15/05/2007

Lou Reed

Milano, Teatro Nuovo, 18 maggio 2003

Qualche spettatore si è incazzato. Alcuni commenti, dopo lo show, non erano dei più teneri per l’inaspettata performance vocale di questo Anthony, peraltro assai limitata: “Ho pagato per vedere Lou Reed cantare”, dicevano. Be’, questo show di Lou Reed è stato una sorpresa non solo per questo. Che dire del cinese intento a esibirsi in mosse di Tai Chi (Ren Guangyi) apparso improvvisamente sul palco durante All Tomorrow Parties? E la mancanza di un batterista? Ma soprattutto è stato un concerto formidabile, lasciatemelo dire. Usando un approccio minimale (l’assenza della batteria, appunto, e un uso molto limitato delle chitarre, più d’accompagnamento che altro), quasi lo-fi, in linea con l’approccio altrettanto minimale dei primissimi Velvet Underground, Lou Reed ha offerto una carrellata di una intensità e di una poesia straordinarie su tutta la sua carriera. Evitando l’approccio suo usuale, quello di presentare per intero il nuovo disco di turno, limitandosi a un paio di classici nei bis. Certo, presentare un disco impegnativo come The Raven era impossibile, eppure la performance di spoken word nel brano omonimo è stata di una bellezza devastante, chitarra a tracolla sulla schiena (à la Springsteen) e pugni chiusi alla Patti Smith e la sua inconfondibile cavernosa voce a terrorizzare l’ascoltatore: Lou Reed sembrava entrare così addentro gli incubi di Poe (e i suoi) che quasi avevi paura non potesse più trovare la strada per uscirne.

Ma tutto il concerto è stato giocato a livelli straordinari: da una divertente Smalltown (con botta e risposta con il pubblico) a una affascinante Street Hassle passando per un trittico che, permettetemi, al sottoscritto ha quasi strappato qualche lacrima per l’intensità della performance, e cioè, in sequenza, una Sunday Morning che ha invocato a gran voce il fantasma di Nico, una Venus In Furs apocalittica (con un solo della violoncellista dopo il quale John Cale dovrà abbandonare per sempre lo strumento, e con Reed in ginocchio davanti a lei incantato) e una ‘fumante’ All Tomorrow Parties in chiave acida e rock. Ma ancora: Dirty Boulevard carnevalesca e quasi buffa; Set The Twilight Reeling con un crescendo strumentale mozzafiato; Candy Says che Reed introduce con “Non sono mai stato capace di caantare questa canzone così lascio ad Anthony to take the shit out of. Candy Says”, con Anthony, che evidentemente prende il posto dell’amato Jimmy Scott, il vocalist jazz che Reed adora, a raggiungere vertici vocali strepitosi.

Tante le perle, dunque, di una serata magica, che qualche giornalista di casa nostra il giorno dopo (inventandosi una Walk On The Wild Side mai eseguita) ha definito “un viaggio nell’orrore, nel vizio e nell’inferno” e altre amenità. Reed, invece, assolutamente a suo agio sul palco e visibilmente sereno, ha narrato sì di un viaggio all’inferno, ma accaduto molti anni fa, di cui questo concerto testimonia invece la fine del tunnel e la possibilità, per chiunque, di raggiungere la luce e l’ottimismo di vivere. Certi luoghi comuni (che si ripetono come un cliché, quasi certi articoli fossero solo la fotocopia dei precedenti) dovrebbero finire: Lou Reed sta vivendo quel Perfect Day che, in conclusione di serata, il pubblico ha intonato con lui a voce spiegata.

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