31/10/2007

L’ULTIMO VALZER DEI LED ZEPPELIN

Nel novembre del 1968 il manager dei Led Zeppelin partì alla volta degli Stati Uniti con una missione: trovare un contratto discografico che assicurasse ai suoi protetti il controllo totale della loro musica. Le richieste del quartetto inglese erano tassative e prevedevano il controllo dell’intera macchina Zeppelin, dalla produzione artistica alla grafica dei 33 giri fino alla proprietà dei diritti d’autore. Mentre Jimi Hendrix si faceva abbindolare da affaristi senza scrupoli, loro reclamavano il governo della loro opera, una mossa che avrebbe fatto epoca segnando un precedente importante nel rapporto fra rocker e industria discografica. Peter Grant, il manager, era la persona giusta per portare a termine il compito. Era duro, arrogante, manesco, un ex buttafuori che non si lasciava intimidire facilmente. Se i Gang Zeppelin volevano una cosa, i Gang Zeppelin l’avrebbero avuta. E poi Grant non arrivava negli Stati Uniti a mani vuote. Aveva una merce di scambio pregiata: il mixaggio di prova del primo album del quartetto, che il chitarrista Jimmy Page, il cantante Robert Plant, il bassista John Paul Jones e il batterista John Bonham avevano confezionato in ottobre nell’arco di una trentina di ore, spendendo 1750 sterline. Era una bomba. Una cosa così non s’era mai sentita prima: rilettura potente e selvaggiamente sessuale del blues elettrico americano, era l’album che avrebbe cambiato per sempre il rock duro. Per dirla col raffinato Plant, “quel che usciva dalle casse era molto più eccitante di qualunque figa dell’intera Inghilterra”.
Dunque, nel novembre del 1968 Grant sbarcò in America trovando l’interlocutore che cercava nella Atlantic Records. Fondata vent’anni prima dal leggendario discografico Ahmet Ertegun, la Atlantic era diventata una delle etichette chiave in campo rhythm & blues, soul e jazz. S’era poi aperta al rock, che in quel 1968 stava sperimentando una fioritura senza precedenti, intercettandone alcuni degli esponenti migliori: il mercato giovanile stava cambiando e la casa discografica newyorchese ne era conscia. Era evidente che i Led Zeppelin erano il nuovo, checché ne pensassero gli inglesi, che li sommergevano di critiche. “È stato forse il miglior affare che ho concluso negli anni 60” racconta il socio e produttore di fiducia dell’etichetta Jerry Wexler. Lo fa nel volume What I’d Say: The Atlantic Story, rivendicando un ruolo centrale nella fase di contrattazione con gli Zeppelin. “Sapevo che esistevano e che c’erano stati abboccamenti con altre etichette, ma fu un suggerimento di Dusty Springfield che mi incoraggiò a mettermi sulle loro tracce. Anche Clive Davis e Mo Ostin (altri celebri discografici, ai tempi rispettivamente della Columbia e della Reprise, ndr) erano interessati, ma prevalsi offrendo agli Zep un contratto di cinque anni con un anticipo di 75 mila dollari per il primo anno, e un’opzione per altri quattro. Il loro avvocato, Steve Weiss, disse che per altri 35 mila dollari avremmo potuto assicurarci i diritti per tutto il mondo. Chiamai la Polydor, nostro distributore inglese, e suggerii loro di contribuire con 20 mila dollari, ma passarono la mano. Significava che la Atlantic doveva farsi carico di tutti e quanti i 110 mila dollari. Pagammo, e anche se l’anticipo fosse stato di un milione di dollari non avrebbe fatto alcuna differenza: qualsiasi cifra sarebbe stata recuperata perché gli Zep sono stati i best seller degli anni 70”. Pur essendo orgoglioso del contratto, Wexler non frequentò granché gli inglesi. Lo fece Ahmet, che prese a occuparsi di loro, “coccolandoli e nutrendoli”. E così, gli Zeppelin furono il primo gruppo inglese a essere pubblicato dalla Atlantic e non dalla sussidiaria Atco, creata a metà anni 50 e dedicata agli artisti che non rientravano nel format strettamente “black” dell’Atlantic dell’epoca. “Io” ha detto Page “volevo essere associato a qualcosa di più classico”. Voleva il suo posticino al fianco dei grandi e lo ebbe. Come ricorda Plant, “sapevamo che la Atlantic aveva un catalogo straordinario ed era in grado di offrire musica popolare di spessore. Riuscivano a pubblicare le cose migliori. Perciò l’idea che i nostri primi sforzi venissero ascoltati da tali magnati faceva paura, ma era pure favolosa. Ne ero orgoglioso. Il solo fatto di metterci sotto contratto fu straordinario, ma ricevere 8 mila sterline fu persino più impressionante. Fu l’inizio di un incredibile rapporto”.
