano di Robert Johnson (Stones In My Passway) è il primo che la band mette a fuoco. E che viene presentato in pubblico nell’ottobre del 2002 in occasione del concerto organizzato in memoria del critico musicale Timothy White, amico personale di John. Non è dunque un caso che quel pezzo sia stato scelto per aprire Trouble No More, il nuovo lavoro in studio del rocker dell’Indiana. Che è il frutto sonoro della lunga ricerca cui abbiamo accennato sopra avvenuta di fatto al termine del tour di sostegno del suo ultimo, entusiasmante cd Cuttin’ Heads (vedi JAM 75).

Dodici i pezzi presenti, tutti convincenti. Alcuni addirittura superlativi. A piacere è soprattutto il concept: una formidabile cavalcata tra le radici della musica americana rivedute e corrette in modo personalissimo da uno dei suoi più credibili cantori. E, seppure, Mellencamp sembra (logicamente) funzionare meglio quando è alle prese con brani del repertorio “bianco” (ascoltate la fantastica Diamond Joe: sembra uno dei suoi lavori migliori, da fare invidia alle magiche atmosfere di The Lonesome Jubilee), a noi quello che una volta si faceva chiamare Little Bastard esalta anche nei due blues rurali che aprono le danze. E cioè la già citata Stones In My Passway e soprattutto la successiva, fenomenale Death Letter (di Son House) in cui la voce dell’ex Cougar si fonde in modo perfetto con il dobro di York. Oppure ancora Down In The Bottom di Willie Dixon, portentoso rock blues nella vena degli Stones (e quindi anche in quella del vecchio John che mai ha nascosto la sua passione per la band di Jagger & Richards).

Certo, ascoltando la Johnny Hart di Guthrie (che non è altro che il celebre traditional John Hardy con testo modificato) si capisce subito che Mellencamp sembra nato per cantare quelle cose. Il suo piglio rock si fonde in modo perfetto con la strumentazione acustica suonata impeccabilmente, pur se fuori dallo stile canonico originale. Ma tant’è: come sempre, infatti, la band di John è fantastica. A cominciare dai chitarristi (York e Wanchic) per non parlare della violinista Miriam Sturm e delle solite, fantastiche coriste/percussioniste di cui Mellencamp è solito circondarsi. Che hanno largo spazio nella bluesy John The Revelator, intervenendo insieme e a turno con stacchi vocali da brivido.

Tra evergreen del songbook americano come Baltimore Oriole di Hoagy Carmichael o superclassici come The End Of The World, trova spazio anche l’incantevole cajun waltz Lafayette, firmato dalla penna sapiente di Lucinda Williams. E se Teardrops Will Fall (un vecchio blues fatto, a suo tempo, anche da Ry Cooder) suona coinvolgente quasi fosse una hit dello stesso Mellencamp, To Washington (traditional reso celebre da Woody Guthrie) è l’unico pezzo in cui (almeno dal punto di vista del testo, come da noi segnalato su JAM 92) c’è lo zampino di John. Perché, come spiega lui stesso, “ho voluto seguire quella tradizione che prevede il ‘furto’ dei brani e l’adattamento degli stessi attraverso un testo contemporaneo”. La presa di posizione contro la politica di Bush è esplicita: “Mi sono semplicemente limitato a raccontare i fatti, proprio come facevano i menestrelli”.

Onesto, credibile e come sempre pieno di passione ed energia: il ritorno alle radici di John Mellencamp è una straordinaria boccata d’ossigeno per tutti gli appassionati.

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Voto: 8,5
Perché: è l’omaggio (personalizzato) del grande Mellencamp alle musiche delle “radici americane” che ne hanno costantemente nutrito la vivacissima vena artistica. Strepitoso.

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