13/05/2013

Low

Dal vivo il trio americano sembra suonare un’unica, interminabile canzone

Le immagini che scorrevano sullo sfondo hanno senza dubbio aiutato nei momenti durante i quali l’attenzione rischiava inesorabilmente di precipitare. Non che fossero immagini dal significato particolarmente profondo, ma erano adatte alla musica che si stava eseguendo qualche metro sotto di loro. Immagini evocative che bene si sono prestate alla musica dei Low, che salgono sul palco del Barbican per presentare il loro ultimo lavoro in studio The Invisible Way. Album molto ben prodotto da Jeff Tweedy (Wilco), che al Barbican viene riproposto per intero dal terzetto di Duluth; esecuzione molto fedele alla versione in studio, senza slanci improvvisativi. La loquacità non è il punto di forza di Alan Sparhawk e soci, che proseguono spediti come un treno senza cappelli introduttivi.

La prima parte del concerto – dedicata per buona parte a The Invisible Way – è senza ombra di dubbio la più interessante, caratterizzata dal pedale delle tastiere di Steve Garrington (Plastic Cup) e la chitarra satura di Sparhawk (On My Own). Il suono batteria di Mimi Parker è minimale come il suo apporto come batterista sul disco e di conseguenza dal vivo. Le atmosfere diradate che caratterizzano buona parte dell’ultimo album forse non si prestano a originali inserti di batteria, ma in questo caso si tratta davvero di tenere il tempo; insomma, l’impressione è che qualsiasi ragazzino dopo un solo mese chiuso in sala prove possa raggiungere (o addirittura superare) il livello della Parker. Basti pensare ad un bel pezzo come Just Make It Stop – che vede Mimi anche alla voce – dove l’unica cosa che davvero varrebbe la pena di fermare è proprio il suo strumento, dal quale non riesce a tirar fuori niente di originale.

È probabilmente questo uno degli aspetti che a lungo andare, rendono le due ore di concerto (forse troppe, ma comunque meno di quelle suonate nelle precedenti date londinesi) una sorta di unica e quasi infinita canzone; quella che inizialmente era una magnifica sensazione di sospensione e affascinante fluttuazione finisce col sembrare un loop dal quale sembra impossibile tirarsi fuori. Rimane l’amaro in bocca dopo due, interminabili, ore di concerto.

Foto di Chiara Felice

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!