È una storia da tenere bene a mente, questa, pensando alla reunion dei Led Zeppelin che si consumerà il 26 novembre prossimo alla 02 Arena di Londra durante una serata in cui il rock britannico rende omaggio a Ahmet Ertegun, scomparso nel dicembre 2006 a 83 anni dopo essere caduto nel backstage di un concerto dei Rolling Stones. Perché dietro la decisione di rimettere in piedi il gruppo per una sola serata c’è proprio la profondità del rapporto col boss della Atlantic, etichetta alla quale il quartetto fu fedele per l’intera sua storia. “Ahmet” ha detto Robert Plant ad Allan Jones di Uncut “era un amico e una spalla. Era un altro dell’entourage dei Led Zeppelin che venne da noi per realizzare i suoi sogni di follia. Lo faceva anche con John Coltrane e Ray Charles, il che è persino più stupefacente. Era un tipo dalla personalità incredibile, molto acuto e con un gran senso dell’umorismo. Erano grandi persone, Ahmet e la sua vedova Mica. Quando mi ha contattato, le ho detto che avrei fatto qualunque cosa per lei e per Ahmet”.
Page e Plant trovarono in Ertegun un interlocutore all’altezza delle loro aspettative, un amico e una sponda in quel mondo di gente raffinata e acculturata in cui loro, gli Zeppelin, erano malvisti. Fu lui a seguirne passo dopo passo la carriera, a sovrintendere l’ascesa da “nuovi Yardbirds” a padroni incontrastati della scena rock. Doveva essere uno strano spettacolo vederli insieme: lui, figlio d’un diplomatico turco trapiantato negli Stati Uniti, un uomo d’affari pieno di charme coi suoi gessati di sartoria; loro, hooligan rock con un appetito sessuale insaziabile, la fama di devastatori di camere d’albergo, consumatori di droghe col pallino per l’esoterismo. Il gentleman e i vichinghi uniti da un sogno comune.
Con la loro presenza alla serata del 26 – i cui ricavi vanno all’Ahmet Ertegun Education Fund che finanzia la scolarizzazione infantile in Gran Bretagna, Stati Uniti e Turchia – Jimmy Page, Robert Plant e John Paul Jones onorano un’epoca in cui la discografia era guidata da grandi talenti e rendono omaggio all’amico che per primo aveva creduto in loro. Se l’America aveva dato una chance a Ertegun, lui l’aveva data agli Zeppelin.

Dicono le cronache che il giorno in cui sono stati messi in vendita on line i biglietti per il concerto del 26 novembre il sito dei Led Zeppelin è andato in tilt per l’eccessivo traffico: pare si siano registrati 13 milioni di contatti, un’enormità. Gli organizzatori hanno superato l’empasse decidendo di estrarre i nomi dei 20 mila fortunati che potranno assistere allo show, su un milione di candidati. E tutto questo benché quello del 26 non sia un vero concerto della band, ma una serata di cui gli Zeppelin sono gli headliner affiancati dai Rhythm Kings di Bill Wyman, Pete Townshend degli Who, il giovane cantautore pop Paolo Nutini e i vecchi Foreigner. Attorno alla reunion degli Zep, che si esibiranno con Jason Bonham seduto alla batteria al posto di papà John, s’è scatenato un interesse senza precedenti: pochi altri gruppi rock potrebbero suscitare la stessa euforia tornando a suonare assieme, forse solo i Pink Floyd con David Gilmour e Roger Waters. La domanda è: perché?
