30/03/2007

Leonard Cohen

Alla ricerca del tempo perduto

Dieci anni di silenzio per un artista, anche tra i più stimati, sono un’eternità e la casa discografica pur di non farne perdere la memoria si deve inventare di tutto. Così è successo per Leonard Cohen, classe 1934, padre putativo di più generazioni di cantautori e ancora oggi fulgido esempio di sensibilità e senso speculativo interiore.

L’ultimo suo lavoro risale al 1992, The Future, album bello e complesso, votato alla ricerca religiosa come possibile superamento di un’angosciosa esistenzialità. Per comprenderne le canzoni bisogna immergersi nel grande Libro della Sapienza e decodificare con pazienza similitudini e allegorie oppure abbandonarsi all’incedere armonico e dolcissimo del canto e affidarsi all’empatia, straordinaria e misteriosa maestra che guida l’uomo a scegliere il giusto fin delle origini.

Per tamponare i ritardi successivi a quest’ultimo disco la Sony pensa bene di pubblicare due anni dopo una raccolta dal vivo, Cohen Live, che presenta in gran parte pezzi tratti dal tour del ’93, un More Best Of nel ’97 e, visto che la situazione si fa insostenibile, un altro live, Field Commander Cohen, nel 2000, riesumato addirittura da una serie di concerti del ’79. In realtà il nuovo album è in dirittura d’arrivo e bisogna preparare il terreno: nel mese di luglio Leonard Cohen arriva inaspettatamente a Milano e concede una serie di interviste, dopo che la casa discografica ha organizzato ascolti al limite della clandestinità di Ten New Songs, l’attesissimo nuovo parto.

L’album, c’era da scommetterci, è molto bello, diverso dal precedente, sempre molto intimista e introspettivo, ma più pacioso, slegato da temi gravosi come la filosofia e la religione. Lo stesso Cohen interpellato su questo tema dice: “Ci sono meno riferimenti strettamente legati alla religiosità, ma è normale perché più si studiano certe cose, più è difficile parlarne; il mio maestro non riusciva ad esprimersi molto bene in inglese per cui le nostre conversazioni erano ridotte all’essenziale, ci scambiavamo poche idee, nessun grande concetto, niente religione, eppure c’era un gran senso di pace, riuscivamo quasi a comunicare meglio senza parole: parlavano per noi i nostri sguardi, gli atteggiamenti dettati dall’interiorità”.

Cohen ha infatti passato negli ultimi tempi parecchi anni in un convento di monaci buddisti, sulle alture della California, vicino a Big Sur, al California’s Mount Baldy Zen Center e, pur non facendo vita strettamente monastica e concedendosi ritorni periodici in città, ha approfondito la meditazione e la vita di comunità. Ha vissuto in una piccola cella, spartana nella sua struttura, conducendo una quotidianità essenziale fatta di poco riposo, molte preghiere, pasti frugali e lavoro condiviso con i monaci, insomma una vita molto ritirata e centrata sulla meditazione, un’esperienza che stando alle sue parole considera finita.

“È stato un periodo molto utile che mi ha aiutato a comprendere l’importanza della comunicazione essenziale, del silenzio, un’esperienza che rimane e si può mettere a frutto anche in un contesto differente da quello in cui è maturata. Ora ho lasciato l’eremo, ma conto di ritornarci ancora qualche volta, ma solo per brevi periodi di tempo, non ho più necessità di separarmi dal mondo per cercare di comprendere.”

Quando gli viene chiesto come mai nel corso della sua vita sia passato attraverso dottrine molto distanti tra di loro come il giudaismo e il buddismo, risponde: “Vorrei chiarire che non ho mai inteso cambiare religione e soprattutto non ho mai pensato di convertirmi al buddismo. Io sono sempre stato appagato dall’ebraismo e anche se mi sono rasato la testa, ho indossato gli abiti del monaco e resto l’allievo del mio maestro non mi sono mai perso in discussioni riguardo l’affermazione o la negazione dell’eternità. La mia necessità era e rimane quella di studiare e capire come succedono le cose senza pormi dogmi o pregiudizi di nessun tipo. Non c’è alcun conflitto tra questa scuola di buddismo e la mia religione originale”.

“Quando due rabbini hanno saputo che un ebreo stava vivendo in un convento di monaci buddisti”, racconta, “si sono preoccupati e sono venuti fino lassù per capire di cosa si trattasse ed eventualmente riportarmi sulla retta via. Era d’inverno, proprio nel periodo in cui i cristiani festeggiano il Natale e gli ebrei l’hanukkah e quando li ho invitati a entrare nella mia cella e hanno visto i candelabri che ardevano, si sono rassicurati e hanno voluto festeggiare a suon di whiskey, sigarette turche e lodi al Signore.”

