29/10/2008

L’AMERICA DI BOB DYLAN

Ho sentito parlare di un tipo vissuto tanti anni fa, un uomo capace di tanto dolore, che se qualcuno fosse morto vicino a lui sapeva come riportarlo in vita. Non so che linguaggio usasse o se queste cose succedano ancora, a volte mi sembra che nessuno mi abbia mai guardato, mai conosciuto, tranne la ragazza sulla riva del fiume rosso». Non è una versione aggiornata di Dig Lazarus Dig, il brano di Nick Cave che raccontava le avventure di un Lazzaro risuscitato nel terzo millennio. È l’ultima strofa della struggente Red River Shore, pezzo di Bob Dylan che appare su Tell Tale Signs: Bootleg Series Volume 8 (vedi recensione su JAM 152). Si era fantasticato di questo brano sin dall’uscita del disco che avrebbe dovuto contenerlo, Time Out Of Mind (1997), quando uno dei musicisti presenti a quelle session, il leggendario Jim Dickinson, aveva accennato in una intervista a «una canzone bellissima, che parlava di una ragazza sul Red River, ma che purtroppo Bob Dylan ha deciso di non includere». Come già anni prima Blind Willie McTell (registrata per il disco Infidels, 1983) e Series Of Dreams (per Oh Mercy, 1989), ecco un’altra sorta di Sacro Graal a cui i dylaniani di tutto il mondo si apprestavano a dare la caccia. Avrebbero dovuto aspettare undici anni.

Sulle spiagge del fiume rosso
Tell Tale Signs contiene alcuni brani straordinari che aprono squarci di approfondimento su quello che è il contenuto più recente dell’opera del musicista: le tre versioni di Mississippi, Marchin’ To The City, Red River Shore, la versione differente di Can’t Wait rispetto a quella già conosciuta e Most Of The Time hanno una storia da raccontare. Richiedono ascolto approfondito, esempi del genio del più grande autore di canzoni rock della storia, brani che rivelano quella «restless mind» mai soddisfatta del proprio lavoro, con cui Dylan già quarant’anni fa aveva cercato di venire a patti. Sono cinque brani, registrati nell’arco di tempo che va dal 1989 al 1997 e che, a parte la versione acustica di Most Of The Time, appartengono tutti alle session di Time Out Of Mind, un disco che rappresentava in modi diversi una delle più drammatiche rinascite creative – dopo un periodo di altrettanto drammatico black out compositivo – che la storia della musica popolare ricordi. Poco dopo l’uscita di Oh Mercy e del successivo Under The Red Sky, fallimentare sotto ogni punto di vista, quello commerciale e quello artistico, Bob Dylan aveva infatti dichiarato che non avrebbe più scritto nuove canzoni: «Al mondo ce ne sono già abbastanza», aveva detto. Avrebbe tenuto fede alle inquietanti parole pubblicando, nel 1992 e 1993, due dischi interamente composti di vecchi brani della tradizione blues e folk. Poi d’improvviso il colpo di reni di Time Out Of Mind.
Ascoltare questa versione di Most Of The Time solo voce, chitarra acustica e armonica, che su Oh Mercy Lanois invece coprirà di strumentazione degna di un disco degli U2, mostra i primi indizi di dove il cantautore, per la sua rinascita, si stesse dirigendo. Sembra uscire da un disco come Freewheelin’, puro approccio folk da balladeer autentico, e stupisce la freschezza con cui il quasi cinquantenne Dylan cancella di colpo trent’anni di sperimentazioni stilistiche che separano quel vecchio album da queste sedute. Segno che, come ha detto qualcuno, Bob Dylan era e rimane al fondo un autentico folksinger. L’autorevolezza e l’apparente semplicità con cui esegue il pezzo è l’introduzione fondamentale che porterà alle magie e ai misteri di qualche anno dopo.