È ovviamente a causa dell’indiscutibile status leggendario degli Zeppelin, che da solo però non basta a spiegare un’attenzione attorno al gruppo assente una ventina d’anni fa, quando la prospettiva di una reunion era decisamente più concreta. Sono cambiati i tempi: allora il classic rock era considerato un avanzo putrescente del passato, mentre oggi è considerato il periodo aureo del rock, l’espressione più creativa e per certi versi genuina di questo stile. E poi: allora musicisti come Jimmy Page e Robert Plant (e con loro i Neil Young, i Paul McCartney, i Bob Dylan) attraversavano una fase calante. Incapaci di riproporsi ai livelli degli anni d’oro, a volte impegnati in maldestri tentativi di restare al passo coi tempi, incespicavano nel proprio status, producendo esibizioni di routine e dischi mediocri. Oggi invece Page e Plant paiono in discreta forma: il primo ha avuto una carriera solista stentata e artisticamente fallimentare, però ha dimostrato d’essere un custode affidabile della leggenda degli Zeppelin; il secondo ha approfondito il suo interesse verso musiche altre, dal blues del deserto dei Tinariwen alla canzone d’autore virata country di Alison Krauss, smarcandosi dall’immagine stereotipata di divinità sexy del rock che non s’addice più ai suoi 59 anni. L’attenzione verso la reunion è fomentata anche dalla rarità dei concerti degli Zep dopo la reunion, oltre che naturalmente dall’invecchiamento dei fan del rock che chiedono di (ri)vedere i loro idoli e, chissà, forse anche dalla mancanza di nuovi fenomeni di portata epocale in ambito rock.
“Ho sentito che suoneranno solo mezz’ora” ha detto un pungente Mick Jagger “e sarebbe un peccato: da quel che ricordo solo l’assolo di batteria durava una trentina di minuti. Non si sono fatti vedere per vent’anni e ora raccolgono i frutti”. È sostanzialmente vero. Col passare degli anni l’assenza della band non ne ha diminuito, ma accresciuto lo status. Al contrario dei Rolling Stones che hanno continuato a esibirsi in modo più o meno saltuario dissipando una parte dell’alone di leggenda che li circondava, gli Zep sono ancora circondati dall’aura del mito e non hanno ancora speso la riserva di credibilità guadagnata nella dozzina d’anni in cui hanno inciso e si sono esibiti. La loro reputazione è intatta e, in retrospettiva, il sensibile calo di creatività di fine anni 70 è un particolare poco più che insignificante a fronte dei traguardi artistici e commerciali tagliati. Infine, la moltiplicazione di gruppi che si sono a loro ispirati ne ha migliorato il profilo. Dalle Heart a David Coverdale, non sono mai mancati gli artisti che si sono palesemente ispirati al sound di Jimmy Page o allo stile di Robert Plant. Ma la rinascita dell’hard rock in forma viscerale all’inizio degli anni 90 – segnata dal successo commerciale di band come Soundgarden, Jane’s Addiction, Rage Against The Machine e Pearl Jam, tutta gente che ha imparato a memoria i dischi di Page & Plant – ha iscritto definitivamente gli Zeppelin nel novero dei grandi originali della storia, tra i riferimenti imprescindibili per chi decide di suonare rock con un certo impatto. Si chieda conferma al maiuscolo Jack White o anche solo ai minuscoli Wolfmother. Come i Beatles per la canzone melodica o Dylan per la poesia rock, gli Zeppelin sono diventati degli archetipi: ascoltarli oggi significa vedere l’originale in un mondo di copie.
C’è un motivo di interesse in più: l’evento londinese potrebbe assumere i contorni dell’addio definitivo, diventando la pietra tombale sulle residue speranze di assistere, un giorno, a un vero tour del gruppo di Stairway To Heaven. Se il promoter Harvey Goldsmith, lo stesso del Live Aid, ha fatto intendere che non è escluso che la reunion abbia un seguito e se Page ha detto al New Musical Express che “non mi sorprenderebbe se dalla reunion nascesse del nuovo materiale” (un wishful thinking, direbbero gli anglofoni), Plant ha spiegato di non essere più interessato al brivido che si prova suonando davanti a platee sterminate, aggiungendo che rifare gli Zeppelin sarebbe ridondante. “Sarebbe” ha detto “una sorta di commedia. Una Stairway To Heaven On Broadway”. Infine, ha ricordato che dopo la morte del figlio Karac nel 1977 “lo stile di vita eccessivo dei Led Zeppelin andava modificato, ed è quel che ho fatto”. Il che significa anche non doversi più esibire in orridi palasport e lavorare al fine di attrarre quanto più pubblico possibile. Perciò, a scanso di equivoci, Plant ha chiarito ad Uncut che quello del 26 sarà un episodio isolato: “Dobbiamo fare un ultimo grande show perché quelli che abbiamo fatto (dopo lo scioglimento, nda) erano penosi. Un ultimo concerto e poi basta”.