Ora Leonard Cohen vive a Los Angeles e ha ripreso a lavorare, a dedicare le sue giornate a scrivere. Quanto abbia pesato l’esperienza della solitudine sul suo nuovo lavoro è difficile da cogliere, anche perché Ten New Songs sembra ritornare al passato più che approfondire tematiche topiche, narrare ancora una volta di donne e amori difficili visti però con un distacco maggiore, quasi su uno sfondo. “Effettivamente la condizione mentale che ha accompagnato la stesura delle nuove canzoni era molto più pacificata che in passato. Quando sono sceso dalla montagna ho preso parecchi appunti e ho abbozzato anche qualche melodia, ma credo che grosso merito della scioltezza dei testi vada a Sharon Robinson, già collaboratrice in passato di parecchie mie canzoni, e ancora una volta presenza preziosa. Per molto tempo abbiamo lavorato a stretto gomito e spesso si è aggiunta anche Leanne Ungar, produttrice degli ultimi album; da questo tipo di sinergia è nato il nuovo disco.”

Le canzoni sembrano essere state prodotte in modo tale da mettere soprattutto in risalto la voce sempre più virile e cavernosa di Cohen, quasi a discapito di un abbellimento musicale. “È vero, le canzoni vengono soprattutto sorrette da linee ritmiche essenziali, in grado di sottolineare in modo particolare i vari passaggi, però non è stata una decisione presa a priori. Mentre il lavoro progrediva, registravo su nastro senza ancora avere le idee chiare se utilizzare i musicisti piuttosto che le basi computerizzate, solo successivamente ho realizzato che poteva essere meglio mantenere alcuni suoni campionati per rendere più incisivi gli interventi ritmici e far di conseguenza risaltare meglio la vocalità.”

Comunque sia, i brani che Cohen presenta su Ten New Songs sembrano delle poesie lette dal suo autore piuttosto che vere e proprie canzoni. “Non è un caso”, risponde questa volta Sharon, “che le canzoni siano sostenute da una melodia semplice e che ogni canzone si risolva volutamente con semplici accordi. Lo stesso Leonard mi diceva, man mano che procedeva il lavoro: scartiamo questo accompagnamento perché è troppo complesso, ha più di quattro accordi.”

Il lavoro di Sharon Robinson non deve effettivamente essere stato semplice perché vedersela con un materiale così personale e maschile come le canzoni di Cohen non è cosa da poco, e inoltre mettere le mani su testi scritti da un’autentica icona del mondo cantautorale è una responsabilità che non tutti sono in grado di sostenere. “Sharon è prima di tutto un’ottima amica”, dice Cohen a questo punto, ” la conoscenza reciproca aiuta a lavorare meglio. Poi lei è molto femminile e questo ha aiutato ad equilibrare maggiormente i testi, a stemperarli da alcune durezze che altrimenti sarebbero inevitabilmente emerse. Ha avuto la sensibilità di intervenire senza snaturare nulla di quello che volevo dire, semmai di porgerlo con maggiore delicatezza e renderlo accessibile con una liquidità formale di cui io non sarei stato capace.”

Quasi dieci anni di silenzio e poi improvvisamente due album in pochi mesi: sembra quasi che il ritiro monastico l’abbia caricato di un’energia precedentemente assopita. “Bisogna recuperare il tempo perduto”, scherza Cohen. “In realtà mentre stavo già lavorando a Ten New Songs mi è capitato di risentire del materiale registrato durante il tour europeo del ’79, mi è sembrato particolarmente buono e soprattutto mi sono ricordato di quella bella esperienza insieme al maestro di corno Paul Ostermayer, al batterista Steave Meador, al violinista Raffi Hokopian e alle due splendide corista Sharon Robinson e Jennifer Warnes, e così ho pensato che sarebbe stato bello immortalarlo su disco. Visto che Leanne Ungar stava già lavorando a questo ultimo album, è stato facile coinvolgerla anche nella produzione di Fields Commander Cohen. Devo confessare di essere fortunato ad avere delle collaboratrici così brave.”

Ascoltando le tracce di Ten New Songs, vuoi per l’essenzialità della voce, vuoi per la presenza di alcuni cori, viene alla memoria un suo album di parecchi anni fa, Death Of A Ladies’ Man. “È proprio quello che ha sostenuto mio figlio quando lo ha ascoltato per la prima volta; scherzando mi ha detto: ‘Perché non te lo sei fatto produrre da Phil Spector?’.”

A proposito del figlio Adam, che quando due anni fa è uscito il suo primo lavoro ha avuto parole di grande apprezzamento nei confronti del padre, viene naturale chiedere ora cosa ne pensi Leonard Cohen di lui. “È un bravo cantante e penso che abbia molto talento. Ha appena presentato alcune nuove canzoni in alcuni club di Los Angeles; sono andato a salutarlo nel camerino prima che salisse sul palco e ho notato che era molto nervoso. Non ci siamo detti niente, ma con uno sguardo mi ha ringraziato per il silenzio col quale avevo dimostrato di aver capito il suo stato d’animo.”