Un tempo immemorabile
È a Miami, nel gennaio 1997, presso i Criteria Recording Studios che si celebra questa rinascita. Il primo indizio che si ricava dall’ascolto delle outtake di Time Out Of Mind è che, esattamente come raccontarono i testimoni che con lui registrarono negli anni 60 dischi come Blonde On Blonde, Bob Dylan continua a comporre essenzialmente in studio. Smonta, rimonta, sposta e incastra idee e intuizioni che gravano nella sua mente da una canzone all’altra.
Marchin’ To The City contiene un paio di versi che poi sarebbero stati dirottati su Tryin’ To Get To Heaven («Go over to London maybe gay Paree, follow the river you get to the sea»); la versione alternativa di Can’t Wait contiene versi che poi finiranno addirittura su Sugar Baby quattro anni dopo, sempre che Sugar Baby non fosse già stata composta («Well my back is to the sun because the light is too intense, I can see what everybody in the world is up against»); Dreamin’ Of You, sempre dalle sedute di TOOM ma che non abbiamo inserito nella cinquina qui analizzata perché brano, seppur buono, non trascendentale, presenta diversi passaggi poi riciclati per Standin’ In The Doorway («Church bells are ringing I wonder who they’re ringing for» e «I eat when I’m hungry, drink when I’m dry, live my life on the square»). Tutto ciò ci permette di vedere l’artista al lavoro, entrare nella sua mente e in studio: forse qualcuno potrà obiettare che sia piuttosto la dimostrazione che Dylan è a corto di idee, non ha un “messaggio” da affidare alle canzoni, ma ci sbatte dentro, a casaccio, tutto quello che gli viene in mente. Può essere, ma ancora non è arrivato agli eccessi dei successivi Love And Theft e Modern Times dove pesca allegramente da opere altrui: quella dello scrittore giapponese Junichi Saga nel caso del primo disco, il poeta americano dell’800 Henry Timrod (e sembra anche il poeta latino Ovidio) nel secondo. Un segnale che al musicista, dei testi, oggigiorno non interessa più di tanto? Non esattamente, anche perché Timrod fu il narratore del turbolento periodo storico americano che coincise con la Guerra civile, un periodo che Dylan nei suoi due ultimi lavori ha affrontato con grande vigore, per dedicargli anche una bellissima composizione del 2003, ‘Cross The Green Mountain, nella colonna sonora del film Gods And Generals che parla appunto di quella guerra. E poi, sfido qualunque altro suo collega a inserire versi pensati per un blues hard boiled come Dreamin’ Of You in una ballata come Standin’ In The Doorway, per non parlare di Can’t Wait e Sugar Baby. Si potrà magari criticare per il non eccelso livello poetico, ma il senso della musica è ancora un privilegio di cui Dylan è padrone assoluto.
Più interessante però degli esempi prima citati è quello di Not Dark Yet: qui Dylan ha inserito il verso «She wrote me a letter, she wrote it so kind». Ma non lo ha preso da una sua composizione. È andato a pescarlo da una antichissima cowboy song, le cui origini risalgono addirittura al 1910 e poi incisa anche nel 1965 dal popolare Kingston Trio: si intitolava The Red River Shore. È una antica ballata che si può trovare sull’antologia Folk Songs Of North America curata dal musicologo Alan Lomax. È nella sezione “The West”, in una sottosezione chiamata “Prairie Farmers”. Canzoni dei cowboy, insomma. È una versione aggiornata di New River Shore che risale al 1910 e la cantava una certa Minta Morgan di Bells, Texas, forse la ragazza del fiume rosso di cui canta adesso Dylan nella sua Red River Shore. Il che ci conduce a nuovi indizi.