Non è la prima volta che i Led Zeppelin si materializzano su un palco da quel 4 dicembre 1980, il giorno in cui un comunicato stampa rendeva nota la decisione di sciogliere il gruppo dopo la morte di Bonhan: “La perdita del nostro caro amico e il profondo senso di armonia sentito da noi e dal nostro manager ci hanno portato a decidere che non possiamo continuare così come eravamo”. Pur avendo sostanzialmente tenuto fede a quella dichiarazione – un fatto stupefacente se pensiamo alla quantità di reunion cui si è assistito negli ultimi 10 anni, alle proposte economiche che Page e Plant devono avere ricevuto, alla vanità dei due personaggi – gli Zeppelin sono saliti sul palco in veste per così dire ufficiale in altre tre occasioni, e con esiti non sempre esaltanti. La prima volta è accaduto per il Live Aid, il superconcerto benefico organizzato da Bob Geldof il 13 luglio del 1985. “L’avvenimento” avrebbe poi detto Plant “era di gran lunga più importante della mia determinazione ad evitarlo”. Page, Plant e Jones salirono sul palco con due batteristi (Tony Thompson degli Chic e Phil Collins) e con Paul Martinez, ai tempi bassista nella band di Plant (quando Jones era alle tastiere). “Il fatto che il pubblico stesse cantando in coro un quarto d’ora dopo la fine, tutta quella gente che piangeva… è stato più potente di quanto possa dire a parole” ha detto Plant, che nel backstage ricordava che, ehi, quelli erano gli anni 80 e lui aveva una carriera solista, mentre Page sogghignava tra il divertito e l’amareggiato (o l’ubriaco). Il risultato dal punto di vista artistico fu insoddisfacente, forse perché il gruppo aveva provato solo un’ora e mezzo, forse per problemi di amplificazione e strumentazione, forse perché per i due era un periodo artisticamente fiacco: il quarto d’ora di performance impressionò solo chi non aveva mai visto la band dal vivo. Gli Zeppelin erano talmente insoddisfatti da escludere la loro esibizione dal dvd benefico dedicato all’evento e pubblicato nel 2004, offrendo in cambio una parte dei ricavati di un video di Page & Plant. Eppure il riavvicinamento sembrò per un attimo dare vita a una reunion stabile. Nel gennaio del 1986 Page, Plant, Jones e Thompson tornarono a provare in uno studio vicino a Bath, in Inghilterra. “Il primo giorno che abbiamo suonato insieme” disse Page a chi scrive alcuni anni fa “ci trascinavamo per lo studio e c’era molto nervosismo. Il secondo giorno stava quasi funzionando, ma Tony Thompson ebbe un incidente d’auto. È il destino. Ecco cos’è. E io non voglio combattere il destino, mi lascio trasportare dal suo flusso”. La partita non era comunque chiusa. Due anni dopo, per la precisione il 14 maggio 1988, i Led Zeppelin salirono sul palco del Madison Square Garden di New York cercando di riscattare la performance del 1985: non ci riuscirono. In una formazione a quattro con Jason Bonham alla batteria, suonarono in occasione dei festeggiamenti per il quarantennale dell’etichetta Atlantic. Plant era talmente teso da incespicare nel testo di Stairway To Heaven; prima dell’inizio c’era stata una discussione tra il cantante e il chitarrista circa l’opportunità di suonare per l’ennesima volta la loro canzone-inno. Il clamoroso riavvicinamento tra Page e Plant del 1994 per il progetto No Quarter tagliò fuori un amareggiato John Paul Jones che durante la cerimonia per l’ingresso del quartetto nella Rock And Roll Hall Of Fame il 12 gennaio del ’95 ringraziò infine i compagni “per avere ritrovato il mio numero di telefono”. In quell’occasione si consumò l’ultima riunione: Page, Plant, Jones e Bonham furono raggiunti sul palco del Waldorf-Astoria di New York da alcuni ospiti, Neil Young, Steven Tyler e Joe Perry degli Aerosmith. Session molto più informali degli Zep hanno avuto luogo nel luglio dell’89 alla festa di compleanno di Carmen Plant e nell’aprile del ‘90 al ricevimento di nozze di Jason Bonham. Ma in ogni caso, le reunion sono sempre state episodiche, un modo per visitare momentaneamente la gloria che fu senza venire risucchiati dal passato – o almeno questo è l’attuale pensiero del cantante che è arrivato persino a rifiutare di comparire alla cerimonia dei Grammy del 2005, quando agli Zeppelin fu assegnato un premio alla carriera. E di certo sembra avere bisogno degli Zeppelin molto meno di Page. Finché pubblicherà dischi nei quali riesce a esplorare in modo assolutamente convincente mondi sonori per lui inconsueti, come avviene in Raising Sand, prodotto da T-Bone Burnett e inciso in coppia con Alison Krauss, fino a quel giorno Plant avrà ragione e potrà considerarsi “intrepido”.