Adam Cohen nelle sue canzoni si è in realtà distinto per i testi irrequieti e pieni di sofferenza, una cosa strana per un ragazzo così giovane. Quando viene chiesto a Leonard se l’ascolto di quei pezzi gli ha permesso di capire maggiormente suo figlio e la generazione cui appartiene, risponde: “Ogni generazione se la deve vedere con le cose belle e brutte che offre la vita. Se poi c’è qualcuno, a prescindere da mio figlio, che ha la sensibilità di sintetizzare in una canzone stati d’animo che sono comuni e che narrano anche di sofferenza e difficoltà, credo che sia una cosa positiva sia per chi scrive che per chi ascolta.”

La poesia, soprattutto nella nostra cultura occidentale, è considerata un’espressione catartica, un modo per liberarsi dall’angoscia, e quando viene azzardata la domanda se in questo disco oltre alla sofferenza si vuole anche esprimere qualche gioia, Cohen liquida la faccenda con un “assolutamente no”. Ma c’è qualcosa che dà gioia a questo straordinario cantore del dolore? “Cosa mi dà gioia?”, dice ridendo. “Il concetto di gioia è molto personale, ma credo che sia un sentimento che si possa soprattutto donare. Potrei dire molte cose a proposito della felicità, ma probabilmente nessuno, all’infuori di me, potrebbe recepirne qualcosa di interessante a riguardo.”

Una volta Cohen disse che per salvarsi ci sono vari mezzi, per esempio la poesia, le canzoni e la preghiera. Possiamo contare – chiediamo – che nel futuro continui ancora ad utilizzare tutte e tre le possibilità? “Certo”, risponde Leonard, ma aggiungerei anche le donne e il vino.”

In effetti questi suoi testi così seri e la sua ricerca spasmodica della verità fanno di Cohen una persona molto posata, e ci si stupisce piacevolmente quando, per alleggerire la complessità degli argomenti trattati, si lascia andare a battute ironiche. Come quella volta in cui, durante la presentazione di un suo libro, una persona del pubblico affermò di aver tratto ispirazione dai suoi scritti per ripulirsi interiormente e smettere di fumare e si sentì rispondere che gusto provasse allora a vivere.

Nel disco c’è una canzone particolarmente bella, Alexandra Leaving, in cui la voce di Sharon Robinson si accompagna costantemente a quella di Cohen creando un effetto fascinoso, sorretto solo da pochi accenni di basso e da una batteria spazzolata. Gli chiedo la genesi di tale pezzo. “L’idea mi venne leggendo una poesia del grande poeta greco Cavafis dedicata ad Alessandria d’Egitto, la città in cui visse e amò moltissimo. Ho cercato di tradurla e trasformarla in canzone fin dal 1995, ma i risultati non sono mai stati soddisfacenti, mi sembrava di non riuscire a rendere quello che invece il poeta mostrava in modo evidente e così ho lasciato perdere. Recentemente ho ritrovato gli appunti e ho ricominciato a lavorarci sopra; Alessandria è improvvisamente diventato un nome femminile, Alessandra, e così sono riuscito a terminare la canzone.”

Cohen continua a dividere la sua passione per la musica con quella letteraria. Alle sue storiche raccolte di poesie Let Us Compare Mythologies (1961), The Spice Box Of Earth (1961) e Flowers For Hitler (1964) e ai suoi racconti The Favorite Game (1963) e Beautiful Losers (1966), si aggiungerà a breve una nuova collezione di poesie. “Ho appena finito di raccoglierle, sono più di cento, e non ho ancora neppure deciso che titolo dare alla raccolta: ho pensato a Blue Coffee, o The Book Of Longing, ma è ancora tutto in fase propositiva. È stato un periodo di lavoro molto intenso e avevo deciso di prendermi un po’ di libertà concedendomi un lungo viaggio, ma poi sono subentrati questi due dischi e ho dovuto rimandare ulteriormente.”

Ritornerà nell’isola greca di Hydra per altri sette anni come fece negli anni Sessanta?, gli viene chiesto scherzosamente. “Quella fu un’esperienza straordinaria sia dal punto di vista personale che professionale. Stavo scrivendo uno dei miei primi libri e avevo bisogno di raccogliere intorno a me tutto ciò che è importante per un uomo: una donna, dei bambini e molta serenità. Ma poi le cose cambiano, ho smesso di scrivere libri e ho cominciato con le canzoni.”

Le canzoni di Leonard Cohen si sono più volte prestate ad essere utilizzate nelle colonne sonore di celebri film, da I compari di Altman al più recente Natural Born Killers. Che effetto fa e cosa vuol dire essere presente con le proprie composizioni in pellicole così differenti; quale contesto considera più appropriato per i suoi lavori? “È sempre molto gratificante vedere scegliere le proprie canzoni anche per situazioni differenti da quelle strettamente concertistiche. Per quel che riguarda le mie preferenze non saprei, credo si possano prestare a vari tipi di film, dipende da quello che ha in mente di sottolineare il regista.”

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