Dal Texas al Mississippi
Per la sua Red River Shore Bob Dylan non ha ripreso la melodia della vecchia cowboy song, ma si è adagiato su una splendida, seppur classica, andatura tex-mex, una via di mezzo fra Pancho & Lefty di Townes Van Zandt e Across The Borderline di John Hiatt e Ry Cooder. Brano molto lungo, oltre sei minuti, cattura tutte le suggestioni del luogo fisico dove si svolge (il Red River che si trova nel Texas, che ha segnato la storia della conquista dell’Ovest celebrato in tanti film d’epoca) e poco importa sapere se il cantante ci si è mai recato o abbia davvero amato qualcuno laggiù. La ragazza lasciata su quelle rive si trasfigura nella memoria di un incontro che segna il protagonista per sempre. C’è tutto un mondo e una esistenza in questa canzone. Per citare Greil Marcus: «Tutto il mondo può essere contenuto in una canzone di tre minuti». Meglio se questa, come nel caso di Red River Shore, di minuti ne dura quasi otto.
Mississippi è l’altro punto focale del Dylan di Time Out Of Mind. È presente in due versioni (e una terza, sul cd dell’edizione deluxe, ma a parte qualche lirica differente è una versione poco interessante): una solo lui e Lanois su una base ostinatamente blues che richiama per suggestione il Robert Johnson delle sue leggendarie session, seduto da solo con la faccia contro il muro, e una full band. Il brano presenta uno dei grandi misteri dylaniani. Dagli evidenti errori nelle parti di chitarra si desume che questa registrazione è una prova, delle tante che si fanno in studio, per immaginare poi come suonarla con la band. Da come la canta Dylan, magnificamente, senza esitazione alcuna, è invece evidente che per il cantante il pezzo è già definitivo: a differenza della sua incurabile mania di riscrivere le canzoni registrazione dopo registrazione, Dylan non toccherà la melodia, il tempo, neanche un verso, nei successivi quattro anni. Lui sa che va bene così. In una intervista anni fa aveva detto che il pezzo ha a che fare con la carta costituzionale degli Stati Uniti, con la dichiarazione di indipendenza e con i diritti civili (nel Mississippi, negli anni 60, si svolsero le più accese battaglie per i diritti dei neri, vedi anche il bel film Mississippi Burning); Lanois probabilmente la sentiva una dichiarazione a una donna, visto che gli chiese di inciderne una versione «più sexy», al che Dylan lo mandò a quel paese decidendo di tenere fuori questo capolavoro dal disco finito. Su Internet è stato possibile rintracciare una interessante chiave di lettura, dove si spiega che il protagonista del brano potrebbe essere uno schiavo di metà dell’800 che sta scappando verso la libertà, il nord, e in effetti se letto da questo punto di vista, il testo di Mississippi sembra adattarsi quasi alla perfezione, inclusa l’immagine dei compagni che erano salpati sul mare insieme al protagonista, che potrebbero essere schiavi strappati via dall’Africa. E il nero che si racconta, che sogna Rosie, che vorrebbe essere nel letto di Rosie, magari è proprio uno schiavo che ha avuto l’ardire di flirtare con una donna bianca e, condannato a morte e liberato magari da lei stessa, sta cercando di scappare dal «diavolo che è nel cortile». La desolazione che emerge da questa versione del 1997 può essere solo la voce di un condannato a morte.
«Ciascuno dei dischi che ho fatto è emanato dal panorama complessivo di ciò che rappresenta l’America per me» ha detto Dylan in una intervista relativa proprio al disco L&T. «L’America per me è una marea montante che solleva tutte le navi, e non ho mai davvero cercato ispirazione in altri tipi di musica». Mississippi, e Red River Shore, sono la conferma che Bob Dylan, dai tempi di Walt Whitman, è una delle voci narranti più autorevoli della sua nazione, e ancora non si vede un erede adeguato.
C’è un altro indizio, interessante. In Tell Tale Signs sono contenuti due brani dalle session tenute nel 1992 con il produttore David Bromberg per un disco mai pubblicato. Uno è una vecchia composizione di Jimmie Rodgers (a cui Dylan qualche anno dopo avrebbe dedicato un intero disco tributo): si intitola Miss The Mississippi.