La scomparsa di Ahmet Ertegun ha allontanato la possibilità – fino al 2006 decisamente concreta – della produzione di un nuovo disco degli Honeydrippers. Il gruppo era nato a metà anni 80 su iniziativa di Plant e di Ertegun con l’idea di pubblicare un disco di vecchio rhythm & blues e rock’n’roll suonato da grandi musicisti la cui levatura non doveva essere enfatizzata. Un supergruppo, sì, ma di basso profilo, che prendeva nome da una vecchia band R&B di Joe Liggins e che vide riuniti tra gli altri Plant, Page, Jeff Beck e Nile Rodgers degli Chic. Il divertissement ebbe successo: spinto dai languori anni 50 della ballata Sea Of Love, il minialbum Honeydrippers Volume One uscì nell’autunno del 1984 e divenne disco di platino. Plant ed Ertegun hanno discusso in più occasioni di dare un seguito al progetto e chissà se ora il cantante deciderà di farlo senza l’aiuto dell’amico, che nei crediti del primo volume compariva come produttore celato dietro lo pseudonimo di Nugetre.
La canonizzazione dei Led Zeppelin anno domini 2007 è comunque accompagnata da due pubblicazioni (vedi pagina 40): una è la doppia antologia senza inediti Mothership, l’altra la ristampa di The Song Remains The Same, il film-concerto e doppio album dal vivo che immortalò il quartetto dal vivo senza però coglierne il reale impatto live. In quest’ondata revivalista, con Page che posa incanutito ma signorile per il mensile inglese Q e Plant che duetta con una giovane signora del bluegrass e concede interviste apparendo saggio e charmant, quasi ci si scorda che i Led Zeppelin sono stati eccessivi, volgari e sgradevoli. E che ciò è parte del loro fascino e del loro lascito. C’è un pezzo di Zeppelin in qualunque altro giovane rocker che vive la sua età con strafottenza e incoscienza. E c’è un pezzo di Zeppelin in qualunque band abbia creato un legame stretto col proprio pubblico, tanto stretto da finire per identificare un “noi” (la band e i suoi fan) e un “loro” (la stampa, il potere, il mondo là fuori). Forse il modo migliore di ricordarlo è attraverso le parole di Ertegun, l’uomo che ha lanciato la loro carriera e ne ha involontariamente propiziato il ritorno: “C’era una grande mistica attorno ai Led Zeppelin creata dalla band e soprattutto da Jimmy” ha detto il discografico “e dal loro manager Peter Grant: non lasciava che alcuno si avvicinasse ai musicisti per la paura che parlassero rovinando l’aura di mistero. Il gruppo non concedeva interviste e non appariva in televisione. Di conseguenza, quando si cacciavano in ogni tipo di avventura, le loro buffonate venivano esaltate dalla stampa. Distruggevano camere d’albergo, lanciavano televisori dalle finestre, andavano in moto nei corridoi. Ordinavano casse di Dom Perignon come se non ci fosse un domani e si ficcavano in ogni tipo di situazione bizzarra: era pura pazzia”.
Era pazzia, sì, era mistica ed eccitazione – esattamente quel che manca al rock oggigiorno. Era sensualità e violenza. Era una strepitosa macchina da musica. Era una band inarrivabile. E se davvero quella del 26 novembre sarà una singola serata che non avrà alcun seguito, un ultimo valzer in omaggio a un vecchio amico, allora la magia resterà intatta.

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