Will The Circle Be Unbroken?
«If we do that… how about b-flat?»: è la voce di Dylan che si sente nei primi secondi di Can’t Wait. Il fascino di queste session di Time Out Of Mind continua e si celebra anche in momenti come questi. Li possiamo vedere, tutti i musicisti seduti assieme in studio, con Dylan al centro che li guida. Proviamola in Si bemolle, dice, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Se Can’t Wait, nel disco ufficiale, era già una formidabile performance incorniciata su un ipnotico groove di blues, qui Dylan parte veramente per la tangente dal punto di vista vocale. L’esecuzione è inquietante, piena di angoscia e di una forza selvaggia che in un certo modo fa rivivere il «fantasma dell’elettricità» che appariva e scompariva nei solchi di Blonde On Blonde. Folksinger purissimo, come in Mississippi, Most Of The Time e Red River Shore, o fottutissimo rocker? Siamo ancora fermi a Newport, quella sera del luglio 1965, perché la risposta, amico, soffia nel vento.
Ascoltando un altro grande “scarto” di queste sedute, Marchin’ To The City, un incalzante blues guidato dal pianoforte di Dylan che per la geometrica precisione ricorda, ma con meno foga giovanile, lo stesso battito compulsivo di Isis (Desire, 1976), verrebbe da dire: no, il miglior interprete di blues di pelle bianca di ogni tempo. E dopo una devastante esecuzione che cresce di intensità strofa dopo strofa per quasi sette stordenti minuti, la musica si ferma e lo senti dire, avvertendo il ghigno che gli si deve essere disegnato sul volto: «I don’t know…». Ti cascano le braccia. A lui, questo capolavoro, non è piaciuto. Rimarrà per undici anni nei cassetti, come gli altri. Sul terzo cd c’è una seconda versione del brano, questa volta con un passo ritmato e incalzante: non esalta più di tanto, ma è interessante come il pezzo vada a prendere sempre di più i contorni di quella che poi diventerà, sul disco finito, ‘Till I Fell In Love With You. Ma la magia di quella che era la versione originaria si è ormai persa del tutto. Segno che anche un grande come Dylan non sempre ci azzecca.
E così il cerchio è completo. In quattro canzoni Bob Dylan ha girato ogni angolo di America, dal Mississippi al Texas, passando per i campi di cotone della Virginia e bussando alle porte ora chiuse delle coffee house del Greenwich Village. Del suo paese ha celebrato fascino, memoria, ingiustizie, amori e promesse. Una volta, l’attore Gregory Peck disse, a proposito di Bob Dylan, che «in lui è possibile udire l’eco delle antiche voci d’America, Whitman e Mark Twain, i cantanti blues, i suonatori di violino e gli autori di ballate. Lui è una specie di troubadour dell’Ottocento, uno spirito americano originale, l’intelligenza della sua voce e la frugalità delle sue parole vanno dritte al cuore dell’America stessa».
Quello che appare da queste tracce scartate da Time Out Of Mind sono appunto indizi di un cammino che porterà, in modo sempre più spedito, ai successivi dischi in studio, Love And Theft e Modern Times. Per questi, si è parlato di plagio musicale, basti citare Rollin’ And Thumblin’, che seppur non sia stata composta da lui perché antecedente, è iscritta al registro dei copyright a nome Muddy Waters che l’ha incisa con lo stesso titolo e il medesimo arrangiamento usato da Dylan, oppure Tweedle Dee And Tweedle Dum che è identica a Uncle John’s Bongo, del duo Johnny And Jack, risalente alla fine degli anni 40. Dibattito sterile, perché già un album come The Freewheelin’ Bob Dylan del 1963 non conteneva alcuna musica originale di Bob Dylan. Piuttosto, è interessante che Dylan sia tornato al medesimo processo compositivo dei suoi inizi, segno di un percorso che ha concluso la sua ragione d’essere, un cerchio che si chiude.
Il giornalista Robert Hilburn racconta che in una intervista del 2004 Dylan gli ha confessato candidamente che per brani come Blowin’ In The Wind o The Times They Are A-Changin’ aveva messo delle parole sulla melodia di un vecchio spiritual della Carter Family nel primo caso, e su quella di una ballata scozzese nel secondo: «Questo modo di fare è la tradizione della musica folk», commentò. Mentre Dylan parlava, stava strimpellando la chitarra. Hilburn riconobbe la musica di un brano del compositore Irving Berlin, Blue Sky. «Stai scrivendo un brano nuovo mentre parliamo?», gli chiese. Sornione, Dylan rispose con un sorriso: «No. Ti sto solo mostrando quello che faccio». E Time Out Of Mind, se fosse stato un doppio album con l’inclusione di queste tracce scartate, sarebbe stato il più grande disco di Bob Dylan. Appena dopo l’altro doppio che fece nei 60, Blonde On Blonde